Copeau, Decroux, Marceau: la vita e il legame artistico all’ombra del nazismo
Nella mordace teatralità della vita, filo rosso congiunse tre artisti, sullo sfondo del sipario che oppressione nazista calò definitivamente su sventurate anime.
Il teatro non è il paese della realtà: ci sono alberi di cartone, palazzi di tela, un cielo di cartapesta, diamanti di vetro, oro di carta stagnola, il rosso sulla guancia, un sole che esce da sotto terra. Ma è il paese del vero: ci sono cuori umani dietro le quinte, cuori umani nella sala, cuori umani sul palco.
Victor Hugo
Suolo parigino ebbe il privilegio di concedere i natali, nel 4 febbraio del 1879, a colui che della sua vita seppe essere protagonista nelle vesti di regista teatrale, attore, critico e drammaturgo che, al nome di Jacques Copeau, seppe corrispondere persona il cui vissuto si filò in sentito operar al servizio del proprio spirito.
Un immenso spirito.
Ed una propensione ad infonderne l’essenza in ogni sua realizzazione, estroso talento ch’egli seppe confluire nella fondazione della prestigiosa Nouvelle Revue Française, rivista letteraria francese di storico riferimento, della quale fu direttore fra il 1912 ed il 1914, fondata nel 1908 unitamente al diplomatico, drammaturgo e poeta Paul Claudel, agli scrittori André Gide e Jean Schlumberger ed al romanziere, critico letterario e pubblicista Jacques Rivière, nonché in collaborazione con il medico, scrittore e poeta Henri Ghéon, il romanziere, saggista, poeta, critico e traduttore Abdré Ruyters e gli scrittori Charles-Louis Philippe ed Eugene Montfort.
Nato da una famiglia di piccoli commercianti, il sensibile animo di Coupeau si mostrò da subito d’indole spiccatamente osservativa e propensa alla recitazione, passione ch’egli manifestò precocemente nell’entusiasta lettura di poemi epici, in primis l’Iliade e l’Odissea, dei quali poi sperimentava solitaria rappresentazione in veste d’omerico eroe, affinando in seguito la sua dote naturale nella frequentazione di serate a tema teatrale e letterario. Completato il percorso liceale ed intrapreso nuovo studio accademico, non portato a termine, alla facoltà di lettere e filosofia della Sorbonne, empatia d’animo lo coinvolse visceralmente negli anni che furono infiammati dall’Affare Dreyfus, l’equivoco conflitto politico-sociale di cui fu innocente vittima, per l’appunto, l’alsaziano capitano militare francese, d’origine ebraica, Alfred Dreyfus (1859-1935), ingiustamente condannato per alto tradimento da un tribunale militare, imprigionato e successivamente riabilitato dalla Corte di Cassazione nel 1906.
Ultimogenito dell’industriale ebreo Raphäel Dreyfus e della sarta Jeannette Libmann-Weill, Alfred ed i nove fratelli srotolarono la propria infanzia in quelle terre che, a seguito della sconfitta francese nella guerra contro la Prussia, combattuta nei dieci mesi a cavallo fra il luglio del 1870 ed il maggio del 1871, furono annesse al neonato Impero germanico; modifica geopolitica che, agli abitanti dell’Alsazia e della Lorena, impose l’alternativa se divenir rifugiati francesi o sudditi tedeschi, decisione che per la famiglia Dreyfus coincise con la scelta della nazionalità francese e conseguente trasferimento in quel di Parigi dove Alfred, frequentata l’École polytechnique, divenne ufficiale d’artiglieria e, previo ulteriore corso di formazione nel 1890, intraprese strada per divenir ufficiale delle forze armate, arricchendo la carriera, nello stesso anno, dell’amoroso sentimento che l’unì in matrimonio a Lucie Hadamard, dalla quale ebbe i figli Pierce, nel 1891, e Jeanne, nel 1893.
Nel settembre dell’anno successivo, all’ambasciata di Germania venne ritrovata una lettera contenente segrete informazioni sui militari francesi, destinata ad un ufficiale tedesco; la tal missiva, sequestrata dal contro spionaggio, fu motivo di condanna nei confronti di Alfred, essendo la calligrafia della stessa incredibilmente somigliante alla sua. Nonostante la mano che mosse la penna appartenesse, in verità, all’agente segreto Ferdinand Walsin Esterhazy, Dreyfus venne a rappresentar l’ideale capro espiatorio da colpevolizzare, sul filo del dilagante sentimento antisemita della Francia di quegli anni, peraltro ulteriormente avvelenata dalla recente perdita dell’Alsazia.
Inutili ed inascoltati furono i numerosi tentativi di difesa, fra i quali la relazione presentata dal nuovo capo dell’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore, il colonnello Georges Picquart, dopo la scoperta d’un nuovo documento che avrebbe potuto certificare la colpevolezza di Esterhazy; a seguito della sua insistenza a riguardo Picquart, oltre a non esser preso in minima considerazione, venne rimosso dall’incarico ed inviato in Tunisia.
Fra i più accaniti sostenitori di Dreyfus fu il fratello Mathieu, il quale, nel 1897, rivolgendosi al ministro della guerra, denunciò la reale colpevolezza di Esterhazy, da lui accusato d’aver contraffatto i documenti che avrebbero avvallato l’innocenza di Alfred; in tutta risposta, fu lo stesso Ferdinand, consapevole dell’influenti amicizie ad alti livelli su cui poter contare, a chiedere d’esser convocato davanti al tribunale militare che, secondo quanto da lui stesso previsto, lo assolse all’unanimità.
Un tremendo colpo al cuore ed alla fiducia nella lealtà dell’impianto giudiziario.
Al processo di Rennes, nel 1899, Dreyfus fu miseramente condannato ad una decade di prigionia, nonostante i numerosi sforzi per dimostrarne l’estraneità ai fatti. Fra questi, la toccante lettera aperta che il giornalista e scrittore Émile Zola scrisse all’allor presedente Félix Faure, pubblicata, il 13 gennaio 1898, dalla testata L’Aurore ed il cui celebre titolo, J’Accuse, fu l’incipit d’un accorato, puro, sentito, onesto e rigoroso grido, nonché pubblica denuncia, contro la corruzione d’un sistema giudiziario operante per convenienza, a discapito della sacrosanta verità.
Riabilitato sette anni dipoi, Alfred si vedrà congedare dall’esercito a causa della comprensibile debilitazione causata dalla prigionia, rientrando comunque nelle file militari, allo scoppio del primo conflitto mondiale, come maggiore dell’artiglieria, e divenendo in seguito tenente colonnello ed acquisendo il grado di ufficiale della Legion d’onore, nel 1919.
Il 12 luglio del 1935 Dreyfus abbandonò la propria anima all’eternità in suolo parigino, con medaglie il cui petto sottostante atroci vicissitudini avevano pietosamente sfondato, fra le quali un attentato in cui venne ferito, nel 1908, mentre assisteva alla cerimonia di trasferimento delle ceneri del deceduto Émile Zola al Pantheon, con successivo verdetto d’assoluzione nei confronti dell’attentatore.
Sepolto nel cimitero di Montparnasse, la sua tomba s’onora di riconoscenti e meritate parole.
Ad appena cinque anni dalla sua dipartita, gli ebrei verranno esclusi da qualsiasi impiego pubblico e da varie professioni, sul nascere d’un nuovo Statuto, precedente le imminenti deportazioni.
La stessa nipote di Alfred, Madeleine Lévy Dreyfus, in servizio presso la Croce Rossa e membro del movimento “Combat” appartenente alla Resistenza francese, fu deportata ed uccisa nel campo di Auschwitz, appena venticinquenne, nel gennaio del 1944.
La moglie Lucie sopravvisse, sfogando in una frase ad una delle nipoti la sua incredula disperazione: «È così tragico. Il mondo è impazzito. Tutti questi massacri sono perpetrati nel mezzo dell’indifferenza generale».
Sull’Affare Dreyfus, l’opinione pubblica francese si fece come terra da terremoto violata, nettamente suddivisa tra posizioni intellettual-politiche che tacciavano il tal accaduto come clamoroso episodio di pregiudizievole e nazionalista radice antisemita, in preda a cieco razzismo, e patriottardi militari mossi da fanatico sciovinismo.
La vicenda giudiziaria di Dreyfus fu dunque emotivamente impattante sull’emozional ricettività di Copeau, non solo, la lettera di Zola lo colpì talmente da lacrimarne abbondantemente il filantropico percepire interiore; perseverando, nel medesimo periodo, ad arricchire la propria cultura attraverso un profondo avventurarsi in scritti e saggi letterari, in lui germinava progressivamente lavico desiderio di fondare una rivista d’arte drammatica.
Lupus in fabula fu la morte del padre, nel 1901, a conseguenza della quale Jacques fu costretto a prendere la direzione dell’azienda di famiglia, con risultati deludenti; dello stesso periodo l’intersecar le proprie inclinazioni al nascer dell’amicizia con André Gide, fondamentale frequentazione sulla quale, sette anni dopo, sarebbe nata appunto la Nouvelle Revue Française, ma non prima d’aver sperimentato varie esperienze in ambito teatrale e nel commercio d’opere d’arte pittoriche.
All’autonomia artistica, anima della tal rivista, corrispose indipendenza e ed iniziale affrancamento dagli scrittori più in voga dell’epoca, divenendo nel tempo principale rivista letteraria di riferimento, seppur con temporanee sospensioni dell’attività dovute ai due conflitti mondiali e ad accuse di collaborazionismo che, dopo la Liberazione, ne proibirono le pubblicazioni fino al 1953, restando ad ogni modo istituzione giornalistica di primo rilievo ed alla quale si riferirono le riviste letterarie in seguito fondate.
Schiettezza mentale, indole avanguardista e lungimirante risolutezza di Coupeau, ad un lustro dalla fondazione della rivista, misero seme al progetto che vide affidata la ristrutturazione d’uno spazio scenico della vecchia sala teatrale dell’Athénée-Saint-Germain all’architetto Francis Jourdain, peraltro, quest’ultimo, anche disegnatore e pittore dalla cui professionalità prese forma la nuova struttura, in attività dal 1913, all’epoca rinominata Théâtre du Vieux-Colombier ed il cui emblema, effigiante una coppia di colombe e suggerito dal pittore puntinista Thèo Van Rysselberghe, s’ispirò alla pavimentazione della fiorentina basilica abbaziale di San Miniato al Monte, marmorea e magistrale opera d’arte raffigurante il variegato bestiario di tipologia medievale.
Obiettivo della compagnia teatrale ivi esibente, fu la rimodulazione della scena francese, un approccio recitativo gravido d’un simbolismo finalizzato ad una reimpostazione della teatralità intesa come ritorno alla classicità in cui il messaggio primo fosse uno spirito critico nei confronti dell’eccessiva industrializzazione, richiamando a sé quella parte di gioventù che con lui volle condividere la rappresentazione di tradizionali ed intramontabili capolavori, recitandone il culto tramite espressività poetica ed autentico stile, privo di qualsiasi ostentazione che fosse mina alla sostanza recitativa.
Addolorato per la partenza di numerosi attori al fronte, lui stesso esonerato per principio di tubercolosi, indomito pathos e focosa determinazione lo spinsero all’ideazione d’una scuola di recitazione, ove la magmatica spinta eruttò dalla convinzione che l’avvicinar al teatro gl’infanti e ragazzi, ritenuti tabulae rasae ancor prive d’ indottrinamenti, fosse la salvezza del teatro stesso.
La formazione da lui concepita, abbracciò un generale livello di cultura ove l’aggiunta della musica e della ginnastica avrebbero meravigliosamente condotto a sublimi esperienze saggiate tra mente e corpo, delineando un percorso artistico a tuttotondo in cui l’utilizzo di maschere e l’insegnamento del mimo nutrissero l’improvvisazione, a tutela della spontaneità.
L’intento primo di Copeau, la cui valenza raggiunse l’apice nell’impronta pedagogica ch’egli lasciò a bordo palco, fu il rinnovamento d’un teatro che lentamente stava perendo nel suo adeguarsi a logiche di mercato ed il cui asservimento collimava con la subordinazione dell’arte all’attore, apatica modalità di rapporto che Copeau concepiva invece in maniera differente, ovvero nel reciproco ed interattivo misurarsi, donarsi ed evolversi, lasciando che il corpo, attraverso la recitazione, potesse divenire un mezzo di profonda conoscenza di se stessi ed una fine maniera di condividersi con il mondo, saturando di ritualità la mera spettacolarità dell’esibizione.
Il recupero della povertà scenica, senza ricorrere a superflui sfarzi ed eccessivi tecnicismi, dona all’attore il privilegio della nudità d’un palco di cui egli possa divenir la scenografia, il movimento da seguire, il personaggio da vivere e proporsi pertanto al pubblico in un tentativo di comunicazione cha abbia origini arcaiche e pure, a partir dalla scelta dei testi da portare a rappresentazione.
Ecco dunque che il Vieux Colombier fu scuola di vita ancor prima che corso di recitazione, un cammino iniziato da una graduale percezione del proprio corpo nelle sue componenti psico-fisiche ed emotive, una graduale padronanza di sé ben lontana dal divenire arrogante saccenteria proposta dall’alto, ma predisposizione alla tranquillità, all’onestà intellettiva, alla riflessione.
Un ricamarsi bellezza interiore da sfiatare in sopraffina e cristallina gestualità, in dono allo spettatore, nell’intimo intendersi sul sottile confine delle differenze d’ognuno, nella delicata ramificazione del linguaggio universale che rende ogni gesto, ogni sorriso, ogni sguardo, unanimemente condivisibili ed egualmente degni d’assoluto rispetto.
E’ bello pensare che gli uomini abbiano migliaia di linguaggi estremamente complessi,
per esprimere i loro concetti più profondi, e che un Europeo, un Indiano e un Arabo,
riflettano la loro gioia esattamente nello stesso identico modo: ridendo.
Anonimo
Étienne Decroux: il padre del mimo moderno
Uno fra i numerosi artisti la cui formazione avvenne fra le mura del Vieux Colombier fu Étienne Decroux, attore teatrale e cinematografico che lavorò al fianco di celebri personalità quali l’attore, commediografo e scrittore Antonin Artaud ed il regista ed attore Charles Dullin, giungendo a fondare una propria Scuola di Mimo a Parigi nel 1940 ed iniziando a portare i suoi spettacoli in giro per il mondo.
Nato a Parigi nel luglio del 1898, intraprese carriera teatrale al venticinquesimo anno d’età, nel 1923, ed i primi anni lo videro dedicarsi al mimo moderno fino a quando, nel 1931, l’incontro e la collaborazione con l’attore, regista e mimo francese Jean Louis Barrault stimolarono entrambi alla sperimentazione d’una nuova forma di mimo che Decroux definirà “corporale”. Fra le decine di ruoli teatrali e pellicole che interpretò fra il 1926 ed il 1945, nel famoso film Les enfants du paradis, girato nella Parigi all’epoca dell’occupazione nazista, recitò a fianco dello stesso Barrault, protagonista nel ruolo d’un noto pantomimo del diciannovesimo secolo, Jean Gaspard Deburau, di cui Étienne interpretò il padre. Proprio allo stile mimico-narrativo di Deburau s’ispirerà Marcel Marceau, il più celebre e stimato allievo di Decroux.
Ironico, bizzarro, dissacrante, innovatore, vulcanico ed infaticabile uomo dal perforante sguardo e dalla spiccata sensibilità, era in Étienne la radicata convinzione che un coordinato ed equilibrato movimento del corpo rappresentasse l’essenza vera e propria della bellezza, che un paziente, meticoloso ed incessante plasmarne l’oscillazione alla mimica arte, fosse bruciante passione a cui rendersi devoto rinascendo in essa, senza per questo rinunciare alle lusinghe di prosa e poesia e rimanendo allo stesso tempo, innamorato della parola nella sua ricercatezza discorsiva.
Artista camaleontico, integro, provetto, animo screziato da iridescenti nuances sfumate fra danza e recitazione come polvere di pastello delicatamente effusa con le dita su quel foglio di carta ch’è il palcoscenico, talmente potente quando scevro d’eccesso scenografico da conceder all’artista impagabile esperienza d’evoluzione in cui il protagonismo divenga un elargirsi al di fuori di qualsiasi ostentazione.
Considerato il padre del mimo moderno, l’allievo di Copeau seppe far della corporeità il mezzo primo della comunicazione, in voluttuoso porsi attraverso una fisicità maniacalmente sperimentata, interpretata e rielaborata in purezza e flessuosità di movenze. Del Vieux Colombier l’affascinò il progetto formativo attraverso il quale l’attore veniva spronato a prender coscienza dell’espressività del proprio corpo, tramite esercizi di mimo con maschere neutre e duri allenamenti rinforzanti le capacità comunicative. Ritenendolo un fondamentale punto di partenza, nella scuola da lui fondata seppe rivisitare l’arte del proprio maestro allontanandosi dalla tradizionale pantomima ottocentesca, improntata prevalentemente sulla mimica facciale e sulla gestualità manuale, traslando il proprio interesse al tronco del corpo, considerato come elevato mezzo espressivo.
Nella spettacolare pantomima a lui caratteristica, poi trascritta nel trattato Il mimo corporale drammatico, Decroux inglobò l’universo fra ventre e pelle, perfettamente in grado di divenir or foglia piegata dal vento or musicalità dello stesso fra le fronde; uomo piegato sui propri pensieri nell’arte d’un movimento corporale da rendere spartito su cui impattar a leggere il silenzio e renderne percepibile la musicalità.
Il drammatico stile di Decroux mise al centro il proprio corpo ricreando il dramma della vita nelle sue mille sfaccettature emotive, vibrando sensazioni fra ritmi e tecnica, con un approfondimento ed una ricerca così approfondite e zelanti, da valergli un riconoscimento artistico mondiale.
L’immane sforzo a cui egli dedicò l’intera vita fu il codificare i gesti in una sorta di grammatica da assimilare al fine di padroneggiar ogni muscolo, rendendoli indipendenti l’uni dall’altri ed originando una disciplinata danza in cui si raggiunga la statuaria geometricità del muoversi.
I principi teorici e pratici, raccolti nel libro Parole sul mimo, con annessi saggi, articoli e conferenze varie, abbigliano pagine in cui poter leggere un cinquantennio di duro lavoro in cui la fatica, a partir dall’estenuanti esercizi sotto guida di Copeau, divenne un vero mestiere, passo dopo passo, verso la realizzazione d’un sogno.
Parlando di Jacques come del sommo maestro che ne calamitò sul palco la gioventù, egli amava ricordarlo come colui che «ci accendeva così bene che quelli di noi che lo lasciavano portavano il fuoco con noi», quasi esser stato egli stesso lo zolfo che Jacques seppe sfregare ed infiammare vorticosamente fra corpo e spirito, una dirompente esplosione deflagrante i rigidi confini della tradizione nella modalità di linguaggio la cui silenziosa corporeità surclassò ogni loquace oratoria.
In un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza.
Pier Paolo Pasolini
Marcel Marceau: l’impensabile che diviene possibile
Fu la città di Strasburgo ad accoglier la nascita, nel 22 marzo del 1923, del più significativo allievo di Étienne Decroux: Marcel Marceau, nato Marcel Mangel da una famiglia ebraica francese, Ann Werzberg, la madre, Charles Mangel, il padre, di professione macellaio kosher (macellazione rituale secondo le regole ebraiche) ed infante precocemente affascinato da Charlie Chaplin, nel personaggio di Charlot, ch’egli ebbe ad ammirare immensamente fin dal quinto anno d’età.
Il cognome “Marceau” venne adottato durante l’occupazione tedesca, in richiamo al generale rivoluzionario francese François Severin Marceau, il cui spirito riecheggiò nell’animo di Marcel nella decisione d’aderire, insieme al fratello Simon (Alain) ed al cugino George Loinger, ad un gruppo di resistenza francese nel 1942. Tre anni prima, allo scoppio del secondo conflitto mondiale, il sedicenne Marcel s’era rifugiato con la famiglia a Limoges, un segreto e silenzioso fuggire, soggiogato dal timore d’esser braccato, che sull’innata indole recitativa di Marceau fu probabilmente primo e terribile insegnamento di vita “sul campo”, a cui egli avrebbe saputo dare un glorioso risvolto futuro; racconto a riguardo narra d’un Marcel prelevato nel 1943 dalla Gestapo, nella metropolitana di Parigi, salvato dalla massiccia dose d’autocontrollo a lui congeniale, e non fu caso isolato, nel recitar la parte d’un innocente civile.
Differente ed ingiusta sorte toccò all’amato padre, deportato a Drancy , poi ad Auschwitz ed ivi ucciso insieme a milioni di ebrei. La madre sopravvisse, lei, la donna che, portandolo a vedere un film di Charlie Chaplin aveva inconsapevolmente gettato nel figlio istantaneo seme germogliante sull’amor per il mimo, fu fortunatamente risparmiata al deprecabile sterminio.
Terminata la guerra, nel 1946, a Parigi, Marcel conobbe quello che sarebbe stato il suo mentore, per l’appunto Étienne Decroux, che ne riconobbe le capacità artistiche e lo coinvolse nel suo rivoluzionario progetto mimico. Amor per Chaplin diede i suoi frutti l’anno successivo, creando quello che sarebbe presto tempo divenuto il suo personaggio più celebre, Bip il Clown, plasmato sulle sembianze del vagabondo di Charlie ed intraprendendo un percorso, durato un sessantennio, in cui quella che lui amava definire la sua “arte del silenzio”, sfondò l’anime dell’intero globo.
Bip, dai pantaloni bianchi, scarpe da acrobata, sbrindellato cappello a cilindro con rosa rossa, maglione a righe e gilet dai grandi bottoni, nella pantomimica di Marcel fu metafora della fragilità esistenziale, magistralmente raccontata nello stile a lui tipico tramite peculiari ed infinite disavventure sulla scia di quel Chaplin ch’egli non mise mai di stimare incommensurabilmente, carpendone quell’attitudine al silenzio che fu traino d’ogni sua esibizione.
Bip, il malinconico personaggio dal viso di lunare pallore, su cui egli abbozzava un sorriso triste, tanto triste, di quella mestizia che l’efferato, selvaggio ed inaccettabile furto d’un padre dall’animo buono e sensibile, innamorato della lirica e del cinema muto, rese cicatrice indelebile; un disilluso e tedioso dolore di fondo che non è possibile nascondere, ma semplicemente mascherare e mimare a senso della vita, la stessa che lo trapassò ferendolo illimitatamente e rendendolo irreversibilmente monco dell’affetto paterno.
Il silenzio di Marceau, di concezione lievemente più classica rispetto a Decroux, con maggiore utilizzo di gestualità facciale e manuale, è arte che, al pari della musica, sa parlare all’anima, facendosi muta poesia nello sfiorarne le corde sul filo dell’interazione che si viene a creare fra attore e spettatore; è grido dell’incolmabile vuoto interiore che appartenne anche allo stesso Chaplin, figlio d’un uomo abbandonatosi completamente all’alcolismo e d’una madre in preda alla pazzia.
Un unione oltre dimensione, la loro, intrecciata sulle rispettive vicissitudini e sputata in bianco e nero dalle morse d’un destino ch’è stato generoso nel dispensar tribolazione; una comune e caparbia cocciutaggine nel costante rinascere stringendo i denti e strizzandosi il cuore, nella continuità d’una professione attraverso la quale reinventarsi ogni giorno, rivoltandosi come calzini per riuscire a farlo.
Personaggi, oggetti, animali, elementi naturali, tutto, nella fantasia di Marceau, appare magicamente, sapientemente portato in scena sull’allegoria di fondo che rappresenta l’avversione e la noncuranza della società nei confronti dei deboli e degli emarginati; ecco allora che in Marcel è il potere dell’invenzione, dell’impensabile che divien possibile, come la marcia contro il vento che sarà ispirazione del celebre moonwalk dell’amico Michael Jackson.
Una vita trascorsa fra sogni d’infante, devastazioni affettive, arte ed amore, condiviso con le tre mogli: la pittrice Huguette Mallet, l’attrice cinematografica Ella Jaroszewcz, la drammaturga Anne Sicco ed i quattro figli Michel e Batiste, avuti dalla prima moglie, Camille ed Aurelia, frutto dell’ultimo rapporto coniugale.
Carrieristicamente parlando, dalla sua prima esibizione pubblica, avvenuta nell’agosto del 1944, dopo la liberazione di Parigi, davanti a tremila soldati americani (grazie all’ottima padronanza della lingua inglese, francese e tedesca, egli fu ufficiale di collegamento della terza Armata degli Stati Uniti sotto il generale George S. Patton) il suo è stato un percorso in decisa ascesa, costellato da rappresentazioni teatrali, televisive e cinematografiche; da riconoscimenti e premi, fra i quali, nel 1956, il Premio Emmy della TV statunitense, lauree ad honorem d’autorevoli università americane oltre alla Legion d’Onore ed al titolo di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito dello stato francese, consegnatogli da Chirac nel 1998.
Più libri, la maggior parte scritti per bambini, ne custodiscono l’immortale valore artistico, fra questi La ballata di Parigi e del mondo, una raccolta d’illustrazioni e poesie; La storia di Bip, suo compagno d’avventura, nonché alter ego, per densi decenni.
All’ambasciatore culturale dell’arte del silenzio, va però riconosciuta un’opera maestosamente umana, ovvero il salvataggio di numerosi bambini ebrei dall’assassine morse dell’Olocausto.
Nel periodo d’adesione alla Resistenza francese, Marceau, reclutato dal cugino, divenne comandante dell’unità segreta facente capo all’Oeuvre de Secours aux Enfants, il gruppo di soccorso in aiuto ai bambini in fuga dalla Francia.
Nel 1943, per tre volte gli fu concessa possibilità d’accompagnare, in assoluta clandestinità, gruppi di bambini ebrei da un orfanotrofio francese fino in Svizzera e l’abilità di Marceau come mimo, unita alla sua buona dose d’autocontrollo ed alla smisurata bontà, riuscì nell’intento di trasmettere agl’infanti la tranquillità necessaria per garantire loro la salvezza. Vestendoli da campeggiatori e convincendoli del fatto che li avrebbe portati in vacanza, intraprese un viaggio dove la loro vitalità fu abilmente chetata tramite il gioco del mimo, utilizzando il silenzio come mezzo primo per sottrarli alla deportazione.
Centinaia di piccole anime nei cui occhi Marceau lesse la vita nel suo pieno fiorire, sguardi nei quali mai avrebbe voluto leggere lo stesso vuoto calato sul proprio alla barbara uccisione del padre, una mancanza ed un’assenza ulceranti l’interiorità e concretizzatesi in piccole necrosi di cuore, nascoste fra un battito e l’altro.
Marcel Marceau fu tutto ciò che si potrebbe desiderar d’essere.
Un sognante fanciullo che non lasciò i propri sogni a cassetto.
Un giovane altruista che, seppur violato dalla brutalità del genocidio, mai cedette all’odio.
Un attore scioltosi fra la vita ed il palco in assoluta sincerità.
Ed un protettore di vite.
Fu un uomo, semplicemente e straordinariamente, un uomo.
E principalmente lo fu nell’aver saputo condurre al di fuori del loro mutismo emotivo, fanciulli sfiatati dalla bestialità umana, ponendosi come staffetta fra silenzio e silenzio ed erigendo un ponte mimico in cui la gestualità valse più di mille parole. Parole che nessuna lingua al mondo riuscirà mai a legare in un racconto in grado di far comprendere, appieno, come il disintegrare un uomo, da parte d’un altro uomo, sia inenarrabile abominio da tener caro alla memoria, affinché l’abbraccio dell’oblio non ne impoverisca il ricordo.
Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua
manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo.
In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo.
Primo Levi
Émile Zola: «J’Accuse»
Lettre à M. Félix Faure,
Président de la République
«Monsieur le Président,
Me permettez-vous, dans ma gratitude pour le bienveillant accueil que vous m’avez fait un jour, d’avoir le souci de votre juste gloire et de vous dire que votre étoile, si heureuse jusqu’ici, est menacée de la plus honteuse, de la plus ineffaçable des taches? Vous êtes sorti sain et sauf des basses calomnies, vous avez conquis les coeurs. Vous apparaissez rayonnant dans l’apothéose de cette fête patriotique que l’alliance russe a été pour la France, et vous vous préparez à présider au solennel triomphe de notre Exposition Universelle, qui couronnera notre grand siècle de travail, de vérité et de liberté. Mais quelle tache de boue sur votre nom — j’allais dire sur votre règne — que cette abominable affaire Dreyfus!
Un conseil de guerre vient, par ordre, d’oser acquitter un Esterhazy, soufflet suprême à toute vérité, à toute justice. Et c’est fini, la France a sur la joue cette souillure, l’histoire écrira que c’est sous votre présidence qu’un tel crime social a pu être commis.
Puisqu’ils ont osé, j’oserai aussi, moi. La vérité, je la dirai, car j’ai promis de la dire, si la justice, régulièrement saisie, ne la faisait pas, pleine et entière. Mon devoir est de parler, je ne veux pas être complice. Mes nuits seraient hantées par le spectre de l’innocent qui expie là-bas, dans la plus affreuse des tortures, un crime qu’il n’a pas commis. Et c’est à vous, monsieur le Président, que je la crierai, cette vérité, de toute la force de ma révolte d’honnête homme. Pour votre honneur, je suis convaincu que vous l’ignorez. Et à qui donc dénoncerai-je la tourbe malfaisante des vrais coupables, si ce n’est à vous, le premier magistrat du pays?
***
La vérité d’abord sur le procès et sur la condamnation de Dreyfus. Un homme néfaste a tout mené, a tout fait, c’est le lieutenant-colonel du Paty de Clam, alors simple commandant. Il est l’affaire Dreyfus tout entière; on ne la connaîtra que lorsqu’une enquête loyale aura établi nettement ses actes et ses responsabilités. Il apparaît comme l’esprit le plus fumeux, le plus compliqué, hanté d’intrigues romanesques, se complaisant aux moyens des romans-feuilletons, les papiers volés, les lettres anonymes, les rendez-vous dans les endroits déserts, les femmes mystérieuses qui colportent, de nuit, des preuves accablantes. C’est lui qui imagina de dicter le bordereau à Dreyfus; c’est lui qui rêva de l’étudier dans une pièce entièrement revêtue de glaces; c’est lui que le commandant Forzinetti nous représente armé d’une lanterne sourde, voulant se faire introduire près de l’accusé endormi, pour projeter sur son visage un brusque flot de lumière et surprendre ainsi son crime, dans l’émoi du réveil. Et je n’ai pas à tout dire, qu’on cherche, on trouvera. Je déclare simplement que le commandant du Paty de Clam, chargé d’instruire l’affaire Dreyfus, comme officier judiciaire, est, dans l’ordre des dates et des responsabilités, le premier coupable de l’effroyable erreur judiciaire qui a été commise.
Le bordereau était depuis quelque temps déjà entre les mains du colonel Sandherr, directeur du bureau des renseignements, mort depuis de paralysie générale. Des «fuites» avaient lieu, des papiers disparaissaient, comme il en disparaît aujourd’hui encore; et l’auteur du bordereau était recherché, lorsqu’un a priori se fit peu à peu que cet auteur ne pouvait être qu’un officier de l’état-major, et un officier d’artillerie: double erreur manifeste, qui montre avec quel esprit superficiel on avait étudié ce bordereau, car un examen raisonné démontre qu’il ne pouvait s’agir que d’un officier de troupe. On cherchait donc dans la maison, on examinait les écritures, c’était comme une affaire de famille, un traître à surprendre dans les bureaux mêmes, pour l’en expulser. Et, sans que je veuille refaire ici une histoire connue en partie, le commandant du Paty de Clam entre en scène, dès qu’un premier soupçon tombe sur Dreyfus.
A partir de ce moment, c’est lui qui a inventé Dreyfus, l’affaire devient son affaire, il se fait fort de confondre le traître, de l’amener à des aveux complets. Il y a bien le ministre de la Guerre, le général Mercier, dont l’intelligence semble médiocre; il y a bien le chef de l’état-major, le général de Boisdeffre, qui paraît avoir cédé à sa passion cléricale, et le sous-chef de l’état-major, le général Gonse, dont la conscience a pu s’accommoder de beaucoup de choses. Mais, au fond, il n’y a d’abord que le commandant du Paty de Clam, qui les mène tous, qui les hypnotise, car il s’occupe aussi de spiritisme, d’occultisme, il converse avec les esprits. On ne saurait concevoir les expériences auxquelles il a soumis le malheureux Dreyfus, les pièges dans lesquels il a voulu le faire tomber, les enquêtes folles, les imaginations monstrueuses, toute une démence torturante.
Ah! cette première affaire, elle est un cauchemar, pour qui la connaît dans ses détails vrais! Le commandant du Paty de Clam arrête Dreyfus, le met au secret. Il court chez madame Dreyfus, la terrorise, lui dit que, si elle parle, son mari est perdu. Pendant ce temps, le malheureux s’arrachait la chair, hurlait son innocence. Et l’instruction a été faite ainsi, comme dans une chronique du XVe siècle, au milieu du mystère, avec une complication d’expédients farouches, tout cela basé sur une seule charge enfantine, ce bordereau imbécile, qui n’était pas seulement une trahison vulgaire, qui était aussi la plus impudente des escroqueries, car les fameux secrets livrés se trouvaient presque tous sans valeur. Si j’insiste, c’est que l’oeuf est ici, d’où va sortir plus tard le vrai crime, l’épouvantable déni de justice dont la France est malade. Je voudrais faire toucher du doigt comment l’erreur judiciaire a pu être possible, comment elle est née des machinations du commandant du Paty de Clam, comment le général Mercier, les généraux de Boisdeffre et Gonse ont pu s’y laisser prendre, engager peu à peu leur responsabilité dans cette erreur, qu’ils ont cru devoir, plus tard, imposer comme la vérité sainte, une vérité qui ne se discute même pas. Au début, il n’y a donc, de leur part, que de l’incurie et de l’inintelligence. Tout au plus, les sent-on céder aux passions religieuses du milieu et aux préjugés de l’esprit de corps. Ils ont laissé faire la sottise.
Mais voici Dreyfus devant le conseil de guerre. Le huis clos le plus absolu est exigé. Un traître aurait ouvert la frontière à l’ennemi pour conduire l’empereur allemand jusqu’à Notre-Dame, qu’on ne prendrait pas des mesures de silence et de mystère plus étroites. La nation est frappée de stupeur, on chuchote des faits terribles, de ces trahisons monstrueuses qui indignent l’Histoire; et naturellement la nation s’incline. Il n’y a pas de châtiment assez sévère, elle applaudira à la dégradation publique, elle voudra que le coupable reste sur son rocher d’infamie, dévoré par le remords. Est-ce donc vrai, les choses indicibles, les choses dangereuses, capables de mettre l’Europe en flammes, qu’on a dû enterrer soigneusement derrière ce huis clos? Non! il n’y a eu, derrière, que les imaginations romanesques et démentes du commandant du Paty de Clam. Tout cela n’a été fait que pour cacher le plus saugrenu des romans-feuilletons. Et il suffit, pour s’en assurer, d’étudier attentivement l’acte d’accusation, lu devant le conseil de guerre.
Ah! le néant de cet acte d’accusation! Qu’un homme ait pu être condamné sur cet acte, c’est un prodige d’iniquité. Je défie les honnêtes gens de le lire, sans que leur coeurs bondisse d’indignation et crie leur révolte, en pensant à l’expiation démesurée, là-bas, à l’île du Diable. Dreyfus sait plusieurs langues, crime; on n’a trouvé chez lui aucun papier compromettant, crime; il va parfois dans son pays d’origine, crime; il est laborieux, il a le souci de tout savoir, crime; il ne se trouble pas, crime; il se trouble, crime. Et les naïvetés de rédaction, les formelles assertions dans le vide! On nous avait parlé de quatorze chefs d’accusation: nous n’en trouvons qu’une seule en fin de compte, celle du bordereau; et nous apprenons même que les experts n’étaient pas d’accord, qu’un d’eux, M. Gobert, a été bousculé militairement, parce qu’il se permettait de ne pas conclure dans le sens désiré. On parlait aussi de vingt-trois officiers qui étaient venus accabler Dreyfus de leurs témoignages. Nous ignorons encore leurs interrogatoires, mais il est certain que tous ne l’avaient pas chargé; et il est à remarquer, en outre, que tous appartenaient aux bureaux de la guerre. C’est un procès de famille, on est là entre soi, et il faut s’en souvenir: l’état-major a voulu le procès, l’a jugé, et il vient de le juger une seconde fois.
Donc, il ne restait que le bordereau, sur lequel les experts ne s’étaient pas entendus. On raconte que, dans la chambre du conseil, les juges allaient naturellement acquitter. Et, dès lors, comme l’on comprend l’obstination désespérée avec laquelle, pour justifier la condamnation, on affirme aujourd’hui l’existence d’une pièce secrète, accablante, la pièce qu’on ne peut montrer, qui légitime tout, devant laquelle nous devons nous incliner, le bon Dieu invisible et inconnaissable! Je la nie, cette pièce, je la nie de toute ma puissance! Une pièce ridicule, oui, peut-être la pièce où il est question de petites femmes, et où il est parlé d’un certain D… qui devient trop exigeant: quelque mari sans doute trouvant qu’on ne lui payait pas sa femme assez cher. Mais une pièce intéressant la défense nationale, qu’on ne saurait produire sans que la guerre fût déclarée demain, non, non! C’est un mensonge! et cela est d’autant plus odieux et cynique qu’ils mentent impunément sans qu’on puisse les en convaincre. Ils ameutent la France, ils se cachent derrière sa légitime émotion, ils ferment les bouches en troublant les cœurs, en pervertissant les esprits. Je ne connais pas de plus grand crime civique.
Voilà donc, monsieur le Président, les faits qui expliquent comment une erreur judiciaire a pu être commise; et les preuves morales, la situation de fortune de Dreyfus, l’absence de motifs, son continuel cri d’innocence, achèvent de le montrer comme une victime des extraordinaires imaginations du commandant du Paty de Clam, du milieu clérical où il se trouvait, de la chasse aux «sales juifs», qui déshonore notre époque.
***
Et nous arrivons à l’affaire Esterhazy. Trois ans se sont passés, beaucoup de consciences restent troublées profondément, s’inquiètent, cherchent, finissent par se convaincre de l’innocence de Dreyfus. Je ne ferai pas l’historique des doutes, puis de la conviction de M. Scheurer-Kestner. Mais, pendant qu’il fouillait de son côté, il se passait des faits graves à l’état-major même. Le colonel Sandherr était mort, et le lieutenant-colonel Picquart lui avait succédé comme chef du bureau des renseignements. Et c’est à ce titre, dans l’exercice de ses fonctions, que ce dernier eut un jour entre les mains une lettre-télégramme, adressée au commandant Esterhazy, par un agent d’une puissance étrangère. Son devoir strict était d’ouvrir une enquête. La certitude est qu’il n’a jamais agi en dehors de la volonté de ses supérieurs. Il soumit donc ses soupçons à ses supérieurs hiérarchiques, le général Gonse, puis le général de Boisdeffre, puis le général Billot, qui avait succédé au général Mercier comme ministre de la Guerre. Le fameux dossier Picquart, dont il a été tant parlé, n’a jamais été que le dossier Billot, j’entends le dossier fait par un subordonné pour son ministre, le dossier qui doit exister encore au ministère de la Guerre. Les recherches durèrent de mai à septembre 1896, et ce qu’il faut affirmer bien haut, c’est que le général Gonse était convaincu de la culpabilité d’Esterhazy, c’est que le général de Boisdeffre et le général Billot ne mettaient pas en doute que le bordereau ne fût de l’écriture d’Esterhazy. L’enquête du lieutenant-colonel Picquart avait abouti à cette constatation certaine. Mais l’émoi était grand, car la condamnation d’Esterhazy entraînait inévitablement la révision du procès Dreyfus; et c’était ce que l’état-major ne voulait à aucun prix.
Il dut y avoir là une minute psychologique pleine d’angoisse. Remarquez que le général Billot n’était compromis dans rien, il arrivait tout frais, il pouvait faire la vérité. Il n’osa pas, dans la terreur sans doute de l’opinion publique, certainement aussi dans la crainte de livrer tout l’état-major, le général de Boisdeffre, le général Gonse, sans compter les sous-ordres. Puis, ce ne fut là qu’une minute de combat entre sa conscience et ce qu’il croyait être l’intérêt militaire. Quand cette minute fut passée, il était déjà trop tard. Il s’était engagé, il était compromis. Et, depuis lors, sa responsabilité n’a fait que grandir, il a pris à sa charge le crime des autres, il est aussi coupable que les autres, il est plus coupable qu’eux, car il a été le maître de faire justice, et il n’a rien fait. Comprenez-vous cela! Voici un an que le général Billot, que les généraux de Boisdeffre et Gonse savent que Dreyfus est innocent, et ils ont gardé pour eux cette effroyable chose! Et ces gens-là dorment, et ils ont des femmes et des enfants qu’ils aiment!
Le lieutenant-colonel Picquart avait rempli son devoir d’honnête homme. Il insistait auprès de ses supérieurs, au nom de la justice. Il les suppliait même, il leur disait combien leurs délais étaient impolitiques, devant le terrible orage qui s’amoncelait, qui devait éclater, lorsque la vérité serait connue. Ce fut, plus tard, le langage que M. Scheurer- Kestner tint également au général Billot, l’adjurant par patriotisme de prendre en main l’affaire, de ne pas la laisser s’aggraver, au point de devenir un désastre public. Non! Le crime était commis, l’état-major ne pouvait plus avouer son crime. Et le lieutenant-colonel Picquart fut envoyé en mission, on l’éloigna de plus en plus loin, jusqu’en Tunisie, où l’on voulut même un jour honorer sa bravoure, en le chargeant d’une mission qui l’aurait sûrement fait massacrer, dans les parages où le marquis de Morès a trouvé la mort. Il n’était pas en disgrâce, le général Gonse entretenait avec lui une correspondance amicale. Seulement, il est des secrets qu’il ne fait pas bon d’avoir surpris.
A Paris, la vérité marchait, irrésistible, et l’on sait de quelle façon l’orage attendu éclata. M. Mathieu Dreyfus dénonça le commandant Esterhazy comme le véritable auteur du bordereau, au moment où M. Scheurer-Kestner allait déposer, entre les mains du garde des Sceaux, une demande en révision du procès. Et c’est ici que le commandant Esterhazy paraît. Des témoignages le montrent d’abord affolé, prêt au suicide ou à la fuite. Puis, tout d’un coup, il paye d’audace, il étonne Paris par la violence de son attitude. C’est que du secours lui était venu, il avait reçu une lettre anonyme l’avertissant des menées de ses ennemis, une dame mystérieuse s’était même dérangée de nuit pour lui remettre une pièce volée à l’état-major, qui devait le sauver. Et je ne puis m’empêcher de retrouver là le lieutenant-colonel du Paty de Clam, en reconnaissant les expédients de son imagination fertile. Son œuvre, la culpabilité de Dreyfus, était en péril, et il a voulu sûrement défendre son oeuvre. La révision du procès, mais c’était l’écroulement du roman- feuilleton si extravagant, si tragique, dont le dénouement abominable a lieu à l’île du Diable! C’est ce qu’il ne pouvait permettre. Dès lors, le duel va avoir lieu entre le lieutenant-colonel Picquart et le lieutenant-colonel du Paty de Clam, l’un le visage découvert, l’autre masqué. on les retrouvera prochainement tous deux devant la justice civile. Au fond, c’est toujours l’état-major qui se défend, qui ne veut pas avouer son crime, dont l’abomination grandit d’heure en heure.
On s’est demandé avec stupeur quels étaient les protecteurs du commandant Esterhazy. C’est d’abord, dans l’ombre, le lieutenant-colonel du Paty de Clam qui a tout machiné, qui a tout conduit. Sa main se trahit aux moyens saugrenus. Puis, c’est le général de Boisdeffre, c’est le général Gonse, c’est le général Billot lui-même, qui sont bien obligés de faire acquitter le commandant, puisqu’ils ne peuvent laisser reconnaître l’innocence de Dreyfus, sans que les bureaux de la guerre croulent dans le mépris public. Et le beau résultat de cette situation prodigieuse est que l’honnête homme, là- dedans, le lieutenant-colonel Picquart, qui seul a fait son devoir, va être la victime, celui qu’on bafouera et qu’on punira. Ô justice, quelle affreuse désespérance serre le cœur! On va jusqu’à dire que c’est lui le faussaire, qu’il a fabriqué la carte-télégramme pour perdre Esterhazy. Mais, grand Dieu! pourquoi? dans quel but? donnez un motif. Est-ce que celui-là aussi est payé par les juifs? Le joli de l’histoire est qu’il était justement antisémite. Oui! nous assistons à ce spectacle infâme, des hommes perdus de dettes et de crimes dont on proclame l’innocence, tandis qu’on frappe l’honneur même, un homme à la vie sans tache! Quand une société en est là, elle tombe en décomposition.
Voilà donc, monsieur le Président, l’affaire Esterhazy: un coupable qu’il s’agissait d’innocenter. Depuis bientôt deux mois, nous pouvons suivre heure par heure la belle besogne. J’abrège, car ce n’est ici, en gros, que le résumé de l’histoire dont les brûlantes pages seront un jour écrites tout au long. Et nous avons donc vu le général de Pellieux, puis le commandant Ravary, conduire une enquête scélérate d’où les coquins sortent transfigurés et les honnêtes gens salis. Puis, on a convoqué le conseil de guerre.
***
Comment a-t-on pu espérer qu’un conseil de guerre déferait ce qu’un conseil de guerre avait fait?
Je ne parle même pas du choix toujours possible des juges. L’idée supérieure de discipline, qui est dans le sang de ces soldats, ne suffit-elle à infirmer leur pouvoir d’équité? Qui dit discipline dit obéissance. Lorsque le ministre de la Guerre, le grand chef, a établi publiquement, aux acclamations de la représentation nationale, l’autorité de la chose jugée, vous voulez qu’un conseil de guerre lui donne un formel démenti? Hiérarchiquement, cela est impossible. Le général Billot a suggestionné les juges par sa déclaration, et ils ont jugé comme ils doivent aller au feu, sans raisonner. L’opinion préconçue qu’ils ont apportée sur leur siège, est évidemment celle-ci: “Dreyfus a été condamné pour crime de trahison par un conseil de guerre, il est donc coupable; et nous, conseil de guerre, nous ne pouvons le déclarer innocent; or nous savons que reconnaître la culpabilité d’Esterhazy, ce serait proclamer l’innocence de Dreyfus”. Rien ne pouvait les faire sortir de là.
Ils ont rendu une sentence inique, qui à jamais pèsera sur nos conseils de guerre, qui entachera désormais de suspicion tous leurs arrêts. Le premier conseil de guerre a pu être inintelligent, le second est forcément criminel. Son excuse, je le répète, est que le chef suprême avait parlé, déclarant la chose jugée inattaquable, sainte et supérieure aux hommes, de sorte que des inférieurs ne pouvaient dire le contraire. On nous parle de l’honneur de l’armée, on veut que nous l’aimions, la respections.
Ah! certes, oui, l’armée qui se lèverait à la première menace, qui défendrait la terre française, elle est tout le peuple, et nous n’avons pour elle que tendresse et respect. Mais il ne s’agit pas d’elle, dont nous voulons justement la dignité, dans notre besoin de justice. Il s’agit du sabre, le maître qu’on nous donnera demain peut-être. Et baiser dévotement la poignée du sabre, le dieu, non!
Je l’ai démontré d’autre part: l’affaire Dreyfus était l’affaire des bureaux de la guerre, un officier de l’état-major, dénoncé par ses camarades de l’état-major, condamné sous la pression des chefs de l’état-major. Encore une fois, il ne peut revenir innocent sans que tout l’état-major soit coupable. Aussi les bureaux, par tous les moyens imaginables, par des campagnes de presse, par des communications, par des influences, n’ont-ils couvert Esterhazy que pour perdre une seconde fois Dreyfus. Quel coup de balai le gouvernement républicain devrait donner dans cette jésuitière, ainsi que les appelle le général Billot lui-même! Où est-il, le ministère vraiment fort et d’un patriotisme sage, qui osera tout y refondre et tout y renouveler? Que de gens je connais qui, devant une guerre possible, tremblent d’angoisse, en sachant dans quelles mains est la défense nationale! Et quel nid de basses intrigues, de commérages et de dilapidations, est devenu cet asile sacré, où se décide le sort de la patrie! On s’épouvante devant le jour terrible que vient d’y jeter l’affaire Dreyfus, ce sacrifice humain d’un malheureux, d’un «sale juif»! Ah! tout ce qui s’est agité là de démence et de sottise, des imaginations folles, des pratiques de basse police, des moeurs d’inquisition et de tyrannie, le bon plaisir de quelques galonnés mettant leurs bottes sur la nation, lui rentrant dans la gorge son cri de vérité et de justice, sous le prétexte menteur et sacrilège de la raison d’État!
Et c’est un crime encore que de s’être appuyé sur la presse immonde, que de s’être laissé défendre par toute la fripouille de Paris, de sorte que voilà la fripouille qui triomphe insolemment, dans la défaite du droit et de la simple probité. C’est un crime d’avoir accusé de troubler la France ceux qui la veulent généreuse, à la tête des nations libres et justes, lorsqu’on ourdit soi-même l’impudent complot d’imposer l’erreur, devant le monde entier. C’est un crime d’égarer l’opinion, d’utiliser pour une besogne de mort cette opinion qu’on a pervertie jusqu’à la faire délirer. C’est un crime d’empoisonner les petits et les humbles, d’exaspérer les passions de réaction et d’intolérance, en s’abritant derrière l’odieux antisémitisme, dont la grande France libérale des droits de l’homme mourra, si elle n’en est pas guérie. C’est un crime que d’exploiter le patriotisme pour des oeuvres de haine, et c’est un crime, enfin, que de faire du sabre le dieu moderne, lorsque toute la science humaine est au travail pour l’oeuvre prochaine de vérité et de justice.
Cette vérité, cette justice, que nous avons si passionnément voulues, quelle détresse à les voir ainsi souffletées, plus méconnues et plus obscurcies! Je me doute de l’écroulement qui doit avoir lieu dans l’âme de M. Scheurer-Kestner, et je crois bien qu’il finira par éprouver un remords, celui de n’avoir pas agi révolutionnairement, le jour de l’interpellation au Sénat, en lâchant tout le paquet, pour tout jeter à bas. Il a été le grand honnête homme, l’homme de sa vie loyale, il a cru que la vérité se suffisait à elle- même, surtout lorsqu’elle lui apparaissait éclatante comme le plein jour. A quoi bon tout bouleverser, puisque bientôt le soleil allait luire? Et c’est de cette sérénité confiante dont il est si cruellement puni. De même pour le lieutenant-colonel Picquart, qui, par un sentiment de haute dignité, n’a pas voulu publier les lettres du général Gonse. Ces scrupules l’honorent d’autant plus que, pendant qu’il restait respectueux de la discipline, ses supérieurs le faisaient couvrir de boue, instruisaient eux-mêmes son procès, de la façon la plus inattendue et la plus outrageante. Il y a deux victimes, deux braves gens, deux coeurs simples, qui ont laissé faire Dieu, tandis que le diable agissait. Et l’on a même vu, pour le lieutenant-colonel Picquart, cette chose ignoble: un tribunal français, après avoir laissé le rapporteur charger publiquement un témoin, l’accuser de toutes les fautes, a fait le huis clos, lorsque ce témoin a été introduit pour s’expliquer et se défendre. Je dis que ceci est un crime de plus et que ce crime soulèvera la conscience universelle. Décidément, les tribunaux militaires se font une singulière idée de la justice.
Telle est donc la simple vérité, monsieur le Président, et elle est effroyable, elle restera pour votre présidence une souillure. Je me doute bien que vous n’avez aucun pouvoir en cette affaire, que vous êtes le prisonnier de la Constitution et de votre entourage. Vous n’en avez pas moins un devoir d’homme, auquel vous songerez, et que vous remplirez. Ce n’est pas, d’ailleurs, que je désespère le moins du monde du triomphe. Je le répète avec une certitude plus véhémente: la vérité est en marche et rien ne l’arrêtera. C’est d’aujourd’hui seulement que l’affaire commence, puisque aujourd’hui seulement les positions sont nettes: d’une part, les coupables qui ne veulent pas que la lumière se fasse; de l’autre, les justiciers qui donneront leur vie pour qu’elle soit faite. Je l’ai dit ailleurs, et je le répète ici: quand on enferme la vérité sous terre, elle s’y amasse, elle y prend une force telle d’explosion, que, le jour où elle éclate, elle fait tout sauter avec elle. on verra bien si l’on ne vient pas de préparer, pour plus tard, le plus retentissant des désastres.
***
Mais cette lettre est longue, monsieur le Président, et il est temps de conclure.
J’accuse le lieutenant-colonel du Paty de Clam d’avoir été l’ouvrier diabolique de l’erreur judiciaire, en inconscient, je veux le croire, et d’avoir ensuite défendu son oeuvre néfaste, depuis trois ans, par les machinations les plus saugrenues et les plus coupables.
J’accuse le général Mercier de s’être rendu complice, tout au moins par faiblesse d’esprit, d’une des plus grandes iniquités du siècle.
J’accuse le général Billot d’avoir eu entre les mains les preuves certaines de l’innocence de Dreyfus et de les avoir étouffées, de s’être rendu coupable de ce crime de lèse- humanité et de lèse-justice, dans un but politique et pour sauver l’état-major compromis.
J’accuse le général de Boisdeffre et le général Gonse de s’être rendus complices du même crime, l’un sans doute par passion cléricale, l’autre peut-être par cet esprit de corps qui fait des bureaux de la guerre l’arche sainte, inattaquable.
J’accuse le général de Pellieux et le commandant Ravary d’avoir fait une enquête scélérate, j’entends par là une enquête de la plus monstrueuse partialité, dont nous avons, dans le rapport du second, un impérissable monument de naïve audace.
J’accuse les trois experts en écritures, les sieurs Belhomme, Varinard et Couard, d’avoir fait des rapports mensongers et frauduleux, à moins qu’un examen médical ne les déclare atteints d’une maladie de la vue et du jugement.
J’accuse les bureaux de la guerre d’avoir mené dans la presse, particulièrement dans L’Éclair et dans L’Écho de Paris, une campagne abominable, pour égarer l’opinion et couvrir leur faute.
J’accuse enfin le premier conseil de guerre d’avoir violé le droit, en condamnant un accusé sur une pièce restée secrète, et j’accuse le second conseil de guerre d’avoir couvert cette illégalité, par ordre, en commettant à son tour le crime juridique d’acquitter sciemment un coupable.
En portant ces accusations, je n’ignore pas que je me mets sous le coup des articles 30 et 31 de la loi sur la presse du 29 juillet 1881, qui punit les délits de diffamation. Et c’est volontairement que je m’expose.
Quant aux gens que j’accuse, je ne les connais pas, je ne les ai jamais vus, je n’ai contre eux ni rancune ni haine. Ils ne sont pour moi que des entités, des esprits de malfaisance sociale. Et l’acte que j’accomplis ici n’est qu’un moyen révolutionnaire pour hâter l’explosion de la vérité et de la justice.
Je n’ai qu’une passion, celle de la lumière, au nom de l’humanité qui a tant souffert et qui a droit au bonheur. Ma protestation enflammée n’est que le cri de mon âme. Qu’on ose donc me traduire en cour d’assises et que l’enquête ait lieu au grand jour! J’attends.
Veuillez agréer, monsieur le Président, l’assurance de mon profond respect.
Émile Zola»
Presidente della Repubblica
«Signor Presidente,
Volete permettermi, nella mia gratitudine per la benevola accoglienza che un giorno m’avete fatto, d’aver pensiero della vostra giusta gloria e dirvi che la vostra stella, fin qui tanto fortunata, è sotto la minaccia della macchia più vergognosa ed incancellabile? Voi usciste sano e salvo dalle basse calunnie ed avete conquistato i cuori. Voi apparite raggiante nell’apoteosi di quella patriottica festa che, per la Francia, fu l’alleanza russa e vi preparate a presiedere al trionfo solenne della nostra Esposizione universale, la quale coronerà il nostro secolo, grande di lavoro, di verità e di libertà. Ma qual macchia di fango sul nome vostro – stavo per dire sul vostro regno – codesto abominevole affare Dreyfus!Un Consiglio di guerra, giunge, per ordine, ad osare di assolvere un Esterhazy, schiaffo supremo ad ogni verità, ed ogni giustizia. Ed è finita: la Francia ha sulla guancia questa sozzura, la storia scriverà che fu possibile sotto la vostra presidenza compiere un tale delitto.
Poiché essi hanno osato, oserò anch’io. Dirò la verità, perché avevo promesso di dirla, nel caso che la giustizia, regolarmente impegnata, non la facesse piena ed intera. Il mio dovere è di parlare, né io voglio esser complice: le mie notti sarebbero turbate dallo spettro dell’innocente, il quale laggiù, fra le più spaventevoli torture, espia un reato che non ha commesso. Ed a voi, signor presidente, a voi, io griderò questa verità, con tutta la forza di ribellione d’un onesto uomo. Per il vostro onore, sono convinto che voi lo ignorate. E a chi dunque io denunzierò la turba malefica dei colpevoli veri, se non a voi, primo magistrato del paese?
***
La verità, anzitutto, sul processo, e sulla condanna di Dreyfus. Un uomo nefasto ha tutto organizzato, tutto fatto, il luogotenente luogotenente colonnello del Paty di Clam, allora semplice comandante. Egli impersona tutto l’affare Dreyfus e non si potrà conoscere quest’affare che quando una inchiesta leale avrà nettamente stabilito gli atti e le responsabilità di lui. Egli appare come lo spirito più nebuloso, più complicato, allucinato da intrighi romanzeschi, compiacendosi dei mezzi da romanzo d’appendice: carte rubate, lettere anonime, appuntamenti in luoghi deserti, donne misteriose che portano di notte le prove schiaccianti. È lui che immaginò di dettare il elenco a Dreyfus; è lui che sognò di studiarlo in un locale tutto rivestito di specchi: è lui che il comandante Forzinetti ci descrive armato di una lanterna cieca, anelante d’introdursi presso l’accusato in sonno, per proiettare sul suo volto un improvviso fascio di luce, e sorprendere così il suo delitto nella emozione del risveglio. E non tocca a me il dire tutto: si cerchi e si troverà. Io dichiaro semplicemente che il comandante del Paty di Clam, incaricato d’istruire l’affare Dreyfus in qualità d’ufficiale giudiziario, è, nell’ordine delle date e delle responsabilità, il primo colpevole dello spaventevole errore giudiziario che è stato commesso.
L’elenco si trovava già da qualche tempo fra le mani del colonnello Sandherr, direttore dell’ufficio d’informazioni, morto in seguito di paralisi generale. Si verificavano «fughe», sparivano delle carte, come ne scompaiono anche oggi; e l’autore dell’elenco era ricercato, allorché si stabilì a poco a poco un a priori: che quest’autore non poteva essere che un ufficiale dello Stato maggiore e un ufficiale di artiglieria; doppio errore manifesto, il quale dimostra con quale spirito superficiale si era studiato questo elenco, perché un ragionato esame, dimostra che non poteva trattarsi che di un ufficiale di truppa. Si cercava dunque nella casa, si esaminavano gli scritti, si trattava quasi d’un affare di famiglia, di un traditore da sorprendere negli uffici stessi per espellerlo. E, senza che io voglia rifare qui una storia in parte conosciuta, il comandante del Paty di Clam entra in scena, non appena cade un primo sospetto su Dreyfus.
A partire da questo momento, è lui che ha inventato Dreyfus, l’affare diviene causa sua, egli si fa forte di confondere il traditore, di costringerlo ad una confessione completa. Vi è sì il ministro della guerra, generale Mercier, la cui intelligenza sembra mediocre: vi è sì il capo dello stato maggiore, generale Boisdeffre, che sembra avere ceduto alla sua passione clericale, e il sotto-capo dello stato maggiore, generale Gonse la cui coscienza si è potuta accomodare a molte cose. Ma, in fondo, non vi è anzitutto che il comandante del Paty di Clam, che li guida tutti, che li ipnotizza, perché egli si occupa anche di spiritismo, di occultismo e conversa con gli spiriti. Non si crederà mai a quali esperimenti egli ha sottoposto l’infelice Dreyfus, gli agguati in cui ha cercato di farlo cadere, le inchieste pazze, le immaginazioni mostruose, tutta una pazzia torturatrice.
Ah! questo primo affare è un incubo per chi lo conosce nei suoi veri particolari! Il comandante del Paty di Clam arresta Dreyfus lo pone in segreta. Corre dalla signora Dreyfus, la terrorizza, le dice che se ella parla, il marito è perduto. E intanto lo sventurato si strappava le carni, urlava la propria innocenza. La istruttoria è stata condotta come in una cronaca del secolo decimoquinto, in mezzo al mistero, con una complicazione di espedienti selvaggi: tutto ciò basato sopra una sola accusa infantile, quello sciocco elenco, che non costituiva soltanto un tradimento volgare, ma altresì la più imprudente delle truffe, perché i famosi segreti venduti erano quasi tutti senza valore! Se insisto è perché il verme è qui; e di qui scaturirà poi il vero delitto, lo spaventevole diniego di giustizia che rende inferma la Francia. Vorrei far toccare con mano come l’errore giudiziario è stato possibile, come è nato dalle macchinazioni del comandante del Paty di Clam, come il generale Mercier, i generali Boisdeffre e Gonse hanno potuto lasciarsi prendere, impegnare a poco a poco la loro responsabilità in questo affare, che hanno creduto di dovere, più tardi imporre come la verità santa, una verità che non si discute nemmeno. Al principio, non c’è dunque da parte loro che incuria e mancanza d’intelligenza. Tutt’al più si sente che cedono alle passioni religiose dell’ambiente e ai pregiudizi dello spirito di corpo. Essi hanno lasciato commettere la bestialità.
Ma ecco Dreyfus avanti al consiglio di guerra. Si esigono porte ermeticamente chiuse. Se un traditore avesse aperta la frontiera al nemico per condurre l’imperatore tedesco fino a Nôtre-Dame, non si sarebbero prese più strette misure di silenzio e di mistero. La nazione è colpita da stupore, si parla sommessamente di fatti terribili, di tradimenti mostruosi che indignano la Storia; e naturalmente la nazione s’inchina. Non c’è castigo abbastanza severo: essa applaudirà alla degradazione pubblica, vorrà che il colpevole rimanga sul suo scoglio d’infamia, divorato da rimorsi. Ma sono dunque vere le cose indicibili, le cose pericolose, atte a mettere in fiamme l’Europa, che si son dovute accuratamente seppellire dietro le porte chiuse? No! Non ci sono che le fantasie romanzesche e dementi del comandante del Paty di Clam. Tutto ciò non è stato fatto che per celare il più idiota dei romanzi d’appendice. E per assicurarsene basta studiare attentamente l’atto d’accusa letto avanti il Consiglio di guerra.
Ah! la nullità di quell’atto di accusa! Che un uomo si sia potuto condannare per quell’atto è un prodigio di iniquità! sfido le genti oneste a leggerlo senza che il loro cuore frema di indignazione e si ribelli pensando alla mostruosa espiazione laggiù all’isola del Diavolo! Dreyfus sa parecchie lingue, delitto; non si sono trovate presso di lui carte compromettenti, delitto; è laborioso, ha il desiderio di saper tutto, delitto; non si turba, delitto; si turba, delitto. E le ingenuità di redazione, le asserzioni fondate nel vuoto! Ci avevano parlato di quattordici capi d’accusa, non ne troviamo che uno solo, in fine dei conti, quello dell’elenco; e apprendiamo anzi che i periti non erano d’accordo, che uno di loro Gobert, è stato malmenato militarmente perché si permetteva di non concludere nel senso desiderato. Si parlava anche di ventitré ufficiali ch’erano venuti a schiacciare Dreyfus con la loro deposizione. Ignoriamo ancora gli interrogatorii di essi, ma è certo che tutti non lo avevano aggravato; e vi è da notare inoltre che tutti appartenevano al ministero della guerra. È un processo di famiglia, fra intimi, e bisogna ricordarsene: lo stato maggiore ha voluto il processo, lo ha giudicato ed ora è tornato a giudicarlo una seconda volta.
Dunque non resta che l’elenco, sul quale i periti non erano d’accordo. Si narra che nella stanza delle deliberazioni i giudici, stavano, naturalmente, per assolvere. E allora, allora si comprende l’ostinazione disperata con cui per giustificare la condanna, si afferma oggi l’esistenza d’un documento segreto, schiacciante, il documento che non si può mostrare, che legittima tutto, davanti a cui dobbiamo inchinarci, come avanti al buon Dio invisibile e irriconoscibile! Io lo nego questo documento, lo nego con tutta la mia forza! Un documento ridicolo, sì, forse il documento in cui si tratta di donnine e ove è fatta parola d’un certo D… che diviene troppo esigente, qualche marito indubbiamente il quale trovava che non gli veniva pagata abbastanza la propria moglie. Ma un documento che interessi la difesa nazionale, che non si potrebbe produrre senza che la guerra fosse dichiarata all’indomani, no, no! È una menzogna; e tanto più odiosa e cinica, perché mentiscono senza che di ciò si possa convincerli. Essi sollevano la Francia, si nascondono dietro la sua legittima emozione, chiudono le bocche, turbando i cuori, pervertendo le menti. Io non conosco un maggior delitto civile.
Ecco dunque, signor presidente, i fatti che spiegano come un errore giudiziario abbia potuto commettersi; e le prove morali, la situazione di fortuna di Dreyfus, l’assenza di motivi, il suo continuo grido d’innocenza finiscono di mostrarlo come una vittima delle straordinarie fantasie del comandante del Paty di Clam, dell’ambiente clericale in cui egli si trovava, della caccia ai «sudici ebrei» che disonora l’epoca nostra.
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Ecco ora l’affare Esterhazy. Sono trascorsi ben tre anni e pur molte coscienze restano ancora turbate, si preoccupano, cercano, finiscono per essere convinte dell’innocenza di Dreyfus. Non voglio qui rifare la storia dei dubbi, poi della certezza di Scheurer-Kestner, e mentre egli investigava per suo conto, si svolgevano gravi fatti nello stesso Stato Maggiore. Il colonnello Sandherr era morto, ed il colonnello Picquart gli succedeva come capo di ufficio alle informazioni. Ed è a questo titolo, nell’esercizio delle sue funzioni, che quest’ultimo ebbe un giorno fra le mani una letteratelegramma, indirizzata al comandate Estherazy da un agente di una potenza estera. Suo stretto dovere era di aprire un’inchiesta. È certo però che egli non ha mai agito indipendentemente dalla volontà dei suoi superiori. Egli sottopose i suoi sospetti ai suoi superiori gerarchici, al generale Gonse, poi al generale de Boisdeffre, poi al generale Billot, successo al generale Mercier come ministro della guerra. Il famoso incarto Picquart, del quale si è parlato tanto, non è mai stato altro che l’incarto Billot, intendo dire l’incarto fatto da un subordinato pel suo ministro, l’incarto che deve esistere ancora al ministero della guerra. Le ricerche durarono dal maggio al settembre 1896, e ciò che bisogna affermare ben alto è che il generale Gonse era convinto della colpabilità di d’Esterhazy, e che il generale Boisdeffre e il generale Billot non mettevano in dubbio che il famoso elenco fosse di mano di Esterhazy. L’inchiesta del luogotenente colonnello Picquart era terminata con questa constatazione certa. Ma l’emozione era grande. La condanna di Esterhazy trascinava seco inevitabilmente la revisione del processo Dreyfus; e questo lo stato maggiore non voleva ad alcun costo.
Vi dev’essere allora un momento psicologico pieno di angoscia: Notate che il generale Billot non era in alcun modo compromesso, arrivava fresco e poteva fare la luce sulla verità. Egli non osò, senza dubbio pel terrore dell’opinione pubblica, certamente anche per paura di esporre tutto lo stato maggiore, il generale Boisdeffre, il generale Gonse, per non contare i subalterni. Ma non si trattò che di un momento di lotta fra la sua coscienza e ciò ch’egli riteneva essere l’interesse militare. Trascorso questo momento era già troppo tardi. Egli si era impegnato, si era compromesso. E da allora in poi la sua responsabilità non ha fatto che crescere: egli s’è addossato il delitto degli altri; egli è colpevole come gli altri, più colpevole di essi, giacché era padrone di fare giustizia, e non ha fatto nulla. Comprendete? È ormai un anno che il generale Billot, che i generali Boisdeffre e Gonse sanno che Dreyfus è innocente, ed hanno tenuto per sé questa terribile cosa. E costoro dormono, hanno moglie e figli che amano!
Il luogotenente colonnello Picquart aveva adempiuto al suo dovere di uomo onesto; egli insisteva in nome della giustizia, presso i suoi superiori; li supplicava perfino; diceva loro quanto le loro reticenze erano impolitiche di fronte al terribile uragano che si addensava, che doveva scoppiare una volta che fosse conosciuta la verità. E la stessa cosa, più tardi, ripetette Scheurer-Kestner al generale Billot, scongiurandolo per patriottismo a prendere nelle sue mani la cosa, per non lasciarla aggravare sino al punto da diventare un pubblico disastro. No! il delitto era commesso, lo stato maggiore non poteva più confessare il suo delitto! E il tenente colonnello Picquart fu mandato in missione, fu allontanato sempre più, sino in Tunisia, dove un giorno si volle perfino rendere onore ai suoi meriti incaricandolo di una missione che lo avrebbe certamente condotto al massacro nel paraggi dove il marchese di Mores ha trovato la morte. Egli non era in disgrazia, tutt’altro! tanto vero che il generale Gonse manteneva con lui un’amichevole corrispondenza. Solamente vi sono segreti che non è bene avere scoperti.
A Parigi la verità procedeva in modo irresistibile, e si sa in qual modo l’atteso uragano scoppiò. Matteo Dreyfus denunziò il comandante Esterhazy come autore del elenco mentre lo Scheurer-Kestner andava a deporre nelle mani del guardasigilli una domanda di revisione del processo. Ed è qui che entra in in scena il comandante Esterhazy. Le testimonianze lo dimostrano sulle prime confuso, disposto al suicidio od alla fuga. Poi d’un tratto, piena d’audacia, meraviglia Parigi per la violenza del suo atteggiamento. Si capisce, gli erano arrivati dei soccorsi, aveva ricevuto una lettera anonima che l’avvertiva delle mene de’ suoi nemici, una dama misteriosa si era pure incomodata di notte per consegnargli un documento rubato allo Stato Maggiore, che doveva salvarlo. né io posso dispensarmi dal ritrovare in ciò il luogotenente colonnello del Paty di Clam, memore degli espedienti della sua fertile immaginazione. La sua opera, la colpevolezza di Dreyfus, era in pericolo, ed egli ha voluto sicuramente difendere la sua opera. La revisione del processo era il crollo del romanzo-appendice così stravagante, così tragico, il cui scioglimento abominevole ha luogo nell’Isola del Diavolo! E ciò egli non poteva permettere. Da quel momento il duello s’impegna fra il nuovo colonnello Picquart e il luogotenente colonnello del Paty di Clam, l’uno a viso scoperto, l’altro mascherato. Si troveranno fra breve entrambi dinanzi al Tribunale civile. In fondo è sempre lo stato maggiore che si difende, che non vuole confessare il suo delitto, la cui abbominazione cresce d’ora in ora.
Si è chiesto con stupore quali erano i protettori del comandante Esterhazy. In prima riga, ma nell’ombra sta il luogotenente colonnello del Paty di Clam che ha montata la macchina, che tutto ha regolato. La sua mano si tradisce pei mezzi assurdi di cui si è servito. Vengono in seguito il generale Boisdeffre, il generale Gonse, il general Billot stesso, che sono obbligati di far assolvere il comandante, Poiché non possono lasciar riconoscere l’innocenza di Dreyfus, senza che il Ministero della guerra cada coperto di pubblica onta. E il bel risultato di questa situazione prodigiosa è che l’onesto colonnello Picquart, che solo ha fatto il proprio dovere, sta per diventarne la vittima, colui che sarà beffeggiato e punito. Oh giustizia, quale spaventosa disperazione stringe i cuori! Si giunge sino a dire che egli ha fabbricato la lettera-telegramma per perdere Esterhazy. Ma perché? A quale scopo? Si alleghi un motivo. Forse egli pure è pagato dagli ebrei? Il più curioso si è che egli è antisemita. Sì! noi assistiamo a questo spettacolo infame di uomini ingolfati in debiti, in delitti di cui si proclama l’innocenza, mentre si colpisce l’onore stesso condannando un uomo la cui vita è senza macchie! Quando una società è così fatta, bisogna che essa cada in decomposizione.
Ecco dunque, signor Presidente, l’affare Esterhazy; un colpevole che si vuol rendere innocente. Da quasi dele mesi, noi possiamo seguire ora per ora tutte le fasi del dramma. Abbrevio perché non è questo che il riassunto della storia, di cui le scottanti pagine saranno un giorno scritte minutamente. Noi abbiamo visto il generale de Pellieu, poi il comandante Ravary condurre un’inchiesta scellerata donde i colpevoli escono trasfigurati e gli onesti infamati. Poi si è convocato il Consiglio di guerra.
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Come si è potuto sperare che un Consiglio di guerra mandasse all’aria ciò che un altro Consiglio di guerra aveva fatto?
Non parlo neanche della scelta dei giudici. L’idea superiore della disciplina, che è nel sangue di questi soldati, non è forse sufficiente a infirmare il loro stesso senso di equità? Chi dice disciplina dice obbedienza. Quando il Ministro della guerra, il gran capo, ha stabilito pubblicamente tra le acclamazioni della rappresentanza nazionale, l’autorità assoluta della cosa giudicata, voi volete che un Consiglio di guerra dia una formale smentita? Gerarchicamente la cosa è impossibile. Il generale Billot ha suggestionato i giudici colla sua dichiarazione, ed essi hanno giudicato nella maniera stessa con cui vanno al fuoco, senza ragionare. L’opinione preconcetta che hanno portato sui loro seggi è evidentemente questa: “Dreyfus è stato condannato per delitto di alto tradimento da un Consiglio di guerra; dunque è colpevole, e noi, Consiglio di guerra, non possiamo dichiararlo innocente. Ora sappiamo che riconoscere la colpa di Esterhazy, sarebbe come proclamare l’innocenza di Dreyfus”. Nulla avrebbe potuto smuoverli.
Hanno pronunziato una sentenza iniqua che peserà eternamente sui nostri Consigli di guerra, e che metterà sempre in sospetto i loro giudicati. Il primo Consiglio di guerra avrà dimostrato dell’insipienza, il secondo è stato forzatamente delittuoso. La sua scusa, lo ripeto, è che il capo aveva parlato, dichiarando la cosa giudicata come inappellabile, santa e superiore agli uomini, di modo che gli inferiori non potevano dire diversamente. Si parla dell’onore dell’esercito, si vuole che noi l’amiamo e rispettiamo. Ma certamente è l’esercito che si muoverebbe alla prima minaccia, che difenderebbe il suolo francese, l’esercito è il popolo tutto, e noi non abbiamo per esso che tenerezza e rispetto; ma non si tratta di lui, del quale vogliamo serbare giustamente la dignità nel nostro bisogno di giustizia. Si tratta invece della sciabola, il padrone che domani probabilmente ci si darà. E baciare devotamente l’impugnatura della spada, per Dio no!
L’ho dimostrato in altra parte del mio discorso, l’affare Dreyfus era l’affare degli uffici della guerra; un ufficiale di Stato maggiore denunciato dai suoi camerati, condannato sotto la pressione dei capi di esso Stato maggiore. Ripeto ancora una volta: Dreyfus non può essere riconosciuto innocente senza che diventi colpevole tutto lo Stato maggiore. La burocrazia militare, quindi, con tutti i mezzi immaginabili, con la stampa, con comunicati, con influenze, ha coperto Esterhazy per perdere una seconda volta Dreyfus. Ah! quale colpo di granata il governo repubblicano dovrebbe dare in quel covo di gesuiti, come li chiama lo stesso generale Billot! Quante persone conosco che, alla prospettiva di una possibile guerra, tremano di angoscia, sapendo in quali mani si trova la difesa nazionale! e quale nido di bassi intrighi, di maldicenza e di dilapidazioni è diventato questo asilo sacro, dove si decidono le sorti della patria! Fa spavento la terribile luce gettatavi dall’affare Dreyfus, dal sacrificio umano di un disgraziato, di un «sudicio giudeo!» Ah! quanta demenza e bestialità, quali pazze fantasticherie, quali pratiche di bassa polizia, di usi di inquisizione e di tirannide, a maggior soddisfazione di quei gallonati che si pongono la nazione sotto gli stivali, ricacciandole in gola il suo grido di verità e di giustizia, sotto il menzognero e sacrilego pretesto della ragione di Stato!
Ed è ancora un delitto l’essersi appoggiati alla stampa immonda, di essersi lasciati difendere da tutte le birbe di Parigi, di modo che è essa che trionfa insolentemente nella disfatta del diritto e della probità. È un delitto l’aver accusato d’ingannare la Francia coloro che la vogliono generosa, alla testa delle nazioni, libere e giuste, mentre si ordisce da loro l’imprudente combriccola d’imporre l’errore, davanti al mondo intero. È un delitto fuorviare l’opinione pubblica, utilizzare per il bisogno di una condanna a morte questa opinione che si è pervertita al punto da farla delirare. È un delitto avvelenare i piccoli e gli umili, inasprire le passioni di reazione e di intolleranza, riparandosi dietro l’odioso antisemitismo, di cui la grande Francia liberale dei Diritti dell’Uomo morirà, se non riuscirà a guarire. È un delitto sfruttare il patriottismo per opere di odio, ed è un delitto finalmente fare della sciabola il dio moderno, mentre tutta la scienza umana lavora per l’opera prossima di verità e di giustizia.
Questa verità, questa giustizia, che noi abbiamo con tanto ardore voluta, che angoscia, il vederle così vilipese e disconosciute! Io imagino ciò che avverrà nell’animo di Scheurer-Kestner, e credo che finirà per provare il rimorso di non aver agito da rivoluzionario, il giorno dell’interpellanza al Senato, lasciando vuotare tutto il sacco per tutto atterrare. Egli è stato l’uomo onesto, l’uomo della sua vita leale, egli ha creduto che la verità bastasse a sé stessa, specialmente quando gli appariva sfolgorante come in pieno meriggio. A che scopo rovesciare tutto dal momento che il sole stava per spuntare? Ma egli è ora punito per questa serenità fiduciosa. Lo stesso è pel colonnello Picquart, il quale, per un sentimento di alta dignità non ha voluto pubblicare le lettere del generale Gonse. Questi scrupoli l’onorano, tanto più che mentre egli rimaneva rispettoso della disciplina, i suoi superiori lo inzaccheravano di fango, istruivano essi stessi il suo processo, nel modo più inatteso e più oltraggioso. Vi sono dele vittime, dele galantuomini, dele cuori semplici, i quali si rimettevano in Dio, mentre erano invece nelle mani del diavolo. E si è anche veduto, pel colonnello Picquart, questa cosa ignobile; un tribunale francese, dopo aver lasciato pubblicamente un testimonio sotto le invettive del relatore, accusarlo di tutte le colpe, e ordinare il processo a porte chiuse, quando questo testimonio venne introdotto por spiegarsi e difendersi. Io dico che questo è un delitto di più, e che questo delitto solleverà la coscienza universale. I tribunali militari hanno davvero un singolare concetto della giustizia.
Tale dunque la verità, signor presidente, ed è spaventevole e resterà una macchia per la vostra presidenza. Io comprendo che in questa faccenda voi non avete nessun potere, che siete prigioniero della Costituzione e del vostro contorno. Ma avete però un dovere di uomo, al quale penserete e che adempirete. Non già che io disperi del trionfo. Ripeto con veemente certezza: la verità è in movimento e nulla la fermerà. È solo oggi che inizia l’attività, poiché solo oggi le posizioni sono chiare: da un lato, i colpevoli che non vogliono sia fatta luce; dall’altro, coloro pronti a sacrificare la vita in nome della giustizia. Quando si seppellisce sotto terra la verità, essa vi si ammassa e prende una forza tale di esplosione, che il giorno in cui scoppia, tutto fa saltare con sé. Si vedrà se non si va preparando fra non molto, il più clamoroso disastro.
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Questa lettera è lunga, signor presidente, ed è tempo di concludere.
Io accuso il luogotenente luogotenente colonnello del Paty di Clam di essere stato l’artefice diabolico dell’errore giudiziario, inconsciamente, voglio crederlo, e di avere poi difesa l’opera sua nefasta, da tre anni in qua, con le più losche macchinazioni.
Io accuso il generale Mercier d’essersi fatto complice, almeno per debolezza d’animo, della maggiore iniquità del secolo. Io accuso il generale Billot di aver avuto fra le mani le prove sicure della innocenza di Dreyfus e di averle soffocate, rendendosi colpevole di lesa umanità, a scopo politico, per salvare lo stato maggiore compromesso.
Io accuso il generale de Boisdeffre e il generale Gonse di essersi fatti complici del medesimo delitto, l’uno indubbiamente, per passione clericale, l’altro, forse, per quello spirito di corpo che fa del ministero della guerra l’arca santa, inattaccabile.
Io accuso il generale Pellieux e il comandante Ravary di aver fatto un’inchiesta scellerata, intendo dire un’inchiesta improntata alla più mostruosa parzialità, e ne abbiamo nel rapporto del secondo un imperituro monumento di ingenua audacia.
Io accuso i tre periti calligrafi, i signori Belhomme, Varinard e Couard, di aver fatto rapporti menzogneri e fraudolenti, ammenoché un esame medico non li dichiari colpiti di malattia negli occhi e nel cervello.
Io accuso il ministero della guerra di avere condotto nella stampa, specialmente nell’Eclair e nell’Echo de Paris, una campagna obbrobriosa per sviare l’opinione pubblica e dissimulare la loro colpa.
Io accuso finalmente il primo Consiglio di guerra di avere violato il dritto, condannando un accusato sopra un documento rimasto segreto, e accuso il secondo Consiglio di guerra di aver coperto questa illegalità, e ciò per ordine, commettendo anch’esso il crimine giuridico di assolvere scientemente un colpevole.
Formulando queste accuse, so bene che incorro negli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 27 luglio 1881 che punisce i delitti di diffamazione, e mi vi espongo volontariamente.
Io non conosco coloro che accuso, non li ho mai veduti, non nutro contro di essi rancore, né odio. Sono per me entità, niente altro, spiriti di maleficenza sociale. E l’atto che compio oggi non è altro che un mezzo rivoluzionario per sollecitare l’esplosione della verità e della giustizia.
Ho una sola passione, quella della luce, in nome dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha ben diritto di essere felice. La mia protesta ardente è il grido dell’anima mia.
Osate dunque tradurmi in Corte d’assise e che l’inchiesta abbia luogo alla luce del sole? Aspetto. Gradite, signor presidente, l’assicurazione del mio profondo rispetto.
Émile Zola»
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