Carlo Alberto Salustri: vita e poesie di Trilussa
Poeta civile, emancipato, disilluso, attento e mordace, Trilussa intessé incantevolmente union di vocaboli e visioni, vissuto ed intimo sentir, in autentica espressività dipingendo l’umana passione e ad essa rivolgendosi, puntuale, lungimirante, nondimeno in provata e costante vicinanza alla gente, alle persone, al popolo, egli versando fiumi d’inchiostro tra concreto discernimento e romantiche voci riverenti amore e natura.
La strada mia
La strada è lunga, ma er deppiù l’ho fatto:
so dov’arrivo e nun me pijo pena.
Ciò er core in pace e l’anima serena
der savio che s’ammaschera da matto.
Se me frulla un pensiero che me scoccia
me fermo a beve e chiedo ajuto ar vino:
poi me la canto e seguito er cammmo
cor Destino in saccoccia.
All’albeggiar di giovedì 26 ottobre 1871, nel romano quartiere Campo Marzio, al quarto piano del civico 114 di via del Babuino — ove targa commemora centenario di tal data — ebbe i natali Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri, colui che, anagrammando cognome, a letteratura avrebbe donato intimo estro poetico a firma, Trilussa: secondogenito dell’albanense Vincenzo Salustri, cameriere, e Carlotta Poldi, sarta originaria di Bologna, in famiglia d’onesta dignità resiliente a precarie condizioni economiche, anzitempo conobbe dolore della perdita, implacabile patologia difterica sottraendo alla vita la sorella maggiore Isabella, a soli tre anni, nel 1872 e distanza d’un biennio, il padre, appena trentacinquenne sconfitto da neoplasia gastrica; a dolor di strappo, madre e figlio traslocarono provvisoriamente in via Ripetta, trovando, undici mesi dopo, ospitalità al quinto piano del palazzo di proprietà di Ermenegildo De’ Cinque Quintili, marchese — discendente da una delle casate più rinomate di Trastevere — presso cui il defunto castellano aveva prestato servizio, nonché padrino del futuro rimator, consacrato a fede nella chiesa di San Giacomo in Augusta.
Iniziale biennio d’istruzione elementare vide l’allora “sol” Carlo Salustri destreggiarsi in primi apprendimenti nella Scuola Municipale San Nicola, tuttavia esito negativo dell’esame in seguito sostenuto per l’ingresso al collegio cattolico San Giuseppe – Istituto De Merode, causandone ripetizione del secondo anno e bocciatura ripetendosi al terzo, per insufficiente impegno del bambino, svagato interesse nei confronti dello studio portando il divenuto adolescente, nel 1886, ad abbandonare percorso, a discapito delle insistenti raccomandazioni di proseguire a lui ripetute dalla madre, dallo zio paterno Marco e dal poeta dialettale, amico del summenzionato aristocratico De’ Cinque Quintili, Filippo Chiappini (1836-1905), quest’ultimo, accoratamente speranzoso, in missiva indirizzata a Carlotta scrivendo: «Mandatelo a prendere quest’esame a Rieti, a Terni o in qualche altro paese dove non abbia a soffrire un’umiliazione che gli sarebbe penosa, e tornato qui con la sua licenza fatelo iscrivere all’Istituto e fategli studiare Ragioneria. Con tre anni d’Istituto egli può prendere la licenza tecnica e può ottenere un impiego governativo […] Non mi dite che è tardi, perché non è vero»; nondimeno Carlo preferendo assaporare la bellezza della vita negli insegnamenti assorbiti fra le strade della città natia, innamorando sguardo fra le sue meraviglie e nel cuore esplodendogli smaniosa sete di conoscenza che in una sola annata lo dissetò di copiose letture, nel 1887 l’ispirato sedicenne — impavidamente all’ascolto d’infiammata indole in scrigno al petto — esponendo un suo sonetto al commediografo, antropologo, bibliotecario e poeta Luigi ‘Giggi’ Gioacchino Zanazzo (1860-1911), ai tempi rettore del Rugantino, settimanale di satira politica — fondato nel 1848 — in romanesco.
Quanto presentato a Zanazzo — dal titolo L’invenzione della stampa e influenzato dall’opera in vernacolo di Giuseppe Francesco Antonio Maria Gioachino Raimondo Belli (1791-1863) — venne scritto da Trilussa in aperta critica alla stampa dell’epoca, discorso iniziando nell’accennare all’introduzione in Europa, per mano dell’orafo e tipografo tedesco, Johannes Gensfleisch della corte di Gutenberg (1400-1468), della “stampa moderna”, così venne definita la tecnica — in Asia presente fin dal 1041 grazie all’inventore cinese, Bi Sheng (972-1051) — nella quale vengono utilizzati elementi mobili a scopo di riproduzione di testi su carta.
Il 30 ottobre, apparizione di componimento sulle pagine del Rugantino portò per la prima volta come firma il cognome anagrammato, entusiasta sprone dell’allora editore, Edoardo Perino (1845-1895) convincendolo a concretizzare prolifica collaborazione per i due anni successivi, il periodico accogliendone prose, poesie e madrigali, ossia composizioni musicali o liriche d’italica origine, in particolare modo divulgatesi fra Rinascimento e Barocco, tramite la cui serie — titolata Stelle de Roma — Trilussa rese lusingante onore alle più avvenenti “donzelle romane”, al contempo avvolgendo in crescente attrattiva tanto lettori quanto colleghi e sull’onda del sopraggiunto consenso, decidendo di vagliarne venti su trenta e — previe migliorie apportatevi — raggruppandole in Stelle de Roma. Versi romaneschi, prima antologia — pubblicata da Alessandro Cerroni e Carlo Solaro, editori e tipografi, nonché titolari di una rinomata agenzia giornalistica con sede in Piazza Colonna — onorata da sostanziosa e lunga prefazione e glossario del docente di greco e latino Francesco Sabatini, co-fondatore — insieme a Zanazzo e al drammaturgo, giornalista e verseggiatore, Nino Ilari (1862-1936) — del Rugantino, inoltre sul rotocalco l’insegnante siglando racconti allo pseudonimo, Padron Checco.
Dedica della raccolta venne con riconoscenza tratteggiata da Trilussa in omaggio a Zanazzo, quest’ultimo contraccambiando amorevole tributo con annuncio di pubblicazione e riconoscente pensiero affidando a stimanti parole nell’asserir che «Parlare del merito del nostro amico tanto riguardo alla indovinatissima trovata quanto alla bellezza de’ suoi versi ne’ quali egli vi ha ricamato con pazienza, tutto quanto vi ha di più gentile e ispirato nel dialetto, credo inutile per i lettori del Rugantino, i quali hanno potuto già apprezzare i di lui meriti letterari», elogio ampiamente condiviso dal pubblico sull’eco dell’improvvisa fama conseguente all’uscita della silloge, parallelamente quest’ultima suscitando critiche a tematica e lessico da parte dei seguaci belliani — conservatori del dialetto puro — e dallo stesso Chiappini, difatti egli rivolgendo al proprio beniamino aspri dileggi, pubblicando su medesimo giornale, il 27 gennaio e il 4 febbraio, A l’amico Trilussa e ‘Na grande disgrazia, firmati all’appellativo Mastro Naticchia, tuttavia solo due giorni più avanti assumendone ruolo di difensore in irrisoria risposta a Poveti romaneschi, poesia scritta in severo biasimo a Trilussa da tale, Er dua de bbriscola, a cui Filippo prontamente contrappose, È ritratto de’ ritrattista, rivendicando prerogativa di riprensione in qualità di mentore:
Se chiama er dua de briscola, e se crede
d’esse l’Asso e de dà le stilettate,
povero ciuccio! Mettetece a sede;
statemel’a guardà, nun ve n’annate
Dateje du’ ciammelle sturcinate,
pagateje un schifanio, che se vede
c’ha na fame. Signore, ce sarvate,
che poveraccio nun s’aregge in piede.
Sinenta adesso ha fatto du’ mestieri,
er griscio e ‘r paura, e mo perch’è romano
scrive in dialetto pe’ li carettieri.
Scrive; ma lui Trastevere l’ha visto?
Lo vada a vede, ce stii un giorno sano,
e poi se butti giù da Ponte Sisto.
A cavallo di popolare fama, Trilussa perseverò, benché in misura minore, attività sul Rugantino, nel 1890 dando il via, in cooperazione a Padron Checco, al Er Mago de Bborgo. Lunario pe’ ‘r 1890, primo almanacco — illustrato dalla mano di Silhouette, pseudonimo del disegnatore Adriano Minardi — e l’anno seguente replicando con Er Mago de Bborgo. Lunario pe’ ‘r 1891, dal trio iniziale astenendosi Sabatini, parte scrittoria dunque esclusiva di Trilussa e Silhouette nuovamente protagonista del tratto artistico.
Ad assumere particolare importanza fra le varie collaborazioni di Trilussa con diverse riviste, sempre nel 1891 fu quella intrapresa con il quotidiano nazionale Don Chisciotte della Mancia — dal 1893 Don Chisciotte di Roma — riportante articoli di cronaca cittadina e satira politica, il cui prediletto bersaglio era l’operato del patriota, Francesco Crispi (1818-1901), fra uno scritto e l’altro il ventiduenne Trilussa impegnandosi come membro del comitato di redazione del rotocalco e, nel frattempo, ultimando Quaranta sonetti romaneschi, secondo volume autonomo custodente quarantuno sonetti — selezionati da precedenti pubblicazioni e revisionati — tramite uscita dei quali, avvenuta a fine 1894, venticinquennale legame professionale venne ad instaurarsi con l’editore Enrico Voghera e il 29 novembre dell’anno seguente vedendo luce La Cecala e la Formica, capolista d’una serie di favole che Trilussa tratteggiò rimodernando le originali di Esopo (620 a.C. – 564 a.C.) ed alle quali — con impareggiabile estro — intrecciò coeva morale, senza per questo scivolare in sterili perbenismi, al contrario serbando una perspicace ironia, unita a briosa libertà nell’esprimersi a mezzo penna.
Di lì a un triennio fu la Tipografia Folchetto a pregiarsi di stampa di Altri sonetti. Preceduti da una lettera di Isacco di David Spizzichino, strozzino, l’uomo citato nel titolo essendo a quanto pare il mittente dell’epistola che si narra fosse stata inviata a Trilussa, per intimarlo di restituire il prestito concesso per sostenere pubblicazione e non ancora estinto a causa di ritardi della stessa, il sarcastico autore decidendo d’inserirla nel testo, confermandosi spensierato giocoliere della vita ed abile funambolo sulle di lei peripezie, in quegli anni l’uomo inoltre recitandosi pubblicamente nei suoi versi fra teatri, circoli culturali ed elitari salotti cittadini, con arguta genuinità sfidando il pensiero corrente e con spiccata personalità poetica interpretando un cinquantennio di storia — dai primi anni del ventesimo secolo fino al dopoguerra — la sua voce elevandosi soavemente impermeabile a qualsiasi forzatura ideologica, egli difatti mai legando nominativo a tessere di partito e della politica in generale facendo prediletto bersaglio al centro del quale scagliare frecce intrise di satirico scherno, sardonicamente sbeffeggiando estremismi gerarchici, corruzione del sistema e loschi sotterfugi fra potenti, simmetricamente sciogliendo intima mestizia su riflessioni in riguardo ai sentimenti amorosi, all’ineluttabile scorrere del tempo ed alla frequente solitudine della terza età.
È il 1915 quando il quarantaquattrenne Trilussa si trasferì nel celebre atelier in via Maria Adelaide — a rimembrarne presenza una seconda targa evocativa — il 15 giugno dell’anno successivo nascendo a Cori — in provincia di Latina — Rosaria Tomei, il destino incrociando i due animi allorché la ragazza, all’età di quindici anni, nel 1930 raggiunse Roma nella speranza di affermarsi come attrice, casuale conoscenza con il poeta avvenendo all’interno di un’osteria e la coppia iniziando una convivenza — che si sarebbe protratta per vent’anni — durante la quale Rosa, com’era solito chiamarla l’uomo, ne divenne prediletta allieva e possibile erede letteraria, l’intellettualità della donna e le doti a lei insite che con zelante dedizione erano state da lui riconosciute, ammirate e coltivate — fra reciproca stima e corrisposto affetto — venendo ingratamente sminuite e perentoriamente contrastate quand’egli venne a mancare, impotentemente lasciando la nascente poetessa in balìa di perfide dicerie e infondate diffidenze che le impedirono d’affermarsi come scrittrice di tutto rispetto, l’incompresa donna spegnendosi il 5 dicembre 1966 — a soli cinquant’anni — e la sua presenza nella vita del vate ricamando indelebile e tenero connubio, di cui amorevoli versetti da Trilussa più volte immortalati in poesia.
Quanno che Iddio decise de fa er fiore
perché te rallegrasse un po’ er creato
prima d’ognantro volle fa la rosa;
prese all’arba ‘na nuvola spugnosa
[…]
ne formò ‘na conca capricciosa
[…]
Riuscì così perfetta ch’er Signore
l’incoronò reggina d’ogni fiore.
Dopo il classico Belli e l’epico Cesare Pascarella (1858-1940), Trilussa rappresentò il terzo ragguardevole poeta di dialetto romanesco dal diciannovesimo secolo in poi, interponendosi a metà strada fra l’originario gergo popolare del primo e l’idioma più raffinato — dato l’orientarsi alla borghesia — del secondo, inoltre le terzine trilussiane più struggenti screziandosi di sfumature proprie alla poetica di Olindo Guerini, ‘Lorenzo Stecchetti’ (1845-1916) — altrettanto noto con una moltitudine di bizzarri eteronimi — e a quella dell’intenso Guido Gozzano (1883-1916), sorgente primaria alla quale abbeverarsi per esprimersi in versi, Trilussa individuando nella bellezza della quotidianità scrutata frequentando la sua Roma, le cui strade, piazze, teatri, circoli, osterie e ambienti in genere vennero da lui battuti con irriducibile far da gaudente ed elegantissimo seduttore il quale, con feluca, guanti bianchi e immancabile fiore all’occhiello, corteggiò donne ad oltranza, facendosi un baffo dell’intero mondo, tra un inchino, un passo di danza, un sorseggio di Frascati e una sigaretta, decantando la politica in tutta Italia con ineguagliabile savoir faire ed a ulteriormente caratterizzarne figura, un inseparabile bastoncino di canna da bambù perennemente fra le labbra.
Favolista la cui screziata autoironia ondeggiante fra percepito entusiasmo e beato disincanto, i personaggi di fantasia trilussiani furono animali parlanti o strambi individui attraverso i quali metaforizzare gli umani vizi, acuta sottigliezza dell’autore quella di non “porsi a cattedra” nel dispensare morali dall’alto, bensì incoraggiando il lettore a trarle da sé dagli spaccati di realtà a lui sapientemente proposti in narrazione.
Fra la moltitudine di componimenti, articoli e fiabe, Trilussa trascorse intera esistenza in caparbia fede a se stesso ed alle proprie opinioni, seppure nell’accortezza di mantenersi brillantemente aperto al sapere e in sincero slancio emotivo verso il cuore del popolo romano, il primo dicembre 1950, Luigi Numa Lorenzo Einaudi (1864-1961), in qualità di Presidente della Repubblica, riconoscendone meriti nel nominarlo senatore a vita, carica ossequiandolo esattamente venti giorni prima che, arrendendosi a sofferta malattia, Trilussa — si racconta — sussurrando, «Mò me ne vado», al blandir Capitale del tramonto, s’abbandonasse ad eternità, le spoglie trovando pace nel Cimitero Monumentale del Verano, dove a rimembrarne spirito, i versi della poesia Felicità, incisi in epigrafe a imperitura memoria, su marmoreo libro:
C’è un’Ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.
Trilussa, poesie:
Er ventriloco
Se credi a questo, sei ‘no scemo, scusa:
pò sta’ che un omo parli co’ la gente
come se ne la panza internamente
ciavesse quarche machina arinchiusa?
Nun credo che in un’epoca che s’usa
d’aprì la bocca senza di’ mai gnente
esista ‘sto fenomeno vivente
che dice tante cose a bocca chiusa!
Parla cór ventre! Oh questa sì ch’è bella!
Sortanto er poveraccio che nun magna
se sente fa’ glu-glu ne le budella.
Io stesso, speciarmente a fin de mese,
me sento che lo stomaco se lagna…
Ma sai ched’è? La voce der Paese!
Er barbiere e l’avventore
In questo qui so’ come San Tomaso,
o Sonnino o Giolitti, sia chi sia…
— Famme la barba, Pippo, tira via…
— Er proletario ormai s’è persuaso
che se un governo de la borghesia
sfrutta er lavoratore, in de ‘sto caso…
— Abbada, Pippo, m’insaponi er naso…
— È tanto peggio pe’ la monarchia!
— Peggio per me! me scortichi! fa’ piano!…
— Ma intanto er socialismo progredisce…
— Attento ar pedicello!… — E a mano a mano…
— M’hai fatto du’ braciole sur barbozzo…
— Un giorno o l’antro sa come finisce?
— Finisce che me taji er gargarozzo!
L’assicurazzione de la vita
Dice ch’a Roma c’è ‘na compagnia
de gente ch’assicureno la vita;
io ‘sta frescaccia nu’ l’ho mai capita
e dico ch’è ‘na gran minchioneria.
Anzi me pare propio un’eresia,
perché quanno ch’è l’ora stabbilita
ch’er Padreterno la vô fa’ finita,
che t’assicuri? l’ossa de tu’ zia?
È ‘na speculazzione immagginata
pe’ fa’ sòrdi a le spalle de la gente
che ce crede e ciaresta buscarata.
L’ha provato er sor Checco, er mi’ parente:
co’ tutto che se l’era assicurata
è morto tale e quale d’accidente.
Io e voi
Sì, fra me e voi ce corre un gran divario
come er giorno e la notte, tale e quale,
perché ciavemo tutto disuguale
e la pensamo sempre a l’incontrario.
Voi marciate in carrozza padronale
e ogni giorno cambiate de vestiario;
io, invece, che ciò giusto er necessario,
vado a pedagna e vesto sempre eguale.
Voi sete bionna bionna, io moro moro,
voi sete bianca bianca, io nero nero,
voi campate de rendita, io lavoro;
quer che ciò io nun ce l’avete voi…
Se l’estremi se toccheno davero
perché nun se toccamo puro noi?
L’istinto
È er corpo istesso che sente spinto:
presempio, puro una signora onesta,
quanno piove, che fa? s’arza la vesta
perché se sente spigne da l’istinto.
Percui ‘sto movimento o vero o finto
lo famo senza mettece la testa;
fra l’antre cose, io mó t’insegno questa,
e doppo me dirai se t’ho convinto.
Vedi un carro de fieno? Eh! nun se sbaja:
tutti quelli che passeno je tocca
d’annaje accosto e de rubbà una paja.
E dar signore infino ar cerinaro
li trovi tutti co’ la paja in bocca…
Embè, ched’è? L’istinto der somaro.
L’ecrisse
Sì, ‘st’ecrisse che fanno li scenziati,
nu’ lo nego, sarà una cosa bella,
ma però tutti l’anni è ‘na storiella,
ciarimanemo sempre cojonati.
L’antr’anno mi’ fratello pe’ vedella
ce venne espressamente da Frascati,
stette un’ora coll’occhi spalancati
senza potè scoprì manco ‘na stella.
Se er celo è sempre nuvolo, succede
che un’antra vorta, quanno la faranno,
nun ce sarà gnisuno che ce crede.
E io ciavrebbe gusto: perché quanno
er celo è annuvolato, chi la vede?
che lo dicheno a fa’? perché la fanno?
Er macchiavello de certe…
Quann’è sur primo de la relazzione
la donna maritata nun connette:
scrive, viè a casa tua, se compromette,
e dice ch’er marito è un bonaccione.
Ma appena che je sfuma la passione
se fa seria, considera, arifrette…
E er marito? È un feroce ammazzasette
che gira co’ lo stocco ner bastone.
Allora te fa er solito discorso:
— Te vojo tanto bene… me dispiace…
ma capirai… nun vojo avé rimorso… —
E, se nun pô attaccasse a ‘sti rampini,
pe’ fasse piantà subbito è capace
de ditte ch’ha bisogno de quatrini!
Questioni de razze
Che te ne preme se so’ nati in Ghetto,
se cianno la credenza diferente?
La razza? er sangue? E che decide? Gnente.
Perché so’ interessati? È un ber difetto!
Per ajutasse reciprocamente
qualunque fede merita rispetto:
puro Lutero assieme co’ Maometto
protegge li cristiani de l’Oriente!
E Isacco che m’impresta li quatrini
a l’ottanta per cento e er pegno in mano?
nun te lo nego: è er re de li strozzini;
ma intanto tu rifretti ar caso mio:
se vojo fa’ ‘na vita da cristiano
bisogna che ricorra da un giudìo!
Dar pretore
Vi chiamate? — Fanny. — Di professione?
— Abbito a Tomacelli, centosei…
— Brava! Quant’anni avete? — Faccia lei…
— Vostro marito fu? — Fu ma birbaccione!
— Ma fu Pietro o Pasquale?… — Nun saprei:
lo conobbi a lo scuro, in d’un portone…
— Secondo ciò che ha detto un testimone
fate un brutto mestiere, anzi direi…
— Sì, n’avrò fatte… più de Carlo in Francia:
ma mó so’ vecchia, ho voja a mette scuse!
oramai me contento de la mancia.
— E allora come va che insieme a certe…
vi fecero un processo a porte chiuse?
— Perché tenevo le finestre aperte.
Li calennari
I
Jeri me so’ comprato un calendario,
si tu lo vedi, ch’è ‘na sciccheria:
ortre der giorno e er santo, c’è l’orario
cór cambiamento de l’Avemmaria.
De dietro a ogni fojetto der lunario
c’è er pezzettino d’una poesia,
un proverbio, un consijo culinario,
e la ricetta pe’ ‘na malatia.
Però er cattivo è questo: se un ber giorno
nun ciò un bajocco, trovo sur fojetto:
«Sottopetti di pollo col contorno.»
E se a marzo me scotto in quarche posto,
p’avé er rimedio da ‘sto lunarietto,
ho d’aspettà li sedici d’agosto…
II
Questo sarebbe gnente: ciò trovato
un impiccio davero più maggiore,
perché se vede che lo stampatore,
co’ la prescia o che antro, s’è sbajato.
Er fatto sta che a un giorno cià mischiato
una bella sentenza su l’amore
cór modo de curasse er rifreddore
e de còce l’abbacchio brodettato.
Defatti ce so’ scritte ‘ste parole:
«Se amate veramente una donzella
fregatevi la parte che vi dole:
pigliate una pezzetta di flanella…
sbattete l’uova ne le cazzarole
e dopo ciò mettetelo in padella…»
Il museo storico-artistico meccanico
I
Di fuori
…Al non piussultra de la meraviglia!
Vedranno il padiglione riservato
col gabinetto celtico, indicato
pe’ le giovini madri di famiglia.
Vedranno un feto morto appena nato
che si conserva drento la bottiglia:
ha quattro mesi e incora gli somiglia
pe’ la maniera in cui fu imbalzamato.
Oltre a le varietà d’anatomia,
utile a tutti quanti, avrò l’onore
di presentarglie la padologia:
la Venere anatomica! la Venere
che si scompone in ogni suo interiore,
con spiegazioni di qualunque genere!
II
Dentro
Questa donna in grandezza naturale,
meccanizzata da parer vivente,
è Cleopatra d’Antogno per il quale
si fece suicidare dar serpente.
Questa, ch’apre le braccia in modo tale
da sembrare una donna propiamente,
è la Cenci davanti ar tribunale condannata ar patibolo innocente.
Ecco Fanny, la dea de la ginnastica,
ed il noto poveta Dante Algeri, capolavoro de la cromoplastica.
Questa è la ballerina e l’impresario…
La donna non si mòve perché jeri
l’abbiamo caricata all’incontrario.
III
Ecco Viltòm che dopo avé sedotte
le serve glie sventrava l’intestini;
Ravasciolle l’anarchico e Pranzini che prese a pugnalate la coccotte.
Uno dei più terribili assassini:
Caserio l’uccisore di Carnotte, e il famoso Coffrò, che in una notte
strozzò quarantasette regazzini.
Ogni assassino cià il vestiario analogo,
col misfatto descritto chiaramente
come potranno legge nel catalogo:
ché tutte queste so’ riproduzioni
d’atrocità commesse esattamente,
già premiate in diverse esposizioni.
La morale der codice
I
Prova cór senatore:
— fece la zia — chi sa?…
È un vecchio porco, ma
in fonno cià bon core;
vacce, Maria, va’ là…
L’onore? Eh, sì, l’onore!
Se torna l’esattore
je damo l’onestà?
Der resto, cara mia,
bisogna che t’industri:
vacce, dà’ retta a zia… —
Marietta sospirò…
Ma poi, coll’occhi lustri,
rispose: — Cianderò.
II
Er vecchio, ner vedella,
disse: — Me piaci assai!
E, dimme, hai fatto mai…
— Mai! — je rispose quella.
— E adesso ch’età ciai?
— Quindici… — Bagattella!
Ma allora, figlia bella,
non voglio… capirai…
Col posto che ciò io,
no… non potrei… va’ pure:
so’ un galantomo… Addio. —
Poi disse: — Fossi matto!
So’ sempre seccature,
me ponno fa’ un ricatto…
Er principe rivoluzzionario
Parla er cammeriere
I
Collarino fa li discorsi, ciacconsento,
è rivoluzzionario e te l’ammetto:
ma quanno che nun parla cambia aspetto,
diventa de tutt’antro sentimento.
È a casa che succede er cambiamento:
povero me, se manco de rispetto!
o se ner daje un fojo nu’ lo metto,
come vô lui, ner gabbarè d’argento!
T’abbasti questo: quanno va in campagna
a fa’ le conferenze ner comizzio
la moje sua la chiama: la compagna.
La compagna? Benissimo: ma allora
perché co’ le persone de servizzio
la seguita a chiama: la mia signora?
II
Perché la sera me se mette in fracche,
eppoi, quanno minchiona er proletario,
s’ammaschera cór solito vestiario
tutto sciupato e pieno de patacche?
E, a parte er cambiamento de le giacche,
come farà l’anarchico incendiario
lui ch’ar petrojo rivoluzzionario
ha preferito sempre un bon cognacche?
Prèdica tanto bene l’eguaglianza,
ma si sapessi come è disuguale
quanno se tratta de riempì la panza!
Io me n’accorgo quanno magna er pollo:
lui se pappa le cosce, er petto e l’ale,
e a me me resta la carcassa e er collo!
III
Se parla presto de rivoluzzione,
se dice facirmente: scioperate,
quann’uno cià le cammere montate
co’ tanto de tappeti e de portrone!
Ma quanno scoppierà la ribbejone
che faranno sur serio a schioppettate,
scommetto che pe’ fa’ le bancate
der suo nun je dà manco un credenzone!
Pur’io so’ socialista, ma nun vojo
la propaganna rivoluzzionaria
da chi è tranquillo drento ar portafojo!
Da chi consija de mannà per aria
la società borghese cór petrojo
perché s’è assicurato a la Fondiaria!
IV
Pe’ fa’ ‘sti fatti nun ce vonno mica
le mano lisce co’ l’anelli d’oro,
ma le mano infocate dar lavoro
de la povera gente che fatica;
quele mano che cianno la vescica
pe’ fa’ un guadagno che nun è mai loro:
ecco chi tajerà la testa ar toro
senza che er mi’ padrone je lo dica!
Saranno un giorno queli disgrazziati
che la faranno veramente, stanchi
d’esse rimasti sempre cojonati;
ma no li socialisti in guanti bianchi
che me fanno l’apostoli, invortati
ne le pellicce de tremila franchi!
V
La bona fede der lavoratore
nun va trattata come un giocarello:
perché lì, dice bene come quello,
quer che ciò su la bocca ciò ner core.
Lo so da me ch’er socialismo è bello:
ma quanno me lo predica er signore
che nun conosce solo che er sudore
de le feste da ballo, me ribbello!
Io, spesso, raggionanno cór padrone,
cerco de dije ch’ha sbajato piano,
ché in questo nun cià troppa vocazzione…
Ma lui s’inquieta, e sai che ce guadagno?
Ch’ogni tanto me dà der ciarlatano,
credenno de parlà con un compagno!
La fattucchiera
I
Abbita in Borgo, in un bucetto scuro,
pieno de ragni che te fa spavento:
c’è ‘na scanzìa, du’ sedie, un letto a vento
e quarche santo appiccicato ar muro.
Tra le pile e le carte ce tiè puro un sacco de barattoli d’inguento,
erbe e noce pijate a Benevento,
bone pe’ fa’ qualunquesia scongiuro.
Benanche che ‘sto sito è così infame,
in certi giorni c’è de le giornate
ch’è sempre pieno zeppo de madame.
E ce ne vanno nun se sa se quante!
Tutte signore oneste, maritate,
che vonno le notizzie de l’amante.
II
Appena ch’entrai drento, un gatto rosso,
che stava a sgnavolà su la scanzìa,
invetri l’occhi drento a quelli mia,
arzò er groppone e diventò più grosso.
— Parla, — fece la strega — tira via:
t’ha piantato l’amico? Sputa l’osso.
Vôi scoprì un ladro? Ah, questo qui nun posso:
io fo la strega, mica fo la spia! —
Perché ‘sta fattucchiera è un po’ curiosa:
se ce vai p’interessi o per amore
lei t’indovina subbito la cosa;
se invece, viceversa, tu ce vai
pe’ scoprì un ladro, è peggio der questore:
nun so perché, nun c’indovina mai!
III
Io ce provai. Je dissi: — L’antra sera
hanno arubbato una catena d’oro
a ‘na famija a vicolo der Moro,
la quale stava drento a ‘na peschiera…
— Benone: — disse — e in cammera chi c’era? —
Dico: — Un commennatore amico loro…
Poi venne un capo-mastro a fa’ un lavoro…
— E chiaro! — barbottò la fattucchiera —
Senza che cerchi tanto, sposa mia,
la robba che te manca l’ha rubbata
er capo-mastro prima d’annà via. —
Defatti fu arestato er muratore…
e la catena d’oro fu trovata
ne le saccocce der commennatore.
A chi tanto e a chi gnente!
Da quanno che dà segni de pazzia,
povero Meo! fa pena! È diventato
pallido, secco secco, allampanato,
robba che se lo vedi scappi via!
Er dottore m’ha detto: — È ‘na mania
che nun se pô guarì: lui s’è affissato
d’esse un poeta, d’esse un letterato,
ch’è la cosa più peggio che ce sia! —
Dice ch’er gran talento è stato quello
che j’ha scombussolato un po’ la mente
pe’ via de lo sviluppo der cervello…
Povero Meo! Se invece d’esse matto
fosse rimasto scemo solamente,
chi sa che nome se sarebbe fatto!
La politica
Ner modo de pensa c’è un gran divario:
mi’ padre è democratico cristiano,
e, siccome è impiegato ar Vaticano,
tutte le sere recita er rosario;
de tre fratelli, Giggi ch’è er più anziano
è socialista rivoluzzionario;
io invece so’ monarchico, ar contrario
de Ludovico ch’è repubbricano.
Prima de cena liticamo spesso
pe’ via de ‘sti principî benedetti:
chi vô qua, chi vô là… Pare un congresso!
Famo l’ira de Dio! Ma appena mamma
ce dice che so’ cotti li spaghetti
semo tutti d’accordo ner programma.
La statistica
Sai ched’è la statistica?
È ‘na cosa che serve pe’ fa’ un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che spósa.
Ma pe’ me la statistica curiosa
è dove c’entra la percentuale,
pe’ via che, lì, la media è sempre eguale
puro co’ la persona bisognosa.
Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra ne le spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perché c’è un antro che ne magna due.
Er battesimo civile
Pe’ nun faje er battesimo davero,
ho battezzato la pupetta mia
cór vino de Frascati all’osteria,
davanti a ‘no stennardo rosso e nero.
Zi’ Pippo, l’oste, come un prete vero,
pijò la pupa, la chiamò Anarchia,
e biastimò la Vergine Maria
per un riguardo ar libbero pensiero;
doppo du’ o tre bevute, er comparetto,
a cavallo a ‘na botte de Frascati,
ce fece un… verso e recitò un sonetto;
mentre la pupa, ner vedé ‘ste scene,
pareva che guardasse l’invitati
come pe’ dije: — Cominciamo bene!
Momenti scemi
Le lettere ch’ha scritto Rosa mia
l’avrebbe d’abbrucia, ma nun ciò core:
le tengo chiuse drento a un tiratore
framezzo a li mazzetti de gaggia.
Fa tanto bene a ripensà a l’amore
ne li momenti de malinconia:
provi una spece de nun so che sia,
come un piacere de sentì dolore.
Ched’è? da che dipenne? Nun saprei:
ma so che ‘st’impressione io me la sento
se rileggo le lettere de lei.
Se tu vedessi quante ce ne stanno!
Me n’avrà scritte armeno un quattrocento…
perché m’ha cojonato più d’un anno!
L’ingiustizzie der monno
Canalino che senti di’ «cleptomania»
è segno ch’è un signore ch’ha rubbato:
er ladro ricco è sempre un ammalato
e er furto che commette è una pazzia.
Ma se domani è un povero affamato
che rubba una pagnotta e scappa via
pe’ lui nun c’è nessuna malatia
che j’impedisca d’esse condannato!
Così va er monno! L’antra settimana
che Teta se n’agnede cór sartore
tutta la gente disse: — È una puttana. —
Ma la duchessa, che scappò in America
cór cammeriere de l’ambasciatore,
— Povera donna! — dissero — È un’isterica!…
Li bisogni de la giustizzia
Ah, certo, l’avvocato difensore
me fece una difesa commovente!
— Voi — disse — condannate un innocente!
Pietro Palletti è un giovane d’onore! —
Ma sì! Perdeva er tempo inutirmente:
quer possin’ ammazzallo der pretore
seguitava a parlà con un signore
che manco la vergogna de la gente!
E sapete chi era? Lo strozzino
che je sconta l’effetti: tant’è vero
che je messe un pappié sur tavolino;
lui l’infilò ner Codice Penale
eppoi me condannò soprapensiero
propio a tre mesi come la cambiale!
L’onestà de mi’ nonna
Quanno che nonna mia pijò marito
nun fece mica come tante e tante
che doppo un po’ se troveno l’amante…
Lei, in cinquantanni, nu’ l’ha mai tradito!
Dice che un giorno un vecchio impreciuttito
che je voleva fa’ lo spasimante
je disse: — V’arigalo ‘sto brillante
se venite a pijavvelo in un sito. —
Un’antra, ar posto suo, come succede,
j’avrebbe detto subbito: — So’ pronta. —
Ma nonna, ch’era onesta, nun ciagnede;
anzi je disse: — Stattene lontano… —
Tanto ch’adesso, quanno l’aricconta,
ancora ce se mozzica le mano!
Er teppista
Credi ch’io sia monarchico? Pe’ gnente:
che me ne frega? E manco socialista!
Repubbricano? Affatto! Io so’ teppista
e, pe’ de più, teppista intransiggente!
Ciancico, sfrutto, faccio er propotente
cór proletario e cór capitalista,
caccio er cortello, meno a l’imprevista,
magno e nun pago e provoco la gente.
Se me capita, sfascio:
e sputo in faccia a le donne, a li preti, a li sordati…
Ma nun me crede poi tanto bojaccia:
che so’ più onesto, quanno semo ar dunque,
de tutti ‘sti teppisti ariparati
de dietro a ‘na politica qualunque!
Onore ar merito
I
Checchina ch’ha sposato er muratore,
co’ tutto che sia giovene e sia bella,
seguita a fa’ la serva e s’aranchella
piuttosto che casca ner disonore:
invece Mariettina, la sorella
che un anno fa ciaveva er senatore,
adesso sta a Pariggi e fa furore,
cià li quatrini e marcia in carettella.
Tu me dirai: — Va bè’, ma mentre questa
se mette assieme li pappié da mille,
povera Checca se conserva onesta… —
In fonno nun hai torto: ma la gente
seguita a di’ che Checca è un’imbecille
e che Manetta è stata inteliggente.
II
Invece de chiamasse Mariettina
se fa chiama Musetta, e j’hanno fatto
puro le cartoline cór ritratto
ch’avressi da vedé quant’è carina!
L’istessa madre sua, che doppo er fitto
la trattò da puzzona e d’assassina,
ner rivedella su la cartolina
se la guardò coll’occhio soddisfatto.
Anzi, dice che disse a la sartora:
— Nun me sta bene a me ché je so’ madre,
ma adesso fa fichetto a una signora!
Eh! sposa mia! Se stasse in un cantone
quela benedett’anima der padre!
Povero vecchio! Che soddisfazzione!…
L’assassino moderno
I
Eccome qua da lei, sor delegato:
vengo per l’omicidio ch’è successo.
Io so’ Pasquale Teppi: lo confesso,
so’ stato propio io che l’ho ammazzato.
Me so’ costituito solo adesso
pe’ via che jeri m’hanno intervistato,
e avevo da parlà co’ l’avvocato
pe’ famme la difesa ner processo.
Ho scritto la rettifica ar giornale:
mó sto tranquillo… Eppoi legga l’articolo
quarantasei der Codice Penale:
lo vede? È chiaro! Data la questione,
me posso mette, se nun c’è pericolo,
completamente a sua disposizzione.
II
Qual’è stato er movente der delitto?
Come sarebbe a di’? quale movente?
Io, pe’ me tanto, nun movevo gnente
se l’ammazzato fosse stato zitto.
Domani, ne la lettera ch’ho scritto,
je spiego l’omicidio chiaramente,
e lei ch’è una persona inteliggente
dirà se stavo o no ner mio diritto.
Perfino l’avvocato me consija
de confessà sinceramente er fatto
perché me sarva un vizzio de famija:
nonno beveva, nonna più de lui,
mi’ padre, poveretto, è morto matto,
mi’ madre era epilettica: per cui…
III
Co’ questo sto a cavallo, è indubbitabbile;
più c’è un perito de frenologgia
ch’ha già trovato su la faccia mia
li segni d’un carattere eccitabbile.
Perché ciò l’osso in fòra, l’occhio stabbile,
la fronte bassa che me scappa via…
Tutto un assieme de fisonomia
che c’è nell’omo semi-responsabbile.
cór una prova in mano come questa
dimostro che so’ nato delinquente
pe’ la conformazzione de la testa:
e s’ho mannato un omo all’antro monno
la corpa è tutta quanta dipennente
da quele sborgne che pijava nonno.
Li burattini
I
Guarda li burattini su la scena
co’ che importanza pijeno la cosa:
guarda er gueriero ch’aria contegnosa,
come se sbatte bene, come mena!
Vince tutti! È terribbile! Ma appena
la mano che lo môve se riposa,
l’eroe s’incanta e resta in una posa
che spesso te fa ride o te fa pena.
Lo stesso è l’omo. L’omo è un burattino
che fa la parte sua fino ar momento
ch’è mosso da la mano der destino;
ma ammalappena ch’er burattinaro
se stufa de tenello in movimento,
bona notte, Gesù, ché l’ojo è caro!
II
Li burattini, doppo lavorato,
finischeno ammucchiati in un cantone,
tutti in un mazzo, senza fa’ questione
sopra la parte ch’hanno recitato.
Così ritrovi er boja abbracciato
ar prete che je dà l’assoluzzione,
mentre l’eroe rimane a pennolone
vicino a li nemmichi ch’ha ammazzato.
È solo lì ch’esiste un’uguaglianza
che t’avvicina er povero pupazzo
ar burattino che se dà importanza:
e, unito ner medesimo pensiero,
pare che puro er Re, framezzo ar mazzo,
diventi democratico davero!
La cecala e la formica
Una Cecala, che pijava er fresco
all’ombra der grispigno e de l’ortica,
pe’ da’ la cojonella a ‘na Formica
cantò ‘sto ritornello romanesco:
— Fiore de pane,
io me la godo, canto e sto benone,
e invece tu fatichi come un cane.
— Eh! da qui ar bel vedé ce corre poco:
— rispose la Formica —
nun t’hai da crede mica
ch’er sole scotti sempre come er foco!
Amomenti verrà la tramontana:
commare, stacce attenta… —
Quanno venne l’inverno
la Formica se chiuse ne la tana;
ma, ner sentì che la Cecala amica
seguitava a cantà tutta contenta,
uscì fòra e je disse: — Ancora canti?
ancora nu’ la pianti?
— Io? — fece la Cecala — manco a dillo:
quer che facevo prima faccio adesso;
mó ciò l’amante: me mantiè quer Grillo
che ‘sto giugno me stava sempre appresso.
Che dichi? l’onestà? Quanto sei cicia!
M’aricordo mi’ nonna che diceva:
Chi lavora cià appena una camicia,
e sai chi ce n’ha due? Chi se la leva.
L’acqua, er foco e l’onore
L’Acqua, er Foco e l’Onore
fecero er patto d’esse sempre amichi,
vicini ne la gioja e ner dolore
come s’usava ne li tempi antichi.
— Io ce sto: — disse l’Acqua — ma che famo
se quarchiduno de noi tre se perde?
Ce vonno li segnali de richiamo.
A me, me troverete ne li prati
pieni de verde e in più d’un’osteria
che vende er «vero vino de Frascati».
— Correte dove vanno li pompieri.
— je disse er Foco — Quella è casa mia. —
L’Onore chiese: — E a me chi m’aripija?
In società ce capito de rado;
pe’ li caffè, lo stesso. Ormai nun vado
nemmanco ne le feste de famija.
È passata quell’epoca! D’altronne
me so’ invecchiato e poco più m’impiccio
d’affari, de politica e de donne.
Ho inteso a di’ che spesso
li mariti d’adesso
ammazzeno la moje a nome mio;
nun ve fate confonne: nun so’ io!
E state attent’a quelli
che fanno li duelli…
— Oh! sai che nova c’è? — je disse er Foco —
Ner caso che te perdi, fa’ un segnale:
se poi nun te trovamo è tale e quale,
ché in fin de conti servi a tanto poco!
Er sole e er vento
Un giorno er Sole e er Vento
fecero la scommessa
a chi arzava la vesta a ‘na regazza
che, propio in quer momento,
traversava ‘na piazza.
— Io — disse er Sole — posso sta’ tranquillo:
se per arzà la vesta
puro a ‘na donna onesta
basta ‘na purce o un grillo, è affare mio:
me la lavoro io! —
Ce provò du’ o tre vorte: inutirmente;
la regazza faceva quarche strillo,
zompava un po’, ma nun s’arzava gnente.
Tutto contento, er Vento,
prima de fa’ la prova,
entrò in un Banco e fece volà via
una carta da cento.
Poi cominciò cór fischio da lontano,
e piano piano je se fece addosso;
ma la regazza, arinnicchiata ar muro,
s’areggeva la vesta co’ le mano
e strigneva le gambe a più nun posso.
Però, quanno s’accorse der bjietto
che je volava propio su la testa,
agnede p’acchiappallo, arzò le braccia…
Allora er Vento la pijò de faccia,
se fece sotto e j’arzò su la vesta.
— Vedi e — dice — nun è che a noi ciamanchi
la forza a fa’ li fochi o a fa’ li venti:
è ch’oggiggiorno, in cert’esperimenti,
ce vonno li pappié da cento franchi!
Er sorcio de città e er sorcio de campagna
Un Sorcio ricco de la capitale
invitò a pranzo un Sorcio de campagna.
— Vedrai che bel locale,
vedrai come se magna…
— je disse er Sorcio ricco — Sentirai!
Antro che le caciotte de montagna!
Pasticci dorci, gnocchi,
timballi fatti apposta,
un pranzo co’ li fiocchi! una cuccagna! —
L’istessa sera, er Sorcio de campagna,
ner traversà le sale
intravidde ‘na trappola anniscosta;
— Collega, — disse — cominciamo male:
nun ce sarà pericolo che poi…?
— Macché, nun c’è paura:
— j’arispose l’amico — qui da noi
ce l’hanno messe pe’ cojonatura.
In campagna, capisco, nun se scappa,
ché se piji un pochetto de farina
ciai la tajola pronta che t’acchiappa;
ma qui, se rubbi, nun avrai rimproveri.
Le trappole so’ fatte pe’ li micchi:
ce vanno drento li sorcetti poveri,
mica ce vanno li sorcetti ricchi!
Er fumo e la nuvola
Un Fumo nero nero e fitto fitto,
ch’esciva da la cappa d’un cammino,
annava dritto, a sbuffi, verso er celo.
Tanto che per un pelo
sbatteva in una Nuvola abbottata;
una Nuvola bianca ch’era stata
assieme a le compagne
a fa’ ‘na pioggia de beneficenza
pe’ tutte le campagne.
— Perché te metti su la strada mia?
— je disse er Fumo — Levete davanti!
Io so’ fijo der Foco! Passa via!
— Sai, nun m’incanti! —j’arispose lei —
Fai male a di’ ‘ste cose propio a noi:
nun te fa’ der paese che nun sei!
Conosco tanta gente
che se dà ‘st’arie e poi
l’acchiappi, strigni, guardi, e nun c’è gnente…
Datte puro ‘sto fumo, ma fai male
a racconta che venghi su dar foco:
perché tu sai benissimo ch’è un coco
che còce una braciola de majale.
L’elezzione der presidente
Un giorno tutti quanti l’animali
sottomessi ar lavoro
decisero d’elegge un Presidente
che je guardasse l’interessi loro.
C’era la Società de li Majali,
la Società der Toro,
er Circolo der Basto e de la Soma,
la Lega indipennente
fra li Somari residenti a Roma;
eppoi la Fratellanza
de li Gatti soriani, de li Cani,
de li Cavalli senza vetturini,
la Lega fra le Vacche, Bovi e affini…
Tutti pijorno parte a l’adunanza.
Un Somarello, che pe’ l’ambizzione
de fasse elegge s’era messo addosso
la pelle d’un leone,
disse: — Bestie elettore, io so’ commosso:
la civirtà, la libbertà, er progresso…
ecco er vero programma che ciò io,
ch’è l’istesso der popolo! Per cui
voterete compatti er nome mio. —
Defatti venne eletto propio lui.
Er Somaro, contento, fece un rajo,
e allora solo er popolo bestione
s’accorse de lo sbajo
d’avé pijato un ciuccio p’un leone!
— Miffarolo! — Imbrojone! — Buvattaro!
— Ho pijato possesso:
— disse allora er Somaro — e nu’ la pianto
nemmanco se morite d’accidente.
Peggio pe’ voi che me ciavete messo!
Silenzio! e rispettate er Presidente!
La caccia a la vorpe
— Ma perché scappi via?
— disse un Toro a la Vorpe — Indove vai? —
La Vorpe j’arispose: — Nu’ lo sai
che ciò de dietro l’aristocrazzia?
Nun sai che ‘sta canaja,
ch’ogni tanto se dà l’appuntamento,
me viè appresso, m’acchiappa e poi me taja
la capoccia e la coda?
Guarda che bella moda!
che ber divertimento!
— Ma — fece er Toro —avressi da capilla
che a quelli je diverti perché scappi.
Se nun vôi che ‘sta gente
propotente t’acchiappi,
nun te move, nun corre, sta’ tranquilla. —
Ner mejo che parlaveno fra loro,
viddero un cavajere in fracche rosso
che invece de sartà ‘na staccionata
fece un capolitombolo in un fosso.
La Vorpe disse piano:
— Accidenti! che straccio de cascata!
Dev’esse quarche principe romano!
La violetta e la farfalla
Una vorta, ‘na Farfalla
mezza nera e mezza gialla,
se posò su la Viola
senza manco salutalla,
senza dije ‘na parola.
La Viola, dispiacente
d’esse tanto trascurata,
je lo disse chiaramente:
— Quanto sei maleducata!
M’hai pijato gnente gnente
per un piede d’insalata?
Io so’ er fiore più grazzioso,
più odoroso de ‘sto monno,
so’ ciumaca e nun ce poso,
so’ carina e m’annisconno.
Nun m’importa de ‘sta accanto
a l’ortica e a la cicoria:
nun me preme, io nun ciò boria:
so’ modesta e me ne vanto!
Se so’ fresca, per un sòrdo
vado in mano a le signore;
appassita, so’ un ricordo;
secca, curo er raffreddore…
Prima o poi so’ sempre quella,
sempre bella, sempre bona:
piacio all’ommini e a le donne,
a qualunque sia persona.
Tu, d’artronne, sei ‘na bestia,
nun capischi certe cose… —
La Farfalla j’arispose:
— Accidenti, che modestia!
Er bijetto da cento lire
Un Bijetto da Cento
diceva: — È più d’un mese
che giro ‘sto paese,
sempre in funzione, sempre in movimento!
Comincianno da un vecchio, che una notte
me diede a ‘na coccotte,
so’ capitato in mano a un farmacista,
a un avvocato, a un giudice, a un fornaro,
a un prete e a un socialista.
Capisco ch’è ‘na gran soddisfazione
d’annà in saccoccia a tutti: ommini e donne,
onesti e farabbutti; ma d’artronne
trovo curioso che l’istesso fojo,
che j’ha servito a fa’ ‘na bona azzione,
poi serva a fa’ un imbrojo!
Mó, da quattr’ora, sto ner portafojo
d’una signora onesta:
ma indove finirò doppo de questa?
Chi lo sa? chi lo sa? Chi me possiede
me conserva, me stima,
me tiè da conto assai, ma nun me chiede
quer che facevo co’ chi stavo prima.
E questo è naturale, capirai:
quanno se tratta de pijà quatrini
la provenienza nun se guarda mai!
Er pipistrello
La Lodola e er Fringuello,
ner vede un Pipistrello
più nero de l’inchiostro,
dissero: — Uh Dio che mostro!
Nun pare manco vero
che sia fratello nostro!
È brutto, sbrozzoloso,
cià l’ale come er diavolo…
— Nun me n’importa un cavolo!
— rispose er Pipistrello —
Lo so che so’ cattivo,
lo so che nun so’ bello:
ma, manco a dillo, vivo
libbero e più tranquillo
de qualunqu’artro ucello.
Io, come le coccotte,
nun sórto che la notte:
fo er solito giretto
verso l’avemmaria,
m’acchiappo quarche grillo,
m’intrufolo ner tetto,
magno, risòrto e via:
ecco la vita mia!
È mejo che nun ciabbia
er canto der Fringuello
che poi finisce in gabbia.
Dite: che ce guadagna
la Lodola minchiona
d’avé la carne bona?
Che l’omo se la magna.
Guardate un po’ l’Ucello
de Paradiso? Quello
s’è fatto un certo nome:
ma voi sapete come
finisce malamente
cucito sur cappello!
Dunque co’ che coraggio
volete ch’io sia bello?
Li preggi spesso fanno
più danno che vantaggio.
No, no: nun me ne curo…
È mejo a sta’ anniscosto!
È mejo a sta’ a l’oscuro!
L’omo
Prima che Adamo se magnasse er pomo,
er Cane, che sapeva er dietroscena
già preparato pe’ fregà er prim’omo,
pensò: — Povero Adamo, me fa pena:
giacché purtroppo j’ho da fa’ l’amico,
adesso je lo dico. —
E je lo disse: — Abbada a quer che fai!
Se magni er pomo perdi l’innocenza,
diventi un birbaccione e servirai
a fa’ li studi su la delinquenza;
sta’ attent’a li consiji der Serpente
che te vorebbe mette ne li guai… —
Adamo chiese: — E come vôi che faccia
a conservamme l’anima innocente
se Dio me fabbricò co’ la mollaccia?
Eppoi, che ce guadambio?
Nun c’è gusto de campà tanto senza capì gnente,
con un cervello che nun vede giusto.
Io, ne convengo, faccio una pazzia
a commette er peccato origginale:
ma er giorno che conosco er bene e er male
me formo una coscenza tutta mia.
Sarò padrone e schiavo de me stesso,
bono e cattivo, giudice e accusato
e, a l’occasione, inteliggente o fesso.
La corte del leone
El Leone, ch’è Re de la Foresta,
disse un giorno a la moje: — Come mai,
tu che sei tanto onesta,
hai fatto entrà ‘na Vacca ne la Corte?
Belle scorte d’onore che te fai!
— Lo so, nun c’è decoro:
— je fece la Lionessa —
ma nun so’ mica io che ce l’ho messa;
quela Vacca è la moje de quer Toro
ch’hai chiamato a guardà l’affari tui:
sopporto lei per un riguardo a lui;
ma si sapessi er danno
che ce fanno ‘ste bestie, che ce fanno!
— Hai raggione, hai raggione, nun ce torna —
j’arispose er Leone; e er giorno istesso
fece ‘na legge e proibbì l’ingresso
a tutti l’animali co’ le corna.
Così, per esse certo
d’avé ‘na Corte onesta,
er Re de la Foresta
lo sai che diventò?
Re der Deserto.
Er maestro de musica e la mosca
Un celebre Maestro
era rimasto nun se sa si quanti
giorni dell’anno co’ la penna in mano
e la carta de musica davanti
per aspettà che je venisse l’estro:
ma, spreme spreme, nun j’usciva gnente.
Ècchete che un ber giorno
una Mosca zozzona e impertinente
agnede franca franca
sopra la carta bianca,
e je ce fece tanti punti neri
come quelli che spesso avrete visto
ne le vetrine de li pasticceri.
— Chi sà — disse er Maestro — che ‘sta Mosca,
che m’ha messo ‘sti segni, nun conosca
le note de la musica? Chissà
che lei, senza volello, m’abbia fatto
er pezzo der prim’atto?
Questo è un do, questo è un re, si, si, la, fa… —
E du’ o tre vorte lo provò ar pianforte.
Er motivo era bello, e da quer giorno,
quanno la Mosca je volava intorno,
nu’ je faceva sciò, nu’ la cacciava:
anzi, er più de le vorte, se ciaveva
er zucchero o er candito, je lo dava
pe’ fasse fa’ più punti che poteva.
Ma una matina, invece
de falli su la carta, je li fece
sopra a certe camice innammidate
portate allora da la stiratrice.
Che vôi sentì er Maestro! Era un ossesso!
— Brutta porca che sei! Brutta vassalla!
Chi t’ha imparato a fa’ ‘ste zozzerie
su le camice mie? —
E je coreva appresso p’acchiappalla.
La Mosca allora j’arispose male;
dice: — Vojantri séte tutti eguale:
ammazza ammazza, tutti d’una razza.
Nun fate caso a certe puzzonate
finché ve fanno commodo, ma quanno
capite che ve possino fa’ danno,
diventate puliti, diventate!…
Io, invece de chiamalla pulizzia,
la chiamerebbe con un antro nome… —
Però la Mosca nu’ je disse come:
fece quattro puntini e scappò via.
L’amori der gatto
Un povero Miciotto,
innammorato cotto
d’una Gattina nera,
je disse: — Verso sera
venite in pizzo ar tetto,
v’ho da parlà: v’aspetto. —
La Gatta, che ciaveva
‘na certa simpatia,
disse: — Verrò da voi
doppo l’avemmaria:
ma… resti fra de noi!
Bisognerà sta’ attenta
che l’omo nun ce veda,
che l’omo nun ce senta!
— Sì! Fate presto a dillo!
— je disse allora er Gatto —
Io quanno fo l’amore
nun posso sta’ tranquillo.
Piagno, me lagno, strillo:
sgnavolo come un matto,
soffio, divento un diavolo!
Nel lamentamme pare
che soffro… e invece godo.
Voi me direte: — È un modo
tutto particolare… —
Ma er fiotto der piacere
che ce viè su dar core
nun è forse compagno
a quello der dolore?
Tutta la vita è un lagno!
In quanto a le persone
che ce vedranno assieme
nun me ne preme gnente;
io ciò ‘na posizzione
libbera, indipennente…
Se incontro quarche gatta
eguale a voi, carina,
simpatica, ben fatta,
la fermo e se combina.
L’omo, naturarmente,
lo fa nascostamente;
ma no pe’ la morale:
p’er Codice Penale!
La pantera
Una vorta la Pantera
stracinò drento la tana
una bella forastiera.
— Me la vojo magnà viva,
sana sana, in un boccone…
— Ma perché? — disse er Leone —
L’omo istesso dice spesso
che la femmina è cattiva:
si la magni, poi te lagni,
te verrà l’indiggestione…
— Io — rispose la Pantera —
me la pappo espressamente
perch’è troppo propotente.
Per annà così vestita
lei sagrifica la vita
de tant’anime innocente.
Guarda un po’ la guarnizzione
che s’è messa sur cappello?
So’ le penne de l’ucello,
la capoccia d’un piccione.
E quer coso che cià ar collo
lo so io co’ che l’ha fatto!
Lo sa er gatto! Lo sa er pollo!
Nu’ j’abbasta solamente
de spelà le pecorelle:
fa li guanti co’ la pelle
de li poveri capretti,
e se fa li stivaletti
scorticanno le vitelle!
C’è de peggio! Pe’ quer gusto
così barbero der busto
leva l’ossa a le balene…
Nun sta bene! Nun è giusto!
Che direbbe se pur’io
me facessi strigne er petto
co’ l’ossaccia de su’ zio?
Nun cià core, e pe’ l’appunto
me la vojo magnà viva… —
Detto fatto, la Pantera
cominciò la colazzione;
ma arivata a un certo punto
se fermò pe’ di’ ar Leone:
— Nun capisco come mai
l’omo dice ch’è cattiva…
Nun è vero: è bona assai!
La solidarietà der gatto
Er Cane disse ar Gatto:
— Se famo er patto d’esse solidali
potremo tené testa a li padroni
e a tutte l’antre spece d’animali.
— Dice — Ce stai? — Ce sto. —
Ecco che ‘na matina
er Cane annò in cucina
e ritornò con un piccione in bocca.
— Me devi da’ la parte che me tocca:
— je disse er Gatto — armeno la metà:
sennò, compagno, in che consisterebbe
la solidarietà?
— È giusto! — fece quello,
e je spartì l’ucello.
Ma in quer momento er coco,
che s’incajò der gioco,
acchiappò er Cane e lo coprì de bòtte
finché nu’ lo lasciò coll’ossa rotte.
Appena vidde quel’acciaccapisto
er Gatto trovò subbito la porta,
scappò in soffitta e disse: — Pe’ ‘sta vorta
so’ solidale, sì, ma nun insisto!
La guerra
Ner mejo che un Sordato annava in guerra
er Cavallo je disse chiaramente:
— Io nun ce vengo! — e lo buttò per terra
precipitosamente.
— No, nun ce vengo, — disse — e me ribbello
all’omo che t’ha messo l’odio in core
e te commanna de scannà un fratello
in nome der Signore!
Io — dice — so’ ‘na bestia troppo nobbile
p’associamme a l’infamie che fai tu:
se vôi la guerra vacce in automobbile,
n’ammazzerai de più!
La libbertà de pensiero
Un Gatto bianco, ch’era presidente
der circolo der Libbero Pensiero,
sentì che un Gatto nero,
libbero pensatore come lui,
je faceva la critica
riguardo a la politica
ch’era contraria a li principî sui.
— Giacché nun badi a li fattacci tui,
— je disse er Gatto bianco inviperito —
rassegnerai le propie dimissione
e uscirai da le file der partito:
ché qui la pôi pensà liberamente
come te pare a te, ma a condizzione
che t’associ a l’idee der presidente
e a le proposte de la commissione!
— È vero, ho torto, ho aggito malamente… —
rispose er Gatto nero.
E pe’ restà ner Libbero Pensiero
da quela vorta nun pensò più gnente.
L’unità der partito
Ner congresso socialista
de li Gatti intransiggenti
parlò un Micio communista:
— Qua ‘gni tanto c’è un miciotto
che se squaja sotto sotto:
chi s’alliscia a li padroni
pe’ raggioni de politica,
chi è cacciato perché critica
li compagni chiacchieroni,
questo dà le dimissioni,
quello scappa, l’antro litica…
Ma se annamo de ‘sto passo
famo broccoli, scusate!
Troveremo er proletario
che ce tira le sassate!
No, compagni! È necessario
ch’ogni membro der partito,
favorevole o contrario,
nun se squaji e resti unito.
P’evità l’inconveniente
c’è un rimedio solamente:
se legamo tutti assieme
pe’ la coda, e famo in modo
che se un gatto vô annà avanti
è obbrigato de sta’ ar chiodo,
ché, se tira, strigne er nodo
e stracina tutti quanti.
Er compagno, che se sente
trattenuto, certamente
strilla, sgnavola, s’arruffa,
smania, sgraffia, soffia, sbuffa;
ma cór freno a parteddietro
chi lo libbera? San Pietro?
La cornacchia libberale
Una Cornacchia nera come un tizzo,
nata e cresciuta drento ‘na chiesola,
siccome je pijò lo schiribbizzo
de fa’ la libberale e d’uscì sola,
s’infarinò le penne e scappò via
dar finestrino de la sacrestia.
Ammalappena se trovò per aria
coll’ale aperte in faccia a la natura,
sentì quant’era bella e necessaria
la vera libbertà senza tintura:
l’intese così bene che je venne
come un rimorso e se sgrullò le penne.
Naturarmente, doppo la sgrullata,
metà de la farina se n’agnede,
ma la metà rimase appiccicata
come una prova de la malafede.
— Oh! — disse allora — mo’ l’ho fatta bella!
So’ bianca e nera come un purcinella…
— E se resti così farai furore:
— je disse un Merlo — forse te diranno
che sei l’ucello d’un conservatore,
ma nun te crede che te faccia danno:
la mezza tinta adesso va de moda
puro fra l’animali senza coda.
Oggi che la coscenza nazzionale
s’adatta a le finzioni de la vita,
oggi ch’er prete è mezzo libberale
e er libberale è mezzo gesuita,
se resti mezza bianca e mezza nera
vedrai che t’assicuri la cariera.
Spiritismo
Ched’ è lo spiritismo? È un tavolino
dove c’è drento un’anima innocente
che te sorte de fòra solamente
se vede er grugno de la Paladino
o de Politi l’orloggiaro, quello
che fa lo spiritismo cór pennello.
Così va er monno: se t’ariccommanni
che vôi rivede l’anima de zio,
pe’ quanto fiotti, piagni e preghi Iddio,
tu’ zio nun torna manco se lo scanni;
perché lui penserà: — Giacché so’ morto,
fussi matto a tornacce!… — E nun ha torto.
Viceversa, però, ritorna in vita
quanno lo chiama er medio; dunque è chiaro:
pô più la volontà d’un orloggiaro
o quella d’una serva ripulita,
che le preghiere fatte in bona fede
da un povero cristiano che ce crede.
Io stesso che te parlo ciò le prove:
pe’ quanto ho fatto che tornasse ar monno
quela benedett’anima de nonno,
nun m’è riuscito mai! Pe’ fallo smove,
lo sai che me ce vollero?
L’appoggi de quello che riaccommoda l’orloggi.
Co’ la cosa che accanto a casa mia
ci abbita er sor Politi, una matina
j’agnedi a riportà la cappuccina
pe’ faje accommodà la soneria;
vado e lo trovo in mezzo ar salottino,
che stava a chiacchierà cór tavolino.
— Oh! — dice — scusa: aspetteme un momento,
ché mó ciò Federico Barbarossa,
Petrarca, Macchiavelli e Pietro Cossa…
— Chi Pietro Cossa? — dico — er monumento?
— Ma che! — dice — lo spirito ch’è uscito… —
Io pensai: — Poveraccio! S’è ammattito!
— Eh, te capisco! — seguitò a di’ lui —
tu nun ce credi e trovi ch’è impossibbile
che un omo possa vede l’invisibbile;
ma se parlassi co’ li morti tui?
co’ tu’ nonno, presempio?… — In de ‘sto caso
— je feci — resterebbe persuaso.
— Allora — dice — aspetta… — E me pijò
la mano, come adesso faccio a te,
me mésse a sede intorno ar diggiunè,
chiuse tutte a lo scuro e incominciò:
doppo cinque minuti se sentì
er legno che faceva cri-cri-cri.
Dico: — Ce so’ li sorci? — Ma va’ via!
— barbottò l’orloggiaro — Questo è segno
che s’è infilata l’anima ner legno
doppo l’invito de la guida mia;
questo è er sistema de li richiamati… —
(Li pijava addrittura pe’ sordati!)
E nun aveva torto. Er tavolino
incominciò a ballà la tarantella,
poi s’intese sonà la tamburella,
pizzicà la chitara e er mandolino
e ar tempo istesso, pe’ tre o quattro vorte,
stuzzicà la tastiera der pianforte.
— È l’anima che viè dar purgatorio,
— dice — Ce semo! nun avé paura… —
E, come un delegato de questura,
cominciò a faje l’interogatorio:
— Chi sei? come te chiami? indove stai?
dove sei nato? che mestiere fai? —
Er tavolino fece quattro scrocchi
e ce rispose ch’era propio nonno.
— Giacché ritorni su ‘sto porco monno,
— je chiesi co’ le lagrime nell’occhi —
lassa annà de sonà! Nun so’ momenti
de stasse a divertì co’ li strumenti!
Che vôi che c’interessino li soni
o li cerini strofinati ar muro?
Dicce piuttosto er mezzo più sicuro
per esse sempre onesti e sempre boni:
questo dovressi fa’, no la commedia
de fa’ ballà la tavola e la sedia! —
Nonno nun m’arispose, ma se vede
che restò offeso de l’osservazzione,
perché m’intesi mette sur groppone
come una mano che pareva un piede
e, mentre me strigneva fra le braccia,
me venne a strofinà la barba in faccia.
— Ma mi’ nonno faceva er cammeriere,
nun portava la barba… — dissi ar medio.
— Eh, in questo — fece lui — nun c’è rimedio,
che all’antro monno mica c’è er barbiere!
Vôi che un omo che scegne giù dar celo
pensi pure de dasse er contropelo? —
Stavo pe’ di’: — Macché… — quanno me sento
un’artra mano che me sfiora er viso
pe’ damme du’ cazzotti a l’improviso
e un pugno su la schina a tradimento.
— E questa è gente che riposa in pace?
— dico — Sarà… ma a me poco me piace!
Se li morti ripijeno er servizzio
pe’ fa’ solo ‘ste cose che ce fanno,
è mejo de lassalli indove stanno
e rivedelli er giorno der giudizzio;
pe’ fa’ ‘sti scherzi stupidi e cattivi
me pare che ciabbastino li vivi!
Er venditore de pianeti
È un poverello co’ la barba bianca,
che va con una manica in saccoccia
pe’ fa’ distingue er braccio che je manca.
Gira con una scatola e una boccia
dove c’è drento un diavolo de vetro
co’ du’ cornette in cima a la capoccia.
Succede che la gente
passa senza fa’ caso ar poverello,
ma, a vede er giocarello, torna addietro,
se ferma, s’avvicina, s’ariduna,
e tenta la fortuna.
— Signori! — dice er vecchio —
Venghino ad osservare il mio apparecchio
che agisce sotto il flusso della luna;
con il su e giù che fa nella bottiglia,
il diavolo ci legge nella vita
entrando ne l’affari di famiglia:
la zitella saprà se si marita,
la vedovella chi se la ripiglia…
Avanti, avanti, ché col mio pianeta,
oltre d’averci in mano l’avvenire,
guadagneranno cento mila lire
con una piccolissima moneta! —
Impedito com’è, mezzo sciancato,
com’ha da fa’? S’ingegna, poveraccio!
Una vorta je chiesi: — E com’è stato
ch’avete perso er braccio?
— Fu ner cinquantanove, a Solferino.
— me rispose er vecchietto — Fu in quell’anno!
Me buggerò un tedesco. Era destino.
Che belli tempi! — disse sospiranno —
Eh! queli tempi, caro signorino,
nun torneranno più, nun torneranno!
Pe’ via ch’allora la bandiera nostra
nun era carcolata come adesso
a una pezza attaccata in un bastone,
ch’è car’e grazzia se je vanno appresso
ne la dimostrazzione!
Pe’ nojantri era tutto: era la fede,
era l’amore, l’anima, la vita,
co’ la speranza de potella vede
sventolà ar sole su l’Italia unita!
L’Italia! Solamente a ‘sta parola
er sangue ce bolliva ne le vene,
er core ce zompava ne la gola!
E che strazzi, che tribboli, che pene
che sapémio soffrì pe’ ‘st’ideale,
senza fa’ tante scene
co’ le sottoscrizzioni sur giornale!
Ché puro allora se viveva male,
ma, per lo meno, se moriva bene!
E in questo qui nun ciò rimorsi: ho fatto
tutto quer ch’ho potuto e so’ contento;
ma le battaje der Risorgimento
pe’ conto mio nun so’ finite affatto!
Ciò una guerra più seria
da combatte: la fame!
Ciò un nemmico più infame: la miseria!
Pe’ questo so’ obbligato a fa’ ‘sto gioco,
buggiaranno la gente tutto er giorno…
Che ce guadagno? Poco. Troppo poco!
Senza contà che quarche pizzardone,
quanno me vede troppa gente intorno,
me fa contravenzione.
Dice: — Sei un ciarlatano!… — È indubbitabbile:
ma m’è rimasto un braccio solamente;
data la ricompensa, è perdonabbile
se me ne servo pe’ fregà la gente!
Er comizzio
Un Leone rinchiuso in una gabbia,
in der vedé da un finestrino aperto
er celo e er mare, aripensò ar deserto
e ar tempo che sdrajato su la sabbia
liberamente, senza tante noje,
passava le giornate co’ la moje.
E ripensò ar tramonto: quanno pare
che er sole, rosso rosso come er foco,
scivoli giù dar celo e a poco a poco
finisce che se smorza drento ar mare.
Pe’ chi patisce de malinconia
questa è l’ora più peggio che ce sia!
— Ero libbero, allora! Ero felice!
— barbottava scocciato.
— E mó bisogna che stia rinchiuso e faccia la carogna
sotto le granfie d’una Domatrice,
che specula su tutto e che se serve
puro de la ferocia de le berve!
Se me volesse veramente bene
nun me farebbe fa’ tante sciocchezze
a furia de bacetti, de carezze,
d’allisciamenti e de tant’artre scene!
La solita politica! D’artronne
questo è er vecchio sistema de le donne.
Er Domatore? È peggio! Io solamente
conosco la ferocia der cristiano
quanno m’insegna co’ la frusta in mano
a sfonnà er cerchio e a salutà la gente:
«Oplà! Nerone! Un altro salto! Alé!…»
Bella maniera de trattà li Re!
Ho detto Re, purtroppo! ma oramai
m’accorgo che divento piano piano
sovrano come er popolo sovrano
che viceversa nun commanna mai.
Guai se nun faccio quer che vonno loro!
Guai se m’impunto! Guai se nun lavoro!
Tra l’antre cose ha scritto sur programma
che un giorno ho divorato un domatore!
No, nun è vero affatto! È un impostore!
Lo possino ammazzallo in braccio a mamma!
È ‘na reclame che se fa ‘sto micco
pe’ venne più bijetti e fasse ricco.
E in questo nun ce sta la convenienza!
Fintanto che le fiere serviranno
a fa’ guadagnà l’ommini, saranno
come le fiere… de beneficenza.
È un’infamia! un sopruso! una vergogna!
Bisogna fa’ ‘no sciopero, bisogna! —
Una Scimmia che intese ‘sto discorso
je disse: — Ma perché nun fai in maniera
de fa’ un complotto assieme a la Pantera,
a la Jena, a la Tigre, ar Lupo e all’Orso?
Perché nun cerchi de riavé la stima,
l’indipennenza che ciavevi prima?
Tu che sei Re, padrone d’un deserto,
co’ quer nome che ciai, nun t’hai da mette
a fa’ li giochi e a fa’ le pirolette
come un artista de caffè-concerto,
come un vecchio pajaccio de mestiere…
Che speri? d’esse fatto cavajere?
No, amico, qui è questione d’amor propio;
finché ‘ste buffonate le fo io
che so’ una Scimmia, è er naturale mio:
vedo un omo, lo studio e lo ricopio;
lo ricopio e pe’ questo so’ sicura
de facce ‘na bruttissima figura.
E lo stesso succede ar Pappagallo,
che ammalappena sente ‘na parola
che dice un omo, je s’incastra in gola
e se spreme e se sforza pe’ rifallo…
Discorre come lui, ma nun c’è ucello
più scocciante e più stupido de quello! —
E siccome la Scimmia, da la rabbia,
aveva arzato un po’ de più la voce,
tutte quell’antre bestie più feroce
fecero capoccella da la gabbia:
— Bene! Brava! — strillaveno — Ha raggione!
Viva la libbertà! Morte ar padrone!
— Zitti! — disse er Leone che capiva
che quello era er momento più propizzio
pe’ pijà la parola e fa’ er comizzio —
È inutile che dite abbasso o evviva:
le ribbejone fatte co’ li strilli
se rimetteno ar posto co’ tre squilli.
Bisogna fa’ sur serio e arivortasse
contro ‘sto sfruttatore propotente!
E questo l’otterremo solamente
co’ l’organizzazzione de la Classe:
ammalappena se saremo uniti
co’ le bestie de tutti li partiti!
Ma prima ch’incominci la battaja,
se fra de voi ce fusse un animale
che pe’ quarche raggione personale
vô restà sottomesso a ‘sta canaja,
che se faccia escì er fiato, parli avanti,
senza che poi ciriòli come tanti —
Un Ciuccio, che ciaveva l’incombenza
de porta la carnaccia ner Serrajo,
capì er latino, e disse con un rajo
che aveva già perduta la pazzienza:
— Io — fece — sarò er primo a daje addosso!
Lo possino scannallo a mare rosso!
Io, doppo tutto, so’ lavoratore,
fatico, soffro assai, ma quer bojaccia
come m’aricompensa? A carci in faccia!
In che modo me paga? cór tortore!
Poi m’ammazza e me scortica, pe’ via
che fa er tamburo co’ la pelle mia!
Defatti, certe sere, quanno sento
er rataplan che fanno li sordati,
ripenso a li somari scorticati
che so’ serviti a tutto er reggimento…
Sarò pazziente, sì: ma nun sopporto
che me la soni puro doppo morto!
Per cui m’associo ne la ribbejone:
ma prima vojo avé la sicurezza
che me levate er basto e la capezza:
se qui se tratta de trovà un padrone
che me la crocchia come quelo vecchio,
resto co’ questo e bona notte ar secchio! —
La Lupa disse: — E io ch’ho dato er latte
ar primo Re de Roma? È pe’ via mia
se bene o male c’è la monarchia:
ma l’Omo, invece, quante me n’ha fatte?!
M’ha chiuso in gabbia e ha messo fòra er detto
che magno come un lupo! Ber rispetto!
Doveva avé un riguardo pe’ la balia
der primo Re che fece Roma! E invece…
— Ma questo — disse l’Orso — nun fa spece!
Puro quelli che fecero l’Italia
mó campeno sonanno l’orghenetto
co’ le ferite e le medaje in petto!
— Io, — disse allora er Cane — nu’ lo nego,
je so’ fedele, affezzionato… e come!
je so’ amico davero! Ma siccome
me tratta come un cane, me ne frego
de pijamme li carci da ‘st’ingrato!
M’arivorto pur’io! Mor’ammazzato!
— E farai bene! —j’arispose er Gatto —
Io che so’ ‘n animale indipennente
m’affezziono a la casa solamente,
ma no ar padrone che nu’ stimo affatto;
o monarchico o prete o socialista,
l’Omo è stato e sarà sempre egoista.
— E io — disse la Tigre — ciò er dolore
che lui me paragoni e me confonna
er core mio cór core de la donna
ch’ammazza er fijo pe’ sarvà l’onore!
So’ una tigre, è verissimo, ma io
nun assassino mica er sangue mio!
— Nun posso fa’ la rivoluzzionaria
perché so’ la reggina de l’ucelli;
— strillò l’Aquila nera — io, come quelli
che stanno in arto e viveno per aria,
vedo le cose sempre tale e quale…
— Purtroppo! — disse l’Orso — Questo è er male!
In arto nun se sentono li lagni,
in arto nun se vedeno le pene,
da quel’artezza lì, tutto va bene!
Poveri e ricchi, tutti so’ compagni!
Bisogna scegne pe’ conosce a fonno
tutte le birbonate de ‘sto monno!
— Che diavolo volete che m’importi
— barbottava la Jena clericale —
dell’Omo e der benessere sociale?
Io vivo solamente su li morti,
e a chi me dice: io soffro, j’arisponno
che la felicità sta all’antro monno. —
Un povero Majale ammaestrato,
che spesso entrava in gabbia cór Leone
pe’ fa’ convince er pubbrico cojone
ch’er Re de la Foresta era domato,
se fece escì un rumore da la gola,
domannò scusa e prese la parola:
— L’idea de ‘st’uguajanza nun pô regge.
Voi direte ch’io pijo le difese
de la moderna società borghese
che me stima, m’ingrassa e me protegge,
e che, co’ la scusante der preciutto,
permette che me ficchi da per tutto.
Nun è pe’ questo. Io dico: se domani
viè ammessa l’uguajanza, diventate
tutti compagni, sì: ma nun pensate
ch’er cane vorrà vede tutti cani,
er sorcio vorrà vede tutti sorci,
e io, questo s’intenne, tutti porci!
— Io benedico l’Antenato mio
— fischiò er Serpente — che minchionò l’Omo
quanno je disse che magnanno er pomo
sarebbe diventato eguale a Dio.
L’Omo, sempre ambizzioso e interessato,
lo prese e ciarimase buggerato.
Ma lui che cià le scuse sempre pronte,
quanno Iddio, pe’ punillo der peccato,
je disse che se fusse guadagnato
er pane cór sudore de la fronte,
fece l’occhietto e disse a la compagna:
«Se nun trovi chi suda nun se magna!»
Apposta c’è chi resta a bocca asciutta
e chi magna pe’ quattro: ar proletario,
che suda assai, j’amanca er necessario,
mentre, invece, er padrone che lo sfrutta
senza sversà una goccia de sudore,
magna, fuma, s’intoppa e fa er signore.
— Questo è er vero peccato origginale!
— strillava er Coccodrillo socialista —
Morte a la borghesia capitalista!
Evviva la repubbrica sociale!
Evviva… — E chi lo sa ch’avrebbe detto
se nun se fusse inteso un orghenetto.
Era l’avvisatore che sonava
una marcia qualunque, solamente
pe’ ridunà più pubbrico, e la gente,
chiamata dar motivo, c’imboccava.
— Zitti e a stasera! — disse la Pantera.
E tutti j’arisposero: — A stasera!
La ribbejone
E la sera, defatti, ammalappena
ch’er Domatore esciva co’ la Moje,
er Pappagallo, libbero, annò a scioje
la Scimmia che ciaveva la catena:
la Scimmia, sverta, aprì le gabbie e allora
tutte le bestie vennero de fòra.
— Ah! finarmente semo tutti uguali!
— strillò la Scimmia — Adesso, finarmente,
potremo mette a posto un propotente
che crede d’esse er Re de l’animali!
Già, lui se dà ‘sto titolo perché
è er più animale e crede d’esse er Re!
Dovrebbe ricordasselo che Dio
lo fece co’ la fanga e doppo noi:
doppo le bestie! E c’è chi dice poi
che sia venuto da un abborto mio…
Comunque sia, la cosa ve dimostra
la precedenza de la classe nostra!
Ma mó toccherà a loro a stacce sotto:
tutte l’infamie, tutti li soprusi
che cianno fatto cór tenecce chiusi
pe’ tanto tempo drento a un bussolotto,
l’hanno da scontà tutti! E la vendetta
sarà feroce! Chi la fa l’aspetta!
Le bojerie che cianno fatto a noi
le rifaremo tanto a lei che a lui,
perché odia micchi… eccetera: per cui
io ve farò la spiegazzione, e voi
ve metterete tutti quanti a sede
come la gente che ce stava a vede. —
Fu accusì ch’er Serrajo cambiò scena;
ossia successe questo: ch’er Padrone
fu messo ne la gabbia der Leone,
la Moje ne la gabbia de la Jena:
mentre la Scimmia — sempre lei! — faceva
la spiegazzione ar pubbrico e diceva:
— Questo vero fenomeno vivente
che vado a presentarglie è un Omo umano;
nun so se sia cattolico o cristiano,
protestante o giudìo, ma nun fa gnente:
ché, de qualunque religgione è nato,
biastima sempre er Dio che l’ha creato.
Si cibba d’ogni sorta d’animali,
ma a preferenza vô le carne tenere:
ucelli, polli, pesci d’ogni genere,
e vacche, e bovi, e pecore, e majali;
l’antre bestie le lascia: o so’ cattive
o je fanno più commodo da vive.
Spece co’ le galline è più feroce:
le strozza, poi le scanna cór cortello,
je strappa er core, er fegheto, er cervello,
le budella, er grecile e se li coce;
questa, che pe’ nojantri è una barbaria,
a sentì lui diventa culinaria!
Ma nun ve faccia spece: l’Omo umano
dice ch’è un animale raggionevole,
ma nun raggiona mai; de rimarchevole
nun cià che la parola: è un ciarlatano;
tiè quarche vizzio, in quanto ar resto poi
gira e riggira è tale e quale a noi.
Cià, è vero, una coscenza internamente
ch’è ‘na spece de voce misteriosa
che lo consija o no de fa’ una cosa,
ma certe vorte nun je serve a gnente:
tanto che pe’ distingue er bene o er male
ha bisogno der Codice Penale.
Puro l’onore è un sentimento interno
che se ne serve spesso quanno giura:
l’addopra per principio o per paura
d’annà in galera o de finì a l’inferno.
Senza che parli de quell’antro onore
ch’è ‘na specialità de le signore.
Vive co’ li quatrini: lui, che pare
er padrone der monno e che s’è imposto
co’ la raggione e ha preso er primo posto
sopra le bestie de terra e de mare,
senza sordi in saccoccia è un omo morto,
co’ tutta la raggione ha sempre torto!
Li quatrini so’ come li dolori,
chi ce l’ha se li tiè: pe’ questi l’ommini
se so’ divisi in ladri e in galantommini,
se so’ divisi in poveri e signori,
schiavi e padroni, vittime e strozzini…
sempre pe’ ‘st’ammazzati de quatrini!
Comincia a fa’ lo scemo co’ la Donna
quann’entra ne l’età de la raggione;
ognuna che ne vede è una passione:
o sia magra o sia grassa, o bruna o bionna,
nu’ je n’importa: abbasta che ce sia
la cosiddetta certa simpatia.
L’Omo, ner fa’ l’amore, è più ideale:
lo scopo è quello nostro, se capisce:
ma lui cià più maniera e lo condisce
co’ quarche porcheria sentimentale
e co’ ‘na mucchia de parole belle
che però, su per giù, so’ sempre quelle.
La Femmina per solito lo fa
per vizzio, per ripicca, per prudenza,
per ambizzione, per riconoscenza,
per interesse, per curiosità,
per un momento de cattivo umore
e, quarche vorta, puro per amore…
Se è pe’ vizzio, se butta a corpo morto,
s’attacca all’omo e je ne fa fa’ tante;
pe’ ripicca lo fa quanno l’amante
o er marito che sia j’ha fatto un torto;
— Giacché lui va co’ lei, — dice — pur’io
lo vojo fa’ co’ quarche amico mio. —
Se un amico de casa l’ha veduta
entrà co’ quarchiduno in quarche sito,
lei pensa: «E se lo dice a mi’ marito?
se facesse la spia? Sarei perduta!
Dunque… bisognerà… Ce vô pazzienza…»
E in de ‘sto caso aggisce pe’ prudenza.
Cede per ambizzione se cià intorno
quarchiduno che sta sur cannejere,
perché la donna prova un gran piacere
de potè di’ che cià l’omo der giorno;
però badate: è un genere d’amore
che dura su per giù, ventiquattr’ore.
Lo fa per gratitudine la donna
che se deve levà ‘n’obbrigazzione:
e in de ‘sto caso pija la passione
come facesse un voto a la Madonna;
— Nun me va, — dice lei — ma come faccio?
È stato tanto bono, poveraccio! —
Se c’è de mezzo l’interesse… eh, allora
nun sta a guardà se l’omo è bello o brutto,
giovene o vecchio… passa sopra a tutto,
basta che a l’occasione cacci fòra
er portafojo… E su ‘sto tasto adesso
ve dirò un fattarello ch’è successo.
‘Na sera ‘no Scimmiotto ammaestrato,
che lavorava in un caffè-concerto,
aveva visto er cammerino aperto
der buffo macchiettista e c’era entrato
cór pensiero de fa’ ‘na bojeria
a una cantante de la compagnia.
E sapete che fece? s’incarcò
la bomba in testa, s’infilò un vestiario,
rubbò ducento lire a l’impresario,
uscì dar parcoscenico e aspettò.
Ammalappena vidde una cantante
j’agnede incontro e je ne fece tante.
L’invitò d’annà a cena, ma la Stella
lo riconobbe e disse: — Nun sia mai!
Va’ via! Fai schifo! Fai ribbrezzo, fai!
Venì a cena co’ te? Sarebbe bella!
Me pare de peccà contro natura
con una bestia simile! Ho paura! —
Ma quanno lo Scimmiotto, ch’era pratico,
je fece vede er pacco de bajocchi,
lei cambiò tono, lo guardò nell’occhi
e disse: — Doppo tutto sei simpatico…
Nun so… ma ciai un profilo interessante… —
E agnede difìlata al ristorante!
Questo pe’ l’interesse; poi succede
che, spesso, una regazza se marita
sortanto co’ l’idea de cambia vita,
e se ne va cór primo che la chiede.
— Che sarà ‘sto marito? Che farà? —
E se lo pija pe’ curiosità.
In un momento de cattivo umore
lo fa la donna quanno che s’annoja;
ma è ‘na cosa slavata, contro voja,
dove c’è tutto fôri che l’amore.
È un genere d’amante che s’appiccica
spece ne le giornate che pioviccica.
Ma quanno è innammorata per davero
de quarchiduno che je va a faciolo,
nun cià davanti all’occhi che lui solo,
lui solamente è l’unico pensiero:
lui sa, lui fa, lui dice, lui commanna…
E allora… panza mia, fatte capanna!
La fine de lo sciopero
Vojantri osserverete giustamente:
— Ma come?! Ner sentì ‘ste cattiverie,
tutte ‘st’infamie, tutte ‘st’improperie,
er Domatore nun diceva gnente?
arimaneva lì come un cacchiaccio? —
E ch’aveva da fa’ quer poveraccio?
Lui capiva ch’aveveno raggione,
je toccava abbozzà… Ma cór pensiero
cercava de fregalli. Tant’è vero
che, a un certo punto de la spiegazzione,
disse piano a la Moje: — Amica mia,
qui bisogna giocà de furberia.
Già me tengo un discorso preparato
dove ciò messo tutto: l’affarismo,
li sfruttatori der capitalismo,
co’ la conquista der proletariato,
benessere sociale, Fratellanza,
Giustizzia, Libbertà, Fede, Uguajanza…
Co’ un popolo de bestie come questo,
pe’ minchionallo bene, è necessario
prima de tutto un bon vocabbolario,
un ber vocione e relativo gesto.
Basteno ‘ste tre cose e so’ sicuro
de rimettélli co’ le spalle ar muro.
E appena avrò ripreso er sopravvento
pe’ sottomette ‘sta canaja infame,
la prima bestia che me dice: «ho fame»,
je do ‘na schioppettata a tradimento.
Questo è er mezzo più semplice e più pratico
pe’ conservà un governo democratico! —
Certo de la riuscita, er Domatore
sonò tre o quattro vorte la grancassa
pe’ potè fa’ più effetto su la massa,
se soffiò er naso e principiò a discore:
— No, così nun pô annà, popolo mio:
lo capisco benissimo pur’io!
Er cammino che fa la civiltà
s’impone a Papi, Imperatori e Re!
La borghesia precipita da sé,
spinta dar soffio de la Libbertà,
e se trova a combatte a tu per tu
co’ l’ideale de la schiavitù!
Compagni! — Bene! Bravo! — strillò l’Orso.
— Mó dichi bene! — fece er Coccodrillo.
— Ah! meno male! Mó sto più tranquillo… —
barbottò l’Omo, e seguitò er discorso:
— Compagni! D’ora in poi ce vô un governo
più bono, più civile, più moderno.
Faremo una politica un po’ mista
uguale a la politica italiana,
con una monarchia repubbricana
clerico-moderata-socialista:
così contento tutti e ar tempo istesso
resterò Re com’ero fino adesso.
In quanto poi ar benessere, ho studiato
er modo d’arisorve la questione:
pe’ potè mijorà la condizzione
de la classe più povera, ho pensato
de faje un’ignezzione ogni matina:
e sapete co’ che? co’ la morfina.
La morfina è una cosa che fa bene
e intontonisce provisoriamente:
chi la pija va in estasi e se sente
come una cosa dórce ne le vene,
perché se scorda, tra la veja e er sonno,
le noje e le miserie de’ sto monno.
Solo co’ ‘sto rimedio rivedremo
tutto color de rosa, tutto bello…
— Ma questo — strillò er Cane — è un macchiavello
pe’ pijacce pe’ ‘r collo a quanti semo!
Tu cerchi d’imbrojacce, e te lo dico
pe’ via che te conosco e te so’ amico.
Pe’ li mali ce vô la medicina,
ne convengo e la cosa è naturale;
ma propone un benessere sociale
a furia d’ignezzioni de morfina
significa provede a li bisogni
co’ quello che se vede ne li sogni!
È un ber pezzetto ormai che ce riempi
la testa co’ le solite parole!
È un ber pezzetto che prometti er Sole
ch’annunzia l’arba de li novi tempi…
Ma intanto annamo a letto senza cena:
antro che sole novo e luna piena!
Tu che sei furbo appoggi er socialismo
perché, fra transiggenti e intransiggenti,
noi se trovamo in mezzo a du’ corenti
cór rischio d’abbuscasse un rumatismo.
Così tra ‘no sbadijo e ‘no stranuto
restamo buggerati senza sputo! —
Allora l’Omo disse: — Ma perché,
invece de discore tutti quanti,
nun nominate du’ rappresentanti
de fiducia che parlino co’ me?
Questa me pare l’unica maniera…
— Sì, sì, ha raggione, — disse la Pantera —
Nominamo du’ membri fra de noi
che vadino a portà la condizzione:
io darebbe l’incarico ar Leone…
— Oh, in questo, — disse l’Omo — fate voi.
Co’ l’uguajanza che ciavete adesso
o un Leone o un Majale fa l’istesso.
Perché sceje un Leone e no un Majale?
Se cominciate a fa’ le preferenze
voi riammettete certe diferenze
e fate un’uguajanza disuguale;
anzi, per esse giusti, incaricate
le du’ bestie più povere e affamate. —
E furono defatti er Porco e er Gatto
l’animali che c’ebbero l’onore
d’annà a discute assieme ar Domatore,
che fra de lui rideva come un matto
pe’ via che tanto er Gatto ch’er Majale
lo chiamaveno amico personale.
— Colleghi, — poi je disse sottovoce —
io so’ disposto a tutto, so’ disposto,
basta che nun me fate perde er posto
e obbrigate le bestie più feroce
a rientra ne le gabbie… — E, caso mai,
— je domannò er Majale — che ce dài?
— Ecco: a te te prometto in segretezza
un bon impiego in una fattoria.
Lì potrai fa’ qualunque porcheria
e ingrassatte framezzo a la monnezza.
Magnerai, beverai, farai l’amore…
Insomma, via! starai come un signore.
Riguardo ar Gatto je darò ogni giorno
una libbra de trippa e de pormone,
lo terrò a casa mia com’un padrone
che magna e beve e nun concrude un corno.
Così, séte contenti.’ — Er Porco e er Gatto
risposero: — Va bene! Sarà fatto! —
E ritornorno in mezzo a li compagni
strillanno: — Alegri, amichi! Avemo vinto!
Finarmente er Padrone s’è convinto
ch’è necessario che la bestia magni!
Avemo vinto! D’ora in poi ciavrete
qualunque concessione chiederete.
Però badate: perché l’Omo ciabbia
tutta la carma pe’ studià l’affare,
ve prega che finite le cagnare
e rientrate tranquilli ne la gabbia,
speranno sur bon senso speciarmente
de quelli der partito intransiggente. —
Le bestie ne convennero. Quarcuna
più sfiduciata nun voleva cede;
ma poi, credenno a quelli in bona fede,
rientrorno ne le gabbie una per una:
mentre ch’er Domatore soddisfatto
baciava er Porco e abbracciava er Gatto.
Scenza e preggiudizzio
Un Professore chiese a la servetta:
— Co’ che te sei curata la ferita?
co’ la tela de ragno? Ah, scimunita!
Nun sai che quela tela è sempre infetta?
Te stagna er sangue, sì, ma spesse vorte
te l’avvelena e te condanna a morte.
Lì ce cova un bacillo che s’attacca
e fa l’effetto de la strichinina:
sta’ attenta dunque, e quann’è la matina,
ogni ragno che vedi, pija e acciacca;
ormai la scenza nova ha buggerato
li vecchi preggiudizzi der passato. —
Ecco che la servetta, er giorno istesso,
appena vidde un Ragno, manco a dillo,
fu tanto lo spavento der bacillo
che prese una ciavatta e j’annò appresso.
Ma quello se fermò. Dice: — Che fai?
Ragno porta guadagno, nu’ lo sai?
Perché m’ammazzi? Nun so’ forse io
che porto l’abbondanza drento casa?
— Se è così, — fece lei — so’ persuasa… —
E er Ragno disse: — Ringrazziamo Iddio!
Finché se pô sfruttà la providenza
er preggiudizzio buggera la scenza.
L’arrivismo
Un giorno ‘na Lumaca forastiera,
che venne a Roma in mezzo a la verdura,
trovò un Grillo e je disse: — So’ sicura
che faccio una bellissima cariera,
ché qui qualunque fregno se presenta
diventa granne subbito, diventa…
E, in fonno, me lo merito. Pur’io
m’arampico striscianno e vado avanti.
Eh, si sapessi! Ce ne stanno tanti
che so’ arrivati cór sistema mio!
Basta sapé striscià su l’ideale,
qualunque strada è bona… Dico male?
— Ma indove passi tu ce lassi er segno,
— je fece er Grillo — e questo è ‘no svantaggio:
perché ogni tanto capita un passaggio
commodo, forse, ma nun troppo degno,
e nun sta bene che la gente scopra
su quante puzzonate passi sopra.
Io, invece, che m’aregolo ar contrario,
arivo a zompi, ma nessuno vede
in quali pistarecci metto er piede
quanno trovo un appoggio necessario:
volo su tutto, sarto allegramente
e passo per un Grillo indipennente.
Le lucciole e lo scorpione
Dodici Lucciolette ereno scese
co’ le lanterne accese
a illuminà li broccoli d’un orto.
Uno Scorpione che se n’era accorto
arzò la testa e chiese: — Ch’è successo?
Séte venute qui per un’inchiesta
o avete da imbastì quarche processo?
Perché so’ brutti tempi,
e doppo certi esempi nun vorrei
che quarche bestia fosse scivolata
fra le pallette de li Scarabbei…
Cercate, forse, un Baco camorista
ch’ha filato la seta a tradimento?
O quarche Lumacone ch’ha venduto
lo sputo per argento?
C’è forse una Cecala, fra de noi,
che prima canta l’inni eppoi s’imbosca
aspettanno che tornino l’eroi?
O avete messo l’occhio su la Mosca
ch’ha portato li fiji in bocca ar Ragno
a scopo de guadagno?
— No, nun avé paura:
— je rispose una Lucciola — per voi
nun c’è nessun mandato de cattura.
Unitamente a le sorelle mie
faccio la luce su le cose belle,
ma nu’ la faccio su le porcherie.
Nojantre semo un po’ come le stelle
che mandeno quer tanto de chiarore
giusto pe’ fa’ l’amore.
Infatti starno qui pe’ regge er moccolo
ar Vermine che bacia la Farfalla
tra le foje d’un broccolo…
La speculazzione de le parole
Una Gallina disse a un Gatto nero:
— So’ tre giorni che cerco mi’ marito…
Chissà com’è finito!
Pe’ di’ la verità ce sto in pensiero… —
Er Gatto corse subbito in cucina,
e, ner sentì ch’er pollo era già stato
bello che cucinato,
ritornò addietro e disse a la Gallina:
— Vostro marito passerà a la Storia:
perché fece una morte propio bella,
arabbiato in padella,
framezzo ar pomidoro de la gloria!
J’hanno tirato er collo, questo è vero,
ma lui rimane sempre tale e quale
un martire der Libbero Pensiero
che se sacrificò per l’Ideale…
Anzi, lo stesso coco
che l’ha tenuto ar foco, m’ha ridetto
che, fra l’antre onoranze, tra un par d’ore
sarà commemorato in un banchetto
con un discorso de l’Ambasciatore…
Io stesso, come Gatto, penserò
a sistemaje l’ossa… —
La vedova, commossa, ringrazziò…
La trappola
In un Albergo, un Micio,
pe’ raggioni d’ufficio,
faceva l’ispezzione der locale.
Ècchete che una sera,
appena vidde un Sorcio pe’ le scale,
s’agguattò, l’appostò; ma l’animale
scappò drent’a una trappola che c’era
e ce restò rinchiuso, a bocca sotto,
cór muso sfranto e cór codino rotto.
— Che buggiarata hai fatto!
— je disse allora er Gatto —
Te se’ ito a schiaffa tra l’ingranaggio
per un po’ de formaggio…
— Nun è per questo: —je rispose lui —
io cercavo una strada più sicura
pe’ libberamme da l’artiji tui:
ma, stupido che fui,
so’ cascato in un’antra fregatura!
— Se ciavevi un po’ più de senso pratico,
— je disse er Micio — risparmiavi un guajo.
Da dove sei sortito? dar bagajo
de quarche dipromatico?
Er pastore e l’agnelli
Appena j’ebbe fatto l’iniezzioni
pe’ fa’ venì l’istinto sanguinario,
er Pastorello disse: — È necessario
che l’Agnelli diventino Leoni
per esse forti e dichiarà la guerra
contro tutti li Lupi de la terra. —
Er motivo era giusto, e lo dimostra
che l’Agnelli risposero a l’invito;
ogni belato diventò un ruggito:
— Morte a li Lupi! Via da casa nostra! —
Pe’ falla corta, in quela stessa notte,
li Lupi se n’agnedero a fa’ fotte.
Vinta che fu la guerra, er Pastorello,
doppo d’avé sonato la zampogna,
strillò co’ tutta l’anima: — Bisogna
ch’ogni Leone ridiventi Agnello
e ritorni tranquillo a casa mia
ne l’interesse de la fattoria. —
Ma quelli j’arisposero: — Stai grasso!
Oramai, caro mio, se semo accorti
d’esse animali coraggiosi e forti
e no bestiole da portasse a spasso!
Dunque sta’ attent’a te, ché d’ora in poi
li padroni der campo semo noi!
Lo scorpione
Quanno che lo Scorpione s’innamora
chiama la Scorpioncina, je s’accosta
e lì je fa la solita proposta
come se fosse propio una signora.
Pija un pretesto pe’ portalla a spasso
de dietro a quarche sasso,
je zompa addosso eppoi
credo che su per giù fa come noi.
Ma er divario sta in questo: la compagna,
appena ch’è finito er pangrattato,
s’avventa su l’amico disgrazziato,
l’ammazza, lo fa a pezzi e se lo magna.
Una vorta, in campagna,
viddi ‘sta scena e dissi in mente mia:
— Sarà quarche delitto passionale,
soliti drammi de la gelosia… —
Ma la Scorpiona indovinò er pensiero
e disse: — Nun è vero!
Pe’ nojantre è un istinto naturale
ch’è la legge più bella che ce sia.
Noi sapemo ch’er maschio è traditore:
finché j’annamo a ciccio è così bono c
he ce spalanca tutto: anima e core
e ce mette su un trono.
Ma, appena trova quello che cercava
e s’è levato li capricci sui,
monta sur trono lui
e la povera femmina è la schiava.
Io, però, che so’ furba e previdente,
pe’ nun vedé la fine de l’amore
ammazzo er maschio anticipatamente… —
E con un’aria de soddisfazzione
la Scorpioncina agnede fra le piante
pe’ rosicà la coda de l’amante:
l’urtimo avanzo de la relazzione.
La ninna nanna de la guerra
Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vô la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co’ le zeppe,
co’ le zeppe d’un impero
mezzo giallo e mezzo nero.
Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili…
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza…
o a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Ché quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe’ li ladri de le Borse.
Fa’ la ninna, cocco bello,
finché dura ‘sto macello:
fa’ la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So’ cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe’ quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!
La madre panza
Vedete quel’ometto sur cantone
che se guarda la panza e se l’alliscia
con una spece de venerazzione?
Quello è un droghiere ch’ha mischiato spesso
er zucchero cór gesso
e s’è fatta una bella posizzione.
Se chiama Checco e è un omo che je piace
d’esse lasciato in pace.
Qualunque cosa che succede ar monno
poco je preme: in fonno
nun vive che per quella
panzetta abbottatella.
E la panza j’ha preso er sopravvento
sur core e sur cervello, tant’è vero
che, quanno cerca d’esternà un pensiero
o deve espone quarche sentimento,
tiè d’occhio la trippetta e piano piano
l’attasta co’ la mano
perché l’ajuti ner raggionamento.
Quanno scoppiò la guerra l’incontrai.
Dico: — Ce semo… — Eh, — fece lui — me pare
che l’affare se mette male assai.
Mó stamo a la finestra, ma se poi
toccasse pure a noi?
Sarebbe un guajo! In tutte le maniere,
come italiano e come cittadino
io credo d’avé fatto er mi’ dovere.
Prova ne sia ch’ho proveduto a tutto:
ho preso l’ojo, er vino,
la pasta, li facioli, er pecorino,
er baccalà, lo strutto… —
E con un’aria seria e pensierosa
aggricciò l’occhi come pe’ rivede
se nun s’era scordato quarche cosa.
Perché, Checco, è così: vô la sostanza,
e unisce sempre ne la stessa fede
la Madre Patria co’ la Madre Panza.
Natale de guerra
Ammalappena che s’è fatto giorno
la prima luce è entrata ne la stalla
e er Bambinello s’è guardato intorno.
— Che freddo, mamma mia! Chi m’aripara?
Che freddo, mamma mia! Chi m’ariscalla?
— Fijo, la legna è diventata rara
e costa troppo cara pe’ compralla…
— E l’asinello mio dov’è finito?
— Trasporta la mitraja
sur campo de battaja: è requisito.
— Er bove? — Puro quello
fu mannato ar macello.
— Ma li Re Maggi arriveno? — È impossibbile
perché nun c’è la stella che li guida;
la stella nun vô uscì: poco se fida
pe’ paura de quarche diriggibbile… —
Er Bambinello ha chiesto: — Indove stanno
tutti li campagnoli che l’antr’anno
portaveno la robba ne la grotta?
Nun c’è neppure un sacco de polenta,
nemmanco una frocella de ricotta…
— Fijo, li campagnoli stanno in guerra,
tutti ar campo e combatteno. La mano
che seminava er grano
e che serviva pe’ vanga la terra
adesso vié addoprata unicamente
per ammazzà la gente…
Guarda, laggiù, li lampi
de li bombardamenti!
Li senti, Dio ce scampi,
li quattrocentoventi
che spaccheno li campi? —
Ner di’ così la Madre der Signore
s’è stretta er Fijo ar core
e s’è asciugata l’occhi co’ le fasce.
Una lagrima amara per chi nasce,
una lagrima d’órce per chi more…
Un re umanitario
Er giorno che Re Chiodo fu costretto
de dichiarà la guerra a un Re vicino
je scrisse: — Mio carissimo cuggino,
quello che leggi è l’urtimo bijetto;
semo nemmichi: da domani in poi
bisogna sbudellasse fra de noi.
La guerra, come vedi, è necessaria:
ma, date l’esiggenze der progresso,
bisognerà che unisca ar tempo istesso
la civirtà moderna e la barbaria,
in modo che l’assieme der macello
me riesca più nobbile e più bello.
D’accordo cór dottore pensai bene
de fa’ sterilizzà le bajonette
perché er sordato venga fatto a fette
a norma de le regole d’iggene,
e a l’occasione ciabbia un lavativo
pieno de subblimato corosivo.
Pe’ fa’ in maniera ch’ogni schioppettata
se porti appresso la disinfezzione
ho fatto mette ne la munizzione
un pezzo de bambace fenicata:
così, cór necessario de la cura,
la palla sbucia e la bambace attura.
Fra l’antri innummerevoli vantaggi,
come sistema de riscallamento
ho stabbilito ch’ogni reggimento
procuri de da’ foco a li villaggi.
Incomincia a fa’ freddo e capirai
che un po’ d’umanità nun guasta mai.
La polizzia scentifica ha già prese
l’impronte diggitali a tutti quanti
pe’ distingue l’eroi da li briganti
che fanno l’aggressione ner paese;
sarebbe un’ingiustizzia, e quer ch’è peggio
nun se saprebbe più chi fa er saccheggio.
Ho pensato a la fede. Ogni matina
un vecchio cappellano amico mio
dirà una messa e pregherà er bon Dio
perché protegga la carneficina.
Così, se perdo, invece der governo
rimane compromesso er Padre Eterno.
Ah! nun pôi crede quanto me dispiace
de stracinà ‘sto popolo a la guerra,
lui che per anni lavorò la terra
co’ la speranza de godé la pace;
oggi, per un capriccio che me pija,
addio campi, addio casa, addio famija!
Un giorno, appena tornerà er lavoro,
in queli stessi campi de battaja
indove ha fatto stragge la mitraja
rivedremo ondeggià le spighe d’oro:
ma er grano sarà rosso e darà un pane
insanguinato da le vite umane.
Ma ormai ce semo e quer ch’è fatto è fatto:
vedremo infine chi ciavrà rimesso.
Addio, caro cuggino; per adesso,
co’ la speranza che sarai disfatto
te, co’ tutto l’esercito, me dico
er tuo affezzionatissimo nemmico.
Sermone 1914
Gesù bono, che sei nato
pe’ l’amore e pe’ la pace,
er momento, me dispiace,
è pochissimo adattato;
nu’ la senti la mitraja
su li campi de battaja?
Odio e sangue, ferro e foco:
c’è la guerra! Nun c’è Cristi!
Li discorsi pacifisti
de ‘sti tempi vanno poco:
bada a te che quarche palla
nun te piombi su la stalla!
Tutto scoppia, tutto abbrucia,
è un massacro generale!
Solo tu rimani uguale
e conservi la fiducia
ner programma umanitario
ch’hai scontato sur Carvario.
Ecco qua li pastorelli
che te dànno li regali,
ma sta’ attent’a li pugnali
e sta’ attent’a li cortelli:
nun è er caso de fidasse
der bon core de le masse.
E tiè d’occhio più che mai
a li doni che te fanno
li Re Maggi de quest’anno…
Li Sovrani, tu lo sai,
cianno sempre preparata
quarche brutta improvisata.
Nun farebbe gnente spece
se nell’oro e ne l’incenso
ce mettessero in compenso
tanto piommo e tanta pece,
pe’ sfrutta la religgione
fra le palle der cannone.
Nun guardà se all’apparenza
ciai più gente che te crede:
li strozzini de la fede
te richiameno d’urgenza
solamente quanno vonno
li vantaggi de ‘sto monno.
Ciai l’appoggio de Maometto,
sei ben visto da Lutero,
puro er Libbero Pensiero
te comincia a fa’ l’occhietto
e ritorni a fa’ prodiggi
ne le chiese de Pariggi…
Ma sta’ certo, Gesù mio,
che co’ ‘st’anima de gente,
che s’inchina indegnamente
tanto ar Diavolo che a Dio,
a la fine c’è paura
d’una bella fregatura!
Ne la luna
Un giorno, co’ l’idea de fa’ fortuna,
agnedi in diriggibbile
ner monno de la Luna.
(Oggi tutto è possibbile.)
Sceso che fui, m’accorsi per un caso
che me trovavo propio su quer monte
che da lontano corisponne ar naso:
e subbito sentii come una voce
ch’esciva da l’interno de le froce.
Ciavevo indovinato. A un certo punto
viddi un signore biondo, grasso e grosso,
accucciato in un fosso,
ch’ogni tanto pijava quarche appunto.
— E quello chi sarà? Vattelappesca!
— dissi fra me — Che diavolo farà? —
L’omone rise e me rispose: — Jà… —
Era una spia tedesca.
L’ape
Un’Aquila nera,
pe’ fa’ la provista
de miele e de cera,
piombò sur paese
dell’Ape e je prese
la robba che c’era.
(Che belle pretese!
Che bella maniera!)
Fu un vero massacro,
fu un vero macello:
sfasciò tutto quello
ch’è bello e ch’è sacro.
cór becco e l’artiji
je ruppe le case,
je sfranse li fiji…
ma l’Ape rimase.
Rimase, e, se adesso
va in cerca de fiori
pe’ fa’ li lavori
che j’hanno soppresso,
l’Italia amorosa
je manna una rosa…
L’eroe a pagamento
Un vecchio Re diceva ar Generale:
— Hai fatto bene a risicà la vita
pe’ difenne l’onore nazzionale.
Te darò la medàja
a battaja finita…
— Grazzie, — fece l’eroe — ma dar contratto
devo avé cento lire per ferita.
E noti bene, poi, che j’ho abbonato
un cazzotto in un occhio,
uno sgraffio ar ginocchio
e un gelone sdegnato…
L’ideale?… Eh, lo so, nun c’è questione,
ma bisogna ch’io pensi a l’avvenire:
nove ferite, novecento lire,
è un prezzo d’occasione!…
— Su questo qui, — rispose er Re — so’ pronto.
Anzi, data la somma che m’hai chiesta,
faremo mille e arrotondamo er conto…
Mor’ammazzato!… — E je spaccò la testa.
L’omo nudo
Appena scoppiò l’obbice, un sordato,
nun se sa come, se trovò in un fosso
senza camicia addosso,
nudo com’era nato.
Provò a sentì, s’accorse d’esse sordo,
provò a parlà, s’accorse d’esse muto.
— Perché sto qui? — pensò — ce so’ venuto
o me cianno mannato? Nun ricordo…
Chi so’? che fo? co’ chi me so’ sbattuto?
Quale sarà la cara Patria mia
ch’ha trovato giustissima la guerra?
È l’Italia, la Francia o l’Inghirterra?
la Russia, la Germania o la Turchia?
Perché la fanno? pe’ riavé una terra
o pe’ li prezzi de la mercanzia?…
Oggi che l’odio è quasi obbrigatorio
io nun odio nessuno!
Se ce fosse quarcuno
che me ne dasse un antro provisorio
forse risentirei tutto l’amore
che ciavevo ner core… —
Pensò, cercò, ma visto ch’era inutile
pijò una corda e s’impiccò a un cipresso.
E fece bene: l’omo senza Patria
diventa l’assassino de se stesso.
Se è vero che la guerra…
Se è vero che la guerra
purifica la terra,
come diventerà
bona l’umanità!
Non più l’odio de razza,
non più l’odio de classe
che avvelenò le masse,
che insanguinò la piazza:
ma er povero e er signore
saranno pappa e cacio:
sopra ogni bocca un bacio,
sotto ogni bacio un core.
Lavoreremo senza
nessuna difidenza.
Nun sarà più permesso
ch’er Popolo Sovrano
se scortichi, le mano
pe’ fa’ la scala a un fesso.
Se quarche chiacchierone
volesse fa’ er tribbuno
nun ce sarà più uno
che je darà raggione.
Faremo un ripulisti
de tutti l’arrivisti.
L’Onore e la Morale
ritorneranno a galla
e giocheranno a palla
cór Codice Penale.
Chi sfrutta li cristiani
nun farà più quattrini.
Addio, vecchi strozzini!
Addio, vecchi ruffiani!
Addio per sempre, addio,
padron de casa mio!
Quarche signora prima
faceva un po’ la matta,
ma doppo, a pace fatta,
se rifarà la stima:
nun guarderà più un cane,
meno er marito suo…
(Eh, Nina! quello tuo
chissà come rimane!
Era così contento
der vecchio adattamento!)
Saremo tutti boni,
saremo tutti onesti
come li manifesti
ner tempo d’elezzioni.
Qualunque vizzio c’era
sarà purificato…
Che Popolo educato!
Che Borghesia sincera!
Che Società pulita
ciavrà la nova vita!
Ma se la guerra, in fonno,
doppo ‘sti fatti brutti,
nun ce rinnova a tutti,
nun ripulisce er monno,
li pronipoti nostri
ner ripassà la Storia
direbbero: — Accicoria!
Ammazzeli che mostri!
Scannaveno la gente
pe’ nun concrude gnente!
L’omo inutile
L’antro giorno ho veduto in un museo
un feto sotto spirito, in un vaso,
co’ la mano attaccata in cima ar naso
com’uno che facesse marameo.
Dicheno ch’è un fenomeno: un abborto
d’un feto de sei mesi nato-morto.
Fa un po’ senso, è verissimo: ma poi,
quanno lo vedi in quela posizzione,
pare che piji in giro le persone
come volesse di’: — Questo è per voi!
So’ nato-morto, sì, ma grazzie a Dio,
data l’umanità, sto mejo io.
Er monno è una commedia. Io ch’ho capito
ch’è tutta una baracca inconcrudente
ciò fatto capoccella solamente
per un’affermazione de partito:
e, da la mossa de la mano mia,
potete di’ ch’affermazzione sia.
Nun ero nato pe’ bagnà la terra
de lagrime, de sangue e de sudore:
per me sarebbe stato un bell’onore
d’anna à morì ammazzato in quarche guerra,
ma invece me ne sto drento ar museo,
guardo la gente e faccio marameo…
L’assoluzione
Er Papa je mannò l’assoluzione:
— Va’, — disse ar Nunzio — sbrighete: ma abbada
che quelli che t’incontreno pe’ strada
nun chiedino nessuna spiegazzione.
Tiella sempre anniscosta e fa’ in maniera
de nun esse fermato a la frontiera.
Sarebbe un’imprudenza se li vivi
potessero scoprì da dove arrivi;
sarebbe un’imprudenza se li morti
potessero scoprì dove la porti. —
Appena ch’entrò in cammera da letto
l’incaricato disse: — Ciò anniscosta
l’assoluzione che je manna apposta
la Santità de Papa Benedetto. —
E lì se fece er segno de la croce,
arzò la mano e disse a mezza voce:
— Doppo l’infamità ch’ha fatte lei
io, francamente, nu’ je la darei:
ma er Papa è dipromatico, per cui
ego te absolvo… li peccati tui.
Fra cent’anni
Da qui a cent’anni, quanno
ritroveranno ner zappà la terra
li resti de li poveri sordati
morti ammazzati in guerra,
pensate un po’ che montarozzo d’ossa,
che fricandò de teschi
scapperà fòra da la terra smossa!
Saranno eroi tedeschi,
francesi, russi, ingresi,
de tutti li paesi.
O gialla o rossa o nera,
ognuno avrà difesa una bandiera;
qualunque sia la patria, o brutta o bella,
sarà morto per quella.
Ma lì sotto, però, diventeranno
tutti compagni, senza
nessuna diferenza.
Nell’occhio vôto e fonno
nun ce sarà né l’odio né l’amore
pe’ le cose der monno.
Ne la bocca scarnita
nun resterà che l’urtima risata
a la minchionatura de la vita.
E diranno fra loro: — Solo adesso
ciavemo per lo meno la speranza
de godesse la pace e l’uguajanza
che cianno predicato tanto spesso!
Banchetto
Rumori de posate,
de piatti e de bicchieri:
via-vai de cammerieri,
incrocio de portate:
risotto, pesce, fritto…
Che pranzo! Che cuccagna!
Li tappi de sciampagna
ariveno ar soffitto;
chi parla, chi sta zitto,
chi ciancica, chi magna…
Guarda laggiù la tavola
d’onore! Quanta gente!
In mezzo c’è un Ministro
che nun capisce gnente,
eppoi, de qua e de là,
tutte notorietà,
nomi più o meno cari
d’illustri fregnacciari.
S’arza er Ministro e resta
in una certa posa
come pe’ di’ una cosa
che già s’è messa in testa.
E, ner caccià le solite
parole rimbombanti
che j’empieno la bocca,
aggriccia l’occhi e tocca
la robba che cià avanti,
pe’ dà più precisione,
a quel’idee che espone,
pe’ mette più in cornice
le buggere che dice.
E parla der «riscatto»
coll’indice sur piatto;
vô la «fierezza antica»
e impasta la mollica,
cercanno l’argomenti
fra tre stuzzicadenti.
— La Patria — dice — spera… —
E scansa la saliera.
— L’Italia — dice — aspetta… —
E agguanta la forchetta
come se sventolasse una bandiera.
Appena ch’ha finito
je fanno un’ovazzione:
— Bravo! — Benone! — Evviva!…
— Che bella affermazzione!
— Tutto ‘sto movimento
— pensa er Ministro — prova
ch’er Popolo è contento…
— Se fanno tante scene,
— barbotta er Coco — è segno
ch’hanno pranzato bene…
L’eroe e li pupazzi
Quanno finì la guerra
l’Eroe piantò la bajonetta ar muro
e se rimise a lavorà la terra.
Era stato ferito cinque vorte,
ma se sentiva l’anima più forte
e er braccio più gajardo e più sicuro.
E disse: — Se la vanga è arruzzonita
la farò ritornà lucida e bella,
e invece de la morte
seminerò la vita. —
Mentre faceva ‘sto raggionamento
vortò la testa e vidde da lontano
un omo, dritto, co’ le braccia stese,
in un campo de grano.
— E tu che vôi? — je chiese —
Sei gnente er deputato der colleggio
che se prepara er solito maneggio
pe’ cojonà er paese?
Cerchi per caso un popolo imbecille
che pagherà le chiacchiere che fai
co’ le carte da mille?
Chi rappresenti? forse un giornalista,
un eroe de la penna stilografica
ch’ha fatto l’avanzata co’ le spille
su la carta geografica?…
O sei piuttosto er solito tribbuno
arrampicato su la groppa nostra,
ch’ammalappena che se mette in mostra
nun vede più nessuno?
Ah! no! te riconosco!
Tu sei lo Spauracchio incaricato
de spaventà li passeri der bosco…
Nun hai cambiato mica,
ch’Iddio te benedica!
Me l’aspettavo! Doppo tanti strazzi
ch’ho sofferto sur campo de battaja,
ritrovo li medesimi pupazzi
imbottiti de paja,
pronti a ricomincià la pantomima
cór sistema de prima!
Ma adesso basta, caro mio: te vojo
da’ foco cór petrojo…
— Ma che petrojo, un cacchio!
— strillò lo Spauracchio —
Se doppo trenta mesi de trincea
hai cambiato d’idea,
te devi ricordà che sei tu stesso
che un giorno me ciai messo:
e mó, per così poco,
me vorressi da’ foco?
Io, per lo meno, servirò a protegge
er grano de li campi, e nun fo danno
come purtroppo fanno
li pupazzi approvati da la legge!
La barchetta de carta
Vicino a la fontana de la villa
c’è una bella signora che ricama
un fascio de papaveri de stama
su un telarino lilla.
Ogni tanto se vorta e dà un’occhiata
a la pupa che gioca, e, un po’ più spesso,
laggiù, dove comincia l’arberata,
ar cancello d’ingresso.
— Che fai, Ninnì? perché nun giochi a palla?
— Lo vedi, mamma? Ho fatto una barchetta,
però me c’entra l’acqua e nun sta a galla… —
(La madre nun s’è accorta che la pupa
j’ha preso un fojo drento la borsetta.)
— Tesoro mio, sta’ attenta,
ché te se sciupa l’abbituccio bello:
se fai così, chissà che te diventa!… —
E ritorna a guardà verso er cancello.
La barca va, ma nun s’aregge dritta,
e a un certo punto sbatte in uno scojo,
se piega, s’apre e comparisce un fojo
che se spalanca da la parte scritta:
«Mario adorato! Passa verso sera
ché parleremo più libberamente.
Appena hai letto, strappa. Fa’ in maniera
che la pupetta nun capisca gnente…»
La favola vera
La sera s’avvicina
e l’ombre de le cose se ne vanno.
Nonna e nipote stanno
accanto a la finestra de cucina.
La vecchia regge la matassa rossa
ar pupo che ingomitola la lana:
er filo passa e er gnómmero s’ingrossa.
— Nonna, dimme una favola… — Ciò sonno…
— Quella dell’Orco che scappò sur tetto…
È vero o no che l’ha ammazzato nonno?
È vero o no che venne a casa tua
una matina mentre stavi a letto?
Che te fece? la bua?
E perché se chiamava l’Orco nero?
era cattivo, è vero?
— Era giovene e bello!
— dice piano la vecchia
e aggriccia l’occhi come pe’ rivedello —
Ciò ancora ne l’orecchia li tre scrocchi
che fece nonno ne l’aprì er cortello… —
La nonna pensa e regge la matassa
ar pupetto che ignómmera la lana;
se vede un’ombra: è un’anima che passa…
che spezza er filo rosso e s’allontana…
L’angelo custode
L’omo cià sempre un Angelo Custode
che l’accompagna come un cagnolino:
e ‘st’angeletto che je sta vicino
l’assiste quanno soffre e quanno gode,
je custodisce l’anima e nun bada
che a incamminallo su la bona strada.
Io, quello mio, me lo figuro spesso,
anzi me pare quasi de vedello:
dev’esse un angeletto attempatello
così scocciato de venimme appresso
che ogni vorta che faccio una pazzia
invece d’ajutamme scappa via.
Defatti dove stava quela sera
ch’agnedi da Giggetta e la cosai?
Doveva dimme: — Abbada a quer che fai!… —
Ma certamente l’Angelo nun c’era,
o, forse, avrà pensato, ner vedella:
— Pur io farei lo stesso: è troppo bella! —
Nun me doveva di’ ch’ero uno scemo
quanno, p’er gusto de sposà la fija,
me misi a casa tutta la famija?…
(Se ce ripenso adesso ancora tremo!
Sette persone, un cane e una gallina
che m’impiastrava tutta la cucina!)
Nun me doveva da’ de l’imbecille
quer giorno che firmai le cambialette
a Isacco lo strozzino che me dette
seicento lire e ne rivolle mille?
Quante ce n’ho sofferte! E chi sa quante
n’avrà passate er povero avallante!
Ecco perché ce vado pe’ le piste,
ecco perché me sbajo in bona fede:
la corpa è tutta sua, ché nun me vede:
la corpa è tutta sua, ché nun m’assiste:
la corpa è sua, ché nun me fa er controllo
quanno s’accorge che me rompo er collo.
A cose fatte, poi, me torna accanto,
me chiama, me mortifica, me strilla…
— Tu — dice — nun ciai l’anima tranquilla…
— Purtroppo! — dico — e me dispiace tanto!
Ma nun ce casco più, te l’assicuro…
— Davero? Me lo giuri? — Te lo giuro… —
E ognuno dice le raggione sue
quasi pe’ libberasse dar rimorso:
ma però se capisce dar discorso
che se pijamo in giro tutt’e due:
ché appena me ricapita una quaja
io ce ricasco e l’Angelo se squaja.
L’illusione
Er vecchio dava segni de pazzia.
Me disse: — In quela scatola de latta
ciò chiusa drento l’anima ch’ho fatta
pe’ la biondina ch’è scappata via…
— Che dichi? Hai fatto un’anima?… — Sicuro!
E ciò messo lo spirito più puro
perché serviva pe’ la donna mia.
L’ho fabbricata al lume de le stelle
in una notte piena de passione,
co’ li pensieri de le cose bone,
co’ li sospiri de le cose belle…
— E la donna?… — La donna ha preso er volo
e so’ rimasto solo…
— Lassela perde pe’ la strada sua,
— je dissi allora — stupido che sei.
L’anima che credevi de fa’ a lei
nun è ch’er sopravanzo de la tua…
— È giusto: — fece er matto a denti stretti —
un’antra vorta, invece de fa’ l’anima,
je fo li stivaletti… —
Er vecchio dava segni de pazzia.
La notte me strillò: — Damme una mano
pe’ ripescà la Luna ner pantano,
ch’è scivolata ne la porcheria.
La vojo portà a casa,
‘sta Luna ficcanasa,
che guarda indiferente
l’infamie de la gente,
perché nun ha capito
ch’er monno s’è ammattito! —
E detto fatto entrò
nell’acqua sporca, ma
dodici rospi fecero cro-cro
e sei ranocchie fecero cra-cra…
— Tirate er fiato a voi! —
je disse er matto, eppoi
co’ tutt’e due le braccia
cercò ne la mollaccia.
— Bisogna ripescalla
‘sta vecchia faccia gialla,
che quanno ride pare
che pensi solo ar mare
e invece, sottomano,
se ficca ner pantano… —
Ma a un certo punto l’acqua lo coprì
e er vecchio matto nun se vidde più.
Dodici grilli fecero cri-cri
e sei cecale fecero cru-cru…
La Luna piena, intanto,
che guardava la scena fra le stelle,
rideva a crepapelle…
La riconoscenza de li posteri
Una vorta, per un caso,
drento all’orto d’un amico
fu trovato un busto antico
d’un pupazzo senza naso,
co’ li boccoli de marmo
e una barba longa un parmo.
Da le rughe der pensiero
che j’increspeno la fronte
ce se vedeno l’impronte
d’un filosofo davero;
ma chi diavolo sarà?
ch’avrà fatto? chi lo sa?
Sur davanti, veramente,
c’è er cognome scritto sotto:
ma, siccome è mezzo rotto,
se distingue poco o gnente
e se legge, tutt’ar più,
ch’era Stefano der Q…
Come mai fu sotterrato
fra li cavoli dell’orto?
Quann’è nato? quanno è morto?
Ch’ha scoperto? ch’ha inventato?
Li spaghetti o le cambiale?
Fece bene o fece male?
Fu chiamato un antiquario:
— Questo — disse — è un mezzo busto
fatto male, senza gusto,
e d’un genere ordinario;
vale poco: sia chi sia
è una vera porcheria! —
E fu messo in un cantone
come fosse un muricciolo,
dove spesso c’è un cagnolo
che pe’ fa’ quela funzione
forma un arco co’ la cianca
su la bella barba bianca.
Bolla de sapone
Lo sai ched’è la Bolla de Sapone?
L’astuccio trasparente d’un sospiro.
Uscita da la canna vola in giro,
sballottolata senza direzzione,
pe’ fasse cunnolà come se sia
dall’aria stessa che la porta via.
Una Farfalla bianca, un certo giorno,
ner vede quela palla cristallina
che rispecchiava come una vetrina
tutta la robba che ciaveva intorno,
j’agnede incontro e la chiamò:
— Sorella, fammete rimirà! Quanto sei bella!
Er cielo, er mare, l’arberi, li fiori
pare che t’accompagnino ner volo:
e mentre rubbi, in un momento solo,
tutte le luci e tutti li colori,
te godi er monno e te ne vai tranquilla
ner sole che sbrilluccica e sfavilla. —
La Bolla de Sapone je rispose:
— So’ bella, sì, ma duro troppo poco.
La vita mia, che nasce per un gioco
come la maggior parte de le cose,
sta chiusa in una goccia… Tutto quanto
finisce in una lagrima de pianto.
La gente
Volle resta co’ me perché la zia
j’aveva dato un’ombrellata in testa.
— Vedrai che sarò bona, sarò onesta…
Carlo! — me disse — nun me mannà via!
Sennò, lo sento, faccio una pazzia!… —
Io, che leggevo, j’arisposi: — Resta. —
Tutta la gente disse: — Ma ch’ha fatto?
S’è presa a casa quela scivolosa…
Povero Carlo! È diventato matto! —
Naturarmente me n’innammorai:
l’amore è un’abbitudine; ma un giorno,
pe’ via d’un fregno che je stava intorno,
me disse: — Carlo… me ne vado, sai?
Vado a Milano e forse nun ritorno… —
Io, che scrivevo, j’arisposi: — Vai. —
Tutta la gente disse: — L’ha piantato…
Se vede che c’è sotto quarche cosa…
Era tanto carina… Che peccato! —
Un mese fa rivenne. Nun ve dico!
Quanno me vidde me baciò le mani
come pe’ ricorda l’amore antico…
Eppoi me disse: — Partirò domani:
però, se me rivôi, pianto l’amico… —
Io, che fumavo, barbottai: — Rimani. —
La gente disse subbito: — Hai sentito?
Se l’è ripresa e forse se la spósa…
Povero Carlo! S’è rincojonito!
La rassegnazzione
Er cortiletto chiuso
nun serve a nessun uso.
Dar giorno che li frati de la Morte
se presero er convento, hanno murato
le finestre e le porte:
e er cortile rimase abbandonato.
Se c’entra un gatto, ammalappena è entrato
se guarda intorno e subbito risorte.
Tra er muschio verde e er vellutello giallo
ancora s’intravede una Fontana
piena d’acqua piovana
che nun se move mai: come un cristallo.
O tutt’ar più s’increspa
quanno la sera, verso una cert’ora,
se sente stuzzicà da quarche vespa
o da quarche zampana che la sfiora.
Pare che in quer momento
je passi come un brivido: un gricciore
su la pelle d’argento.
Eppure ‘sta Fontana anticamente
se faceva riempì da un Mascherone
che vommitava l’acqua de sorgente:
un’acqua chiara, fresca, trasparente,
che usciva cór fruscio d’una canzone
e se la scialacquava allegramente.
Dar giorno che nun butta,
er vecchio Mascherone s’è avvilito:
forse je seccherà d’esse finito
cór naso rotto e co’ la bocca asciutta.
Perché de tanto in tanto
guarda sott’occhio la Fontana amica
e pare che je dica:
— Nun m’aricordo più se ho riso o pianto.
T’ho dato tutto quello ch’ho potuto,
fino all’urtima goccia ch’hai bevuto
pe’ la felicità de statte accanto! —
Ma la Fontana è sorda:
nun pensa, nun ricorda…
Resta tranquillamente a braccia aperte
e ancora se diverte
co’ quer po’ de sussidio che riceve
da la pioggia che casca e certe vorte
perfino da la neve…
e manco fa più caso
ar vecchio Mascherone senza naso.
La bestia raggionevole
Arrivato a lo svorto d’un palazzo
er povero imbriaco inciampicò,
capolitombolò
e rimase così, come un pupazzo.
— Zulù, Zulù, perché me lasci solo?
— ciangottò l’intoppato ar Cagnolino
accucciato de dietro a un muricciolo —
Perché te sei nascosto? A bon bisogno
nun te ricordi più che so’ er padrone… —
Er Cane disse subbito: — Hai raggione,
ma a di’ la verità me ne vergogno!
Libbertà, uguaglianza, fratellanza
La libbertà
La Libbertà, sicura e persuasa
d’esse stata capita veramente,
una matina se n’uscì da casa:
ma se trovò con un fottìo de gente
maligna, dispettosa e ficcanasa
che j’impedì d’annà libberamente.
E tutti je chiedeveno: — Che fai? —
E tutti je chiedeveno: — Chi sei?
Esci sola? a quest’ora? e come mai?…
— Io so’ la Libbertà! — rispose lei —
Per esse vostra ciò sudato assai,
e mó che je l’ho fatta spererei…
— Dunque potemo fa’ quer che ce pare… —
fece allora un ometto: e ner di’ questo
volle attastalla in un particolare…
Però la Libbertà che vidde er gesto
scappò strillanno: — Ancora nun è affare,
se vede che so’ uscita troppo presto!
L’uguaglianza
Fissato ne l’idea de l’uguajanza
un Gallo scrisse all’Aquila: — Compagna,
siccome te ne stai su la montagna
bisogna che abbolimo ‘sta distanza:
perché nun è né giusto né civile
ch’io stia fra la monnezza d’un cortile,
ma sarebbe più commodo e più bello
de vive ner medesimo livello. —
L’Aquila je rispose: — Caro mio,
accetto volentieri la proposta:
volemo fa’ amicizzia? so’ disposta:
ma nun pretenne che m’abbassi io.
Se te senti la forza necessaria
spalanca l’ale e viettene per aria:
se nun t’abbasta l’anima de fallo
io seguito a fa’ l’Aquila e tu er Gallo. —
La fratellanza
Un certo amico mio conserva un callo
riposto in un astuccio de velluto
sotto una scatoletta de cristallo.
— E che robb’è: — je chiesi una matina.
Dice: — È un ricordo! — Dico: — Ma te pare
che sia un affare da tené in vetrina?
Se fusse robba mia
la frullerebbe via!… —
Lui me rispose subbito: — Ar contrario!
‘Sto callo rappresenta l’ideale
d’un programma sociale-umanitario
d’un omo che insegnò per cinquant’anni
la vera fratellanza universale!
Era un brav’uomo, credi; un vero specchio:
bono, sincero, onesto… Se chiamava
Pasquale Chissenè. Povero vecchio!
Passava l’ore e l’ore
davanti ar tavolino der caffè
pe’ fa’ la propaganda de l’amore…
Povero Chissenè!
Qual’era er sogno suo? Quello de vede
l’ommini abbraccicati fra de loro
uniti ne la pace e ner lavoro,
immassimati ne la stessa fede…
Ma pe’ convince er popolo sovrano
de quello che diceva, ogni tantino
dava un cazzotto in mezzo ar tavolino…
finché je venne er callo ne la mano.
Ecco perché lo tengo! Ecco perché
quanno sento parlà de fratellanza
ripenso ar callo e sento in lontananza
una voce che dice: Chissenè…
Comizzio
L’antra matina un Cavallone borso,
aggitatore de la classe equina,
annò ar comizzio e fece ‘sto discorso:
— Nun volemo più brije!
Nun volemo più morso!
Libberamo er paese
da la frusta borghese!
Evviva er communismo! Ecco er momento
che tutti li cavalli e le cavalle
deveno sortì fòra da le stalle
cór grugno ar sole e la criniera ar vento!
— Se abbolite la frusta a li signori,
— fece un Muletto — è pure necessario
che pensate ar bastone proletario
che quanno ariva addosso so’ dolori!
Io servo da quattr’anni un carettiere
che m’arifila certe tortorate
evolute, coscenti e organizzate
che abbruceno la pelle ch’e un piacere!
— Nun chiacchierate troppo!
— rajò un Somaro zoppo —
Invece d’annà avanti co’ ‘ste scene
cercamo de trovà quarche persona
che ce rimetta su la strada bona,
che ce capisca e che ce guidi bene.
Una testa sicura
che nun abbia paura,
e nun ce rompa er sonno
coll’Inni de su’ nonno,
e nun ce crocchi l’ossa
co’ la Bandiera Rossa.
In quanto a la politica è un affare
che per noi bestie nun decide gnente:
resti un Sovrano o venga un Presidente
seguiteremo a fa’ quer che ce pare.
In un paese buffo come questo
tutto quanto è possibbile der resto:
perfino la Repubblica Sociale
per decreto reale!
La rivoluzzione nell’orto
Fra l’insetti dell’orto c’è un via-vai
che nun s’è visto mai.
— E ch’è successo? — chiedo a lo Scorpione.
— Come sarebbe? — dice — Nu’ lo sai
ch’ho organizzato la rivoluzzione?
Avemo stabbilito de da’ addosso
a quela Tartaruga
che magna la lattuga
laggiù, vicino ar fosso…
La vedi? Poveraccia! È rimbambita!
S’è bella e persuasa
che perderà la casa,
che perderà la vita,
ma nun se move e resta
tranquilla, indiferente:
nun strilla, nun protesta…
Aspetta che je faccino la festa
filosoficamente.
E ormai ce semo. È l’ora der riscatto!
Quelo ch’è fatto è fatto!… —
Principia la sfilata der corteo.
Davanti a tutti c’è lo Scarabbeo
che spigne una palletta e porta via
l’urtimi avanzi de la borghesia.
Poi c’è la Società de le Zanzare
co’ tutte le Zampane trombettiere
ch’aronzeno le solite fanfare:
e appresso a le bandiere bosceviche
passeno fra l’evviva e fra li strilli
Vespe, Cecale, Cavallette, Grilli,
Purce, Pidocchi, Vermini e Formiche.
Ecco la Lega de li Sartapicchi,
ecco la Lega de le Sarapiche…
Appena lo Scorpione fa er segnale,
er gruppo de le Vespe più ribbelle
se scaraventa addosso a l’animale,
che, ner sentisse puncicà la pelle,
ritira ne la coccia
le zampe e la capoccia
per aspettà l’assarto generale.
E l’assarto incomincia. Ogni bestiola
je zompa su la groppa, ma so’ in tante
che a contentalle tutte è una parola!
Chi casca, chi se sfregna chi se pista:
ognuna cerca d’arivà per prima
pe’ rimané più in vista,
pe’ rimané più in cima…
Ma mentre stanno pe’ pijà possesso
la Tartaruga sposta piano piano,
scivola, spiomba, casca ner pantano
e se stracina tutti quanti appresso.
Allora lo Scorpione vagabbonno,
ch’assiste sano e sarvo a la rovina,
arza la coda e strilla: — Tutti a fonno!
Viva la faccia de la disciprina!
La perla
Er Re Falloppa disse a la Reggina:
— Prima de pranzo vattene in cucina
a fa’ un pasticcio pe’ l’Imperatore
ch’arriva da la Cina. —
E la Reggina, bella che vestita,
s’arzò la coda, se sfilò li guanti
e s’appuntò la vesta su la vita:
e doppo d’avé fritta una frittella
ne la reggia padella
la riempì de canditi e de croccanti.
Fu allora che una perla der diadema
cór calore der foco se staccò
e je cascò ner piatto de la crema.
(Er coco se n’accorse, ma a bon conto,
speranno forse che finito er pranzo
l’avrebbe ritrovata in quarche avanzo,
s’ammascherò da tonto.)
Da qui nacque l’impiccio:
perché l’Imperatore de la Cina
doppo pranzato disse a la Reggina:
— M’ha fatto veramente un bon pasticcio,
ma quer confetto grosso ch’ho inghiottito
me s’era messo qui, ner gargarozzo,
che un antro po’ me strozzo…
— Ma che confetto! — je rispose lei —
S’è magnata la perla principale
der diadema reale!
Ereno infatti sette: e mó so’ sei!
Propio la perla nera, propio quella
comprata espressamente ner Perù
per un mijone e più…
Ah, poveretta me,
se lo sapesse er Re!…—
L’Imperatore, ch’era un gentilomo,
je disse: — In de ‘sto caso stia sicura
che per domani sarà mia premura
de fajela riavé dar maggiordomo.
Farò fa’ le ricerche a un diplomatico,
serio, prudente e pratico,
ch’ogni tantino stampa un Libbro Verde
su quello che se trova e che se perde.
E adesso nun me resta
che chiede scusa de l’inconveniente,
ma tutto passa, e necessariamente
passerà puro questa… —
La sera doppo, infatti sur diadema
de la bella Reggina fu rimessa
la perla… quella stessa
cascata ne la crema.
Morale
Pe’ rimette ‘na perla a una corona
qualunque strada è bona.
Come la va la viè…
Doppo d’avé guardato li reggistri
un Re chiese ar Governo — Come butta?
— Eh, caro lei, se la vedemo brutta!
— j’arisposero in coro li Ministri —
Se sfoja un momentino er libbro-mastro
nun troverà che debbiti! Un disastro!
Nun c’è più bronzo! Semo disperati!
J’abbasti a di’ che l’urtimi bajocchi
l’avemo fatti fa’ co’ li patocchi
der vecchio campanile de li frati:
er popolo, però, che se n’è accorto,
già fa foco dall’occhi… E nun ha torto.
Lei lo sa che la fede è necessaria:
ar giorno d’oggi puro er miscredente,
sfiduciato dell’ommini, se sente
come un bisogno de guardà per aria
co’ la speranza che le cose belle
se trovino lassù, dietro a le stelle.
— Ma er Governo bisogna che s’industri:
— disse er Sovrano — e, dati li momenti,
rimedieremo co’ li monumenti
dell’ommini più celebri e più illustri:
co’ tanto bronzo inutile se ponno
rifabbricà li sòrdi che ce vonno.
Tanto se sa: le cose de la terra
potranno cambia forma e cambià nome,
ma la sostanza resta quella, come
succede sempre doppo quarche guerra:
la Giustizzia… er Diritto… li Destini…
come vanno a finì? Tutt’in quatrini. —
L’idea fu buffa, e come è naturale
venne approvata senza discussione.
Subbito se formò la commissione
pe’ requisì la gloria nazzionale,
e detto fatto fecero er dettajo
de quelli più possibbili a lo squajo.
Così, la notte stessa, uno per uno,
vennero messi giù dar piedistallo
sei Padri de la Patria cór cavallo,
un poeta, un filosofo, un tribbuno,
un tenore, un ostetrico, un guerriero
e un martire der Libbero Pensiero.
E er più bello fu questo: che la testa
de quer povero màrtire fu presa
pe’ rifà le campane de la chiesa!
Defatti una matina, ch’era festa,
li tre patocchi dettero er bongiorno
contenti e soddisfatti der ritorno.
Però de tanto in tanto ogni campana
sonava con un’aria strafottente.
La più grossa diceva: — Dio, che gente!
— Tutti tonti! — cantava la mezzana.
E la più piccinina de le tre
ridondolò: — Come la va la viè…
L’incoronazzione
Cinque minuti prima de la festa
de l’incoronazzione der Sovrano,
Carlone primo disse ar Ciambellano
che la corona nun j’entrava in testa.
(La corona reale era un coperchio
incastrato in un cerchio
de tutte stelle d’oro
intrecciate fra loro.)
— Oh questa sì ch’è buffa!
— diceva er Re, ner mentre se passava
la mano reggia su la cocciamuffa —
O quarchiduno m’ha ristretto er giro
pe’ famme un brutto tiro,
oppuramente la capoccia mia
è troppo grossa pe’ la monarchia… —
Er Ciambellano disse: — O larga o stretta
bisogna che se sforzi e se l’infili;
guardi laggiù: de dietro a li fucili,
c’è tutto quanto un popolo ch’aspetta.
E er popolo ignorante se figura
che quanno un Re mette la corona
sia nato co’ la testa su misura.
Se Dio ne guardi l’opinione pubbrica
s’incajasse der fatto… bona sera!
Casca er governo e scoppia la repubbrica!…
— Ma prima che me tocchi ‘sto disastro
m’incarco la corona fino all’occhi!
— strillò er Sovrano — Ce riproverò…
— Forza! — Più giù!… — S’intesero li scrocchi
dell’ossa che cedevano a l’incastro,
e la corona finarmente entrò.
Così Carlone fece la sortita:
ma per tutta la vita
rimase co’ la punta de le stelle
ficcata ne la pelle
come un’ogna incarnita.
E ogni tanto diceva fra de sé:
— Per adesso so’ Re:
ma, se domani er popolo ribbelle
rivorrà la Corona, nun me resta
che de daje la testa…
Li peccati capitali
C’era una vorta un Frate che una sera
nu’ j’ariusciva de rientrà ar convento
per via der tempo orribbile che c’era.
Che notte, Dio ce scampi!
Che rimbomba de scrocchi!
Le strisce de li lampi
j’entraveno nell’occhi,
li scoppi de li furmini
spaccaveno li campi!
L’acqua cascava a secchi, e un boja vento,
che pareva er lamento d’un cristiano,
soffiava e s’infrociava a tradimento
pe’ sconocchià li stecchi
dell’arberi più vecchi.
Er Frate camminava locco locco,
nun vedeva la croce der convento,
ma sentiva a bon conto la campana
de tant’in tanto che je dava un tocco
come una voce d’incoraggiamento.
Quann’ecchete che tutto in un momento
vidde che da una fossa
sortì una fiamma rossa,
e da la fiamma rossa un omo secco,
brutto, tutto peloso, co’ ‘na màcchia
de sbrugnoccoli in fronte e un naso a becco
che toccava la punta de la scucchia.
— Chi sei? — je strillò er Frate spaventato
mentre cercava de scappà ner bosco —
Che te s’è sciorto? chi te cià chiamato?
Va’ via! Nun te conosco!
— Ah, nun me riconoschi! — fece quello —
Nu’ lo sai chi so’ io? So’ Farfarello!
So’ Farfarello er diavolo a la moda,
fo er frammassone e ciò li tre puntini
sotto l’attaccatura de la coda.
So’ Farfarello er diavolo moderno
che nun conta più un cavolo per via
ch’er monno se n’infischia de l’inferno.
Eh! so’ passati queli belli tempi
che me ficcavo in corpo a le persone
co’ la scusa de da’ li boni esempi:
quanno, pe’ mannà avanti la bottega
der mago e de la strega,
ingarbujavo er popolo cojone…
Oggi nun vanno più certi spettacoli,
ché er monno s’è cambiato, Frate mio:
nun crede più né ar Diavolo né a Dio,
né le stregonerie né li miracoli!
So’ propio stufo, credeme, e oramai
nun m’è rimasto più che er desiderio
de famme frate, e tu m’ajuterai…
— Scherzi o parli sur serio?
— je chiese er Frate — Ma co’ che criterio
me vienghi a fa’ una simile proposta?
Che faccia tosta! Doppo quer ch’hai fatto
te voressi vestì da francescano,
co’ quele corna lì!… Diventi matto?
Se veramente ciai ‘sta vocazzione
ritira li peccati capitali
da la circolazzione…
— Ritirà li peccati? È una pazzia!
— rispose allora er Diavolo — Davero
nun saprei dove metteme le mano.
Come diavolo faccio a portà via
l’Accidia a l’impiegati ar ministero
e l’Avarizzia ar principe romano?
Chi strappa la Lussuria a le signore?
Chi pô levà l’Invidia ar commediografo,
ar maestro de musica e ar tenore?
E come levo l’Ira ar peccatore
che quanno sta a magnà sente er fonografo?
E così pe’ la Gola a li prelati
e la Superbia a li villani ricchi…
Credeme, Frate mio, che ‘sti peccati
nu’ l’abbolischi manco se l’impicchi…
Tu vai dicenno che la gente pecca
dietro er consijo mio:
e, francamente, questo qui me secca
perché er più de le vorte nun so’ io.
Se un giorno, travestito da serpente,
ho imbrojato er prim’omo
co’ l’affare der pomo,
l’idea fu de Dio Padre onnipotente.
Lui commannava, e quanno semo ar dunque
ho ubbidito a un incarico speciale:
forse è per questo che me trovo male
e so’ un povero diavolo qualunque.
Le decisioni der re
Anticamente, quanno commannaveno
li Re in persona, e solamente loro,
(ché allora nun ce staveno
Cammere der Lavoro),
successe un certo fatto
che a raccontallo mó pare un mistero,
ma che dev’esse certamente vero
perché la Storia nu’ ne parla affatto.
Ar tempo, dunque, de la Gattamavola
c’era una vorta un Re che fu chiamato
a commannà ner Regno de la Favola.
Er Re ciannò. Ma doppo quarche giorno
capì che se trovava in un impiccio
pe’ via dell’Orchi che ciaveva intorno:
e Fate e Streghe e Maghi… Era un contorno
che, francamente, nun j’annava a ciccio.
E lo disse ar Ministro: — Qua bisogna
ch’aprimo l’occhi ar popolo in maniera
che, più che ne le trappole che sogna,
impari a vive ne la vita vera,
lontano da l’imbroji e da li trucchi
che serveno a incantà li mammalucchi.
Vojo che ciabbia fede ner lavoro
e no a la gente che je fa intravede
le galline che fanno l’ova d’oro!
Pe’ questo è necessario che arrestate
tutte quante le Fate
e sciojete la Lega
der Mago e de la Strega.
In quanto all’Orco co’ la su’ compagna
li schiafferemo ignudi in una botte,
piena de vetri e de bottije rotte,
pe’ falli rotolà da la montagna…
— Badi, però, ch’è un’arma a doppio tajo:
— disse allora er Ministro — e nun vorrei
che succedesse un guajo…
So’ tasti delicati, caro lei…
Er popolo, se sa, da quanno è nato
s’è messo sempre appresso a le persone
che l’hanno minchionato.
E in certi casi è facile che dia
più retta a un giocatore de prestiggio
che a un professore de filosofia.
Ma se ariva a scoprì che er ciarlatano
che je promette er solito prodiggio
tiè quarche inghippo preparato in mano, eh!
allora so’ dolori! Nun s’aregge!
Fa giustizzia sommaria,
manna tutto per aria,
nun guarda né la forza né la legge!
Lei, dunque, aspetti. Seguiti a fa’ er Re
e li lasci sfogà quanto je pare.
Dia tempo ar tempo. Questo qui è un affare
che sfumerà da sé…
— Se er fatto sta così, tiramo avanti!
— disse er Sovrano — Allora
tanti saluti all’Orco e a la signora,
a li Maghi, a le Streghe… a tutti quanti!
Anzi, v’ariccommanno
d’assicuralli che, pe’ parte mia,
vedo con una certa simpatia
tutte le fregature che me dànno.
Er vento e la nuvola
Una Nuvola nera disse ar Vento:
— Damme un appuntamento
perché stanotte ho da coprì la Luna.
— E indove vôi che venga? — Verso l’una
dedietro ar campanile der convento.
Se tratta de questioni delicate:
— disse piano la Nuvola — ho scoperto
un buggerìo de coppie innammorate
che la notte se baceno a l’aperto.
E un’immoralità
che propio nun me va!
— Quanto sei scema, Nuvoletta mia!
— je fece er Vento — Vôi coprì l’amore,
ch’è la cosa più bella che ce sia.
e lasci a lo sbarajo tanta gente
che s’odia e che se scanna inutirmente!
Guarda, infatti, laggiù. Li vedi quelli
che stanno a liticà su la piazzetta?
J’abbasta l’aria d’una canzonetta
pe’ faje mette mano a li cortelli,
senza manco pensà che so’ fratelli
e che cianno una madre che l’aspetta! —
La Nuvoletta, ner vedé la scena,
sbottò in un pianto, fece uno sgrulone
e fracicò un filosofo cojone
che stava a rimirà la luna piena.
— So’ le stelle che sputeno sur monno!
— disse tra sé er filosofo — So’ loro!
Hanno raggione, in fonno!
Er discorso de la corona
C’era una vorta un Re così a la mano
ch’annava sempre a piedi come un omo,
senza fanfare, senza maggiordomo,
senza ajutante…; insomma era un Sovrano
che quanno se mischiava fra la gente
pareva quasi che nun fosse gnente.
A la Reggia era uguale: immagginate
che nun dava mai feste, e certe vorte
ch’era obbrigato a dà’ li pranzi a Corte
je faceva li gnocchi de patate,
perché — pensava — la democrazzia
se basa tutta su l’economia.
— Lei me pare ch’è un Re troppo a la bona:
— je diceva spessissimo er Ministro —
e così nun pô annà, cambi reggistro,
se ricordi che porta la Corona,
e er popolo je passa li bajocchi
perché je dia la porvere nell’occhi. —
Ma lui nun ce badava: era sincero,
diceva pane ar pane e vino ar vino;
scocciato d’esse er primo cittadino
finiva pe’ regnà soprappensiero,
e in certi casi succedeva spesso
che se strillava «abbasso» da lui stesso.
Un giorno che s’apriva er Parlamento
dovette fa’ un discorso, ma nun lesse
la solita filara de promesse
che se ne vanno come fumo ar vento:
— ‘Sta vorta tanto — disse — nun so’ io
se nu’ je la spiattello a modo mio! —
E cominciò: — Signori deputati!
Credo che su per giù sarete tutti
mezzi somari e mezzi farabbutti
come quell’antri che ce so’ già stati,
ma ormai ce séte e basta la parola,
la volontà der popolo è una sola!
Conosco bene le vijaccherie
ch’avete fatto per avé ‘sto posto,
e tutte quel’idee che v’hanno imposto
le banche, le parrocchie e l’osterie…
Ma ormai ce séte, ho detto, e bene o male
rispecchiate er pensiero nazzionale.
Dunque forza a la machina! Er Governo
è pronto a fa’ qualunque umijazzione
purché je date la soddisfazzione
de fallo restà su tutto l’inverno;
poi verrà chi vorrà: tanto er Paese
se ne strafotte e vive su le spese.
Pe’ conto mio nun vojo che un piacere:
che me lassate in pace; in quanto ar resto
fate quer che ve pare: nun protesto,
conosco troppo bene er mi’ mestiere;
io regno e nun governo e co’ ‘sta scusa
fo li decreti e resto a bocca chiusa.
Io servo a inaugurà li monumenti
e a corre su li loghi der disastro;
ma nun me vojo mette ne l’incastro
fra tutti ‘sti partiti intransiggenti:
anzi j’ho detto: Chiacchierate puro,
ché più ve fo parlà più sto sicuro.
Defatti la Repubbrica s’addorme
davanti a li ritratti de Mazzini,
er Socialismo cerca li quatrini,
sconta cambiali e studia le riforme,
e quello de la barca de San Pietro
nun sa se rema avanti o rema addietro. —
A ‘sto punto er Sovrano arzò la testa
e vidde che nun c’era più nessuno
perché li deputati, uno per uno,
èreno usciti in segno de protesta.
— Benone! — disse — Vedo finarmente
un Parlamento onesto e inteliggente!
Li convincimenti der gatto
Un vecchio Gatto mezzo insonnolito,
giranno pe’ lo studio d’un pittore,
je parse de sentì come un rumore
d’un Sorcio che raspava in quarche sito:
cri-cri, cri-cri… Cercò per tutta casa,
e guarda, e smiccia, e annasa,
finché scoperse che ce n’era uno
de dietro a un quadro de Giordano Bruno.
Provò d’avvicinasse piano piano,
ma er Sorcio se n’accorse; tant’è vero
che disse: — Amico! Stattene lontano.
Porta rispetto ar libbero pensiero!
Abbi riguardo ar martire che un giorno
fece la fine de l’abbacchio ar forno…
— Va bè’, — je fece er Micio —
farò ‘sto sacrificio… —
Però la sera appresso risentì
lo stesso raspo e ritrovò l’amico
de dietro a un quadro antico
d’un San Lorenzo Martire: cri-cri…
Er Sorcio nun se mosse. Dice: — E adesso
rispetta er sentimento religgioso:
nun sai che questo è un santo
tanto miracoloso?
Nun sai che puro lui
finì su la gratticola? Per cui…
— Rispetto un par de ciufoli!
— rispose er Gatto — Tu, cór sentimento,
t’arampichi, t’intrufoli, rosichi, magni e poi
metti in ballo li martiri e l’eroi
che t’hanno da servì da paravento…
Che speri? che rispetti l’ideali
de certe facce toste
compagne a te, che tengheno riposte
le convinzioni come li stivali?
No, caro: in de ‘sti casi sfascio er quadro,
strappo la tela, sfonno la figura,
finché nun ciò fra l’ogna er Sorcio ladro
che me vorebbe da’ la fregatura.
Per aria
Un Omo che volava in aroplano
diceva fra de sé: — Pare impossibbile
fin dove pô arivà l’ingegno umano! —
Quanno s’intese di’: — Collega mio,
quanti mil’anni avete faticato
pe’ fa’ quer che fo io!
Ma mó, bisogna che lo riconosca,
in fonno ve ce séte avvicinato… —
L’Omo guardò er collega… Era una Mosca!
— Ma io, però, ciò l’ale ner cervello,
— je fece l’Omo — e volo co’ l’ingegno.
Defatti ho immagginato ‘sto congegno
per avé le risorse de l’ucello.
Deppiù, se c’è la guerra,
m’accosto ar celo e furmino la terra:
ogni bomba che butto è ‘no sfraggello.
Indove trovi un mezzo più potente
per ammazzà la gente?
— Su questo qui potete sta’ tranquillo,
— je rispose la Mosca — ché pur’io
l’ammazzo a modo mio:
ma invece de la bomba ciò er bacillo.
Quanno vojo fregà quarche persona,
succhio la robba guasta
e je la sputo su la robba bona:
l’omo la magna e… basta.
Se sa ch’ognuno addopra l’arme sue
cór sistema più pratico, se sa:
ma, in fonno, lavoramo tutt’e due
a beneficio de l’umanità.
Er diavolo de stoppa
Un Re se fece un Diavolo de stoppa:
— Così, — pensò — se er popolo scontento
un giorno o l’antro pija er sopravvento
perché se stufa de tenemme in groppa,
je faccio vede er Diavolo, e l’Inferno
rinforzerà la base der Governo. —
Defatti, quanno c’era una sommossa,
er Re se presentava cór pupazzo
de dietro a le finestre der palazzo
illuminate da una luce rossa,
e er popolo scappava fra li strilli
come se avesse inteso li tre squilli.
Un giorno, un vecchio che sapeva er gioco,
volle aprì l’occhi a quela folla scema:
— Badate: — disse — un popolo che trema
davanti a un burattino vale poco… —
Ma fu schiaffato subbito in priggione
perché nun rispettò l’istituzzione.
L’incontro de li sovrani
Bandiere e banderole,
penne e pennacchi ar vento,
un luccichio d’argento
de bajonette ar sole,
e in mezzo a le fanfare
spara er cannone e pare
che t’arimbombi drento.
Ched’è? chi se festeggia?
È un Re che, in mezzo ar mare,
su la fregata reggia
riceve un antro Re.
Ecco che se l’abbraccica,
ecco che lo sbaciucchia;
zitto, che adesso parleno…
— Stai bene? — Grazzie. E te?
e la Reggina? — Allatta.
— E er Principino? — Succhia.
— E er popolo? — Se gratta.
— E er resto? — Va da sé…
— Benissimo! — Benone!
La Patria sta stranquilla;
annamo a colazzione… —
E er popolo lontano,
rimasto su la riva,
magna le nocchie e strilla
— Evviva, evviva, evviva… —
E guarda la fregata
sur mare che sfavilla.
Er pranzo de l’alleati
Du’ Sovrani alleati
fecero un pranzo a Corte
pe’ festeggià l’unione fra du’ popoli
che s’odiaveno a morte.
Ècchete che a l’arosto,
doppo avé fatto er solito saluto,
er Re invitato se sentì indisposto;
dice: — M’ha fatto male
quell’unico bicchiere ch’ho bevuto:
nun capisco perché, me s’è rimposto…
— Eh, sfido che je gira la capoccia!
— je disse uno der seguito — È successo
ch’er Ministro dell’Esteri j’ha messo
la birra e er vino ne l’istessa boccia
per augurà che puro li du’ popoli
s’unìschino lo stesso…
— Ma la birra de Vienna,
cór vino de Frascati,
c’entra come li cavoli a merenna!
— je rispose er Sovrano — È un’alleanza
che fa male a la panza!
Finché scherzamo co’ li sentimenti
potemo annà d’accordo in tutto quanto:
ma scherza co’ lo stommico… Accidenti!
Me ne buggero tanto! —
Er Re s’arzò da tavola stranito,
poi, pe’ fortuna, ritornò tranquillo:
e er pranzo, manco a dillo,
venne… restituito.
La verità
La Verità, che stava in fonno ar pozzo,
una vorta strillò: — Correte, gente,
ché l’acqua m’è arivata ar gargarozzo! —
La folla corse subbito
co’ le corde e le scale: ma un Pretozzo
trovò ch’era un affare sconveniente.
— Prima de falla uscì, — dice — bisogna
che je mettemo quarche cosa addosso
perché senza camicia è ‘na vergogna!
Coprìmola un po’ tutti: io, come prete,
je posso da’ er treppizzi; ar resto poi
ce penserete voi…
— M’associo volentieri a la proposta:
— disse un Ministro ch’approvò l’idea —
pe’ conto mio je cedo la livrea
che Dio lo sa l’inchini che me costa;
ma ormai solo la giacca
è l’abbito ch’attacca… —
Bastò la mossa: ognuno,
chi più chi meno, je buttò una cosa
pe’ vedé de coprilla un po’ per uno;
e er pozzo in un baleno se riempì:
da la camicia bianca d’una spòsa
a la corvatta rossa d’un tribbuno,
da un fracche aristocratico a un cheppì.
Passata ‘na mezz’ora,
la Verità, che s’era già vestita,
s’arrampicò a la corda e sortì fòra;
sortì fòra e cantò: — Fior de cicuta,
ner modo che m’avete combinata
purtroppo nun sarò riconosciuta!
La calunnia
Da una brutta catapecchia
che se specchia drento ar fiume
ogni notte c’è una Vecchia
ch’esce fòra con un lume:
è una Strega co’ ‘na mucchia
de sbrugnòccoli sur naso,
e tre denti nati a caso
che j’ariveno a la scucchia.
D’anniscosto de la gente,
piano piano se stracina
su lo sbocco puzzolente
d’una chiavica vicina,
pija un sasso e poi ce scrive
co’ la punta d’un cortello
l’improperie più cattive
contro questo e contro quello…
E la Vecchia dispettosa,
soddisfatta de la cosa,
detto fatto butta er sasso
drento l’acqua mollacciosa:
l’improperia cala a fonno,
ma a fior d’acqua, piano piano,
sparge in giro un cerchio tonno
che s’allarga e va lontano…
Va lontano: e, mentre pare
che se sperde e che finisce,
zitto zitto ariva ar mare.
Chi direbbe che ‘sta Vecchia
fa ‘sta brutta professione
pe’ servì tante persone
che je soffieno a l’orecchia?
Quanta gente, che c’è amica,
je darà l’ordinazzione!
La fiducia
Li sogni quasi sempre so’ compagni
a certe idee politiche che nascheno
seconno de li generi che magni.
Io, presempio, ciò fatto osservazzione:
quanno me fanno er baccalà in guazzetto
la notte ciò una spece d’oppressione
che me nìzzico e nàzzico p’el letto: e m’insogno le cose
più brutte e più noiose…
L’antra sera, defatti,
che ne magnai tre piatti,
me parse de vede che Nina mia
giocava a acchiapparella in mezzo a un prato
con un tenente de cavalleria.
Apersi l’occhi subbito e pensai:
— Che brutto sogno! Forse sarà stato
er baccalà in guazzetto ch’ho magnato…
Nina, ‘ste cose qui, nu’ le fa mai… —
Ma disgrazziatamente,
quela stessa matina,
vado ar Pincio, e chi trovo?
Trovo Nina a spasso cór medesimo tenente!
Ch’avrebbe fatto un antro ar posto mio?
Se sarebbe arabbiato! Cicche e ciacche!
Du sganassoni e… addio!
Io, invece, chiusi l’occhi cór bisogno
de crede ch’era un sogno,
e dissi: — Sarà stato
er baccalà in guazzetto ch’ho magnato…
La morale
Anniscosto tra er verde d’una villa
c’è un bel laghetto, quieto com’un ojo,
coll’acqua chiara, limpida e tranquilla
che cola a gocce a gocce da uno scojo
ch’hai d’appizzà l’orecchie pe’ sentilla.
El lago è basso, e chi ce guarda drento
vede che er fonno è tutto conformato
de brecciole che pareno d’argento,
framezzo ar vellutello
fresco, pulito e bello.
Io che ce vado spesso e volentieri
me sdrajo su la riva e guardo l’acqua
che me risciacqua tutti li pensieri;
ma giusto l’antro jeri,
guardanno mejo er fonno, feci caso
che c’era un certo vaso…
un certo vaso tonno che nun dico
sennò quarcuno aggriccerebbe er naso.
— Ah! — dissi — che peccato!
Chi ce l’avrà buttato?
E che dirà la gente
quanno vedrà quer coso arivortato?
Se scandalizzerà sicuramente. —
E allora, piano piano,
con una canna che ciavevo in mano,
feci in maniera de cacciallo fòra:
fregai l’orbo mezz’ora
fra li sassi e le piante:
e smòvi e scava e spigni, finarmente
lo tirai su, glorioso e trionfante!
Ma nun ve dico quanto feci male;
perché quell’acqua, tanto mai pulita,
smossa che fu, rimase intorbidita
che pareva un pantano generale.
Così succede spesso ne la vita
a la gente che sarva la morale.
Er sentimento
Una vorta un Piccione disse ar fijo:
— Prima che lassi er nido e voli via,
bisogna che te dia quarche consijo.
Sta’ attent’all’omo! Te farà la caccia
perché è un bojaccia: ma, se tu je tocchi
la corda più sensibbile der core,
je vèngheno le lagrime nell’occhi.
Percui, quanno te pija,
dije che ciai tu’ moje che t’aspetta…
Lui nun t’ammazzerà, perché rispetta
l’affetti de famija.
Se questo nun fa effetto, je dirai
che, facenno er piccione viaggiatore,
potrai sarvà la Patria da li guai;
davanti ar patriottismo
s’intenerisce e piagne,
ripensa a le campagne,
te mette in libbertà.
Se nun j’abbasta, di’ che sei parente
de lo Spirito Santo, ch’è un piccione:
solo ar pensiero de la religgione
nun te cucinerà sicuramente…
Ma bada ch’abbia fatto colazzione!
La sincerità
M’aricorderò sempre che mi’ nonno,
pe’ famme pijà sonno,
me diceva la favola de quello
ch’annava in cerca de sincerità.
Io, però, m’addormivo sur più bello
che nemmanco arivavo a la metà.
Tutta quanta la favola nun era
che la storia de Gnocco: un pastorello
ch’uscì de notte per annà ar Castello
de la gente sincera;
ma arivato a lo svorto d’una strada
incontrava una povera vecchietta
che je diceva: — Abbada!
Tiè sempre d’occhio quer lumino verde
che riluce, sbrilluccica e se perde
co’ la stella der celo più vicina.
e cammina, cammina…
Però, se nun sei pratico,
passi un momento critico
cór Cignale politico
e er Gatto dipromatico.
Nun te fida dell’Omo
ch’accommoda l’idea
seconno la livrea
che porta er maggiordomo.
E abbada all’Orco Rosso
che fa er vocione grosso;
abbada all’Orco Nero
perché nun è sincero;
abbada all’Orco Bianco
perché nun è mai franco.
Percui, per esse certo
de chi te s’avvicina,
tiè sempre un occhio aperto
e cammina, cammina… —
E Gnocco camminava Dio sa quanto
tutta la notte fino a la matina,
fra l’Orchi e fra le Streghe: ogni momento
trovava un tradimento…
Com’annava a finì? Già ve l’ho detto:
prima ch’er pastorello
arivasse ar Castello, m’addormivo,
finché mi’ nonno me metteva a letto.
Purtroppo, puro adesso,
se vado in cerca de sincerità
me succede lo stesso:
e come ne la favola de nonno
pur’io vedo un lumino
lontano, in fonno in fonno…
E cammino, cammino,
finché casco dar sonno.
L’inganno
Fu l’antra notte che un signore sbronzo
ritornò a casa, se guardò a lo specchio,
s’accorse ch’era vecchio e s’affissò.
— Macché, — diceva — quello nun so’ io!
Quello dev’esse povero mi’ nonno
ch’è ritornato ar monno…
Povero nonno mio!
Perché sei ricicciato a l’improviso?
T’eri forse stufato de la gioja
der santo Paradiso?
Capisco che er mestiere der beato
dev’esse una gran noja!
Passà tutta la vita fra le nuvole
senza concrude gnente tutt’er giorno,
cór Cherubbino che te sona l’orgheno,
cór Serafino che te vola intorno…
Ritrovasse davanti
sempre le stesse Vergini!
sempre li stessi Santi!
La pace eterna, speciarmente in oggi,
è la pace più giusta che ce sia,
perché la fece Iddio senza l’appoggi
de la dipromazzia;
ma una pace che dura
pe’ mijara de secoli, a la fine
dev’esse una gran bella scocciatura! —
Qui, l’intoppato singhiozzò più forte,
sbuffò tre vorte e poi ricominciò:
— E a me come me trovi? bene assai?
Infatti c’è ogni tanto quarchiduno
che me ferma e me dice: «E come fai
che nun t’invecchi mai?
Ma de che classe sei? der settantuno?»
E m’incomincia a fa’ li conti addosso,
me chiede premuroso come sto…
«Eh! — dico io — m’ajuto come posso.»
E pe’ fallo contento
m’invento quarche male che nun ciò.
Nonnetto caro, nun te crede mica
che la gente sia bona e sia sincera
com’era quella antica…
Adesso nun se pensa che ar guadagno,
er monno è diventato una bottega;
ognuno cerca de fregà er collega,
ognuno cerca de fregà er compagno.
L’unico abbraccio vero che cià unito,
doppo la guerra, sai ch’è stato? Er ballo:
ch’è una spece de quello de San Vito.
Se vedi er cavajere quant’è bello
quanno fa li passetti der cavallo,
dell’orso, de la scimmia e der cammello!
So’ finiti li tempi d’una vorta
quanno che se faceva er minuetto;
er ballo d’oggi è un ballo che te porta
direttamente in cammera da letto.
Defatti, doppo un giro de fox-trotte,
le coccotte diventeno signore,
le signore diventeno coccotte…
L’ideale
Broccolo è un omo tanto origginale
che s’è rinchiuso in una catapecchia
con un gatto, una pippa e un ideale,
e assieme a tutt’e tre vive e s’invecchia.
L’ideale de Broccolo consiste
in una donna bionna, tanto bella,
che cià un difetto solo: nun esiste.
Però, de tante femmine ch’ha viste,
nu’ je piace che quella.
Se la fece a vent’anni, da lui stesso,
la chiamò Boccadoro, e da quer giorno
je gira sempre intorno e je va appresso.
E spesso, quanno fuma
ne la pippa de schiuma,
chiude l’occhi, s’appennica e je pare
de vede Boccadoro che se perde
ner verde d’una villa, in riva ar mare…
Se quarche amico o quarche conoscente
je dice: — Pija moje… —j’arisponne:
— O Boccadoro o gnente!
Pe’ me nun c’è che quella. L’antre donne
me so’ rimaste tutte indiferente! —
L’unica, infatti, che ce va per casa,
è una servetta storta, mezza gobba,
che je spiccia la robba e sficcanasa.
Lui nu’ la guarda mai, ma in prima sera,
quanno da la finestra mezza chiusa
entra una luce debbole e confusa
che mette tutto sotto un’ombra nera,
la vede meno brutta e quarche vorta
je pare meno gobba e meno storta.
E col lavoro de la fantasia
s’immaggina che sia
propio lei, Boccadoro, che je dice:
— L’omo che bacerà la bocca mia
sarai tu, sarai tu, vivi felice! —
Allora ce sospira, e piano piano
allunga er braccio e attasta co’ la mano
come cercasse ne l’oscurità…
Così, povero Broccolo, conserva
tutto l’amore suo per l’Ideale…
Ma intanto dà li pizzichi a la serva
e forse un giorno se la sposerà.
Le coscenze all’asta
Chi volesse comprà quarche coscenza
ne troverà de tutti li colori:
avanti, favorischino, signori,
prezzi da non temere concorrenza!…
Robba d’un fallimento!… — E er ciarlatano
aprì er fagotto che ciaveva in mano.
— Chi non prova non crede! Pe’ chi cerca
le coscenze politiche ne trova
una de poco prezzo, quasi nova,
confezzionata in vera guttaperca,
co’ l’ideali forti e garantiti
adattabbili a tutti li partiti.
Abbiamo una coscenza in cartapista
resistente a lo scrupolo e ar rimorso,
cucita co’ li fili der discorso
d’un membro der partito socialista,
tutto a vantaggio der proletariato
che rimane contento e minchionato.
Sotto a chi tocca! A li repubblicani
je la do cór fonografo, in maniera
ch’er giorno sona l’Inno e verso sera
rimanda la repubblica a domani:
come sistema è er mejo che ce sia
pe’ fa’ tranquillizzà la monarchia.
C’è pronta una coscenza nazzionale
inverniciata co’ la malafede,
con un tirante elastico che cede
dar Vaticano fino ar Quirinale;
è l’urtima che ciò: ‘sta settimana
ce n’è stata una vendita puttana! —
E er ciarlatano seguitò a annà avanti
a fa’ l’eloggi de la mercanzia;
però la gente se n’annava via
come volesse dije: nun m’incanti…
«Eppoi,» pensava «in fatto de coscenza,
male che vada, se ne pò fa’ senza!»
L’elezzione
Se nun pagava sprofumatamente
te pensi che votava quarchiduno?
Nu’ j’è tornato conto a fa’ er tribbuno,
povero amico! Adesso se la sente!
E spenni e spanni, nu’ lo sa nessuno
li voti ch’ha comprato! Solamente
quelli der Commitato Indipendente
je so’ costati trenta lire l’uno!
Fra pranzi, sbruffi e spese elettorali,
c’è Pietro lo strozzino che cià in mano
quarantamila lire de cambiali!
Un’antra de ‘ste sbiosse, bona notte!
La volontà der popolo sovrano
je costa cara quanto una coccotte!
L’indennità
Adesso, ar Parlamento Nazzionale,
ogni rappresentante der Paese
sai quanto pija? Mille lire ar mese:
dodici mila all’anno… Nun c’è male!
Chi je le dà? Nojantri: è naturale!
Ne la paga, però, ce so’ comprese
l’opinioni politiche e le spese
pe’ sostené la fede e l’ideale.
Quelli che ne potrebbero fa’ senza,
perché so’ ricchi e cianno robba ar sole,
li spenneranno pe’ beneficenza.
Er mio, defatti, pare che li dia
ar Pro-Istituto de le donne sole
ch’hanno bisogno d’una compagnia…
La sincerità ne li comizzi
Er deputato, a dilla fra de noi,
ar comizzio ciagnede contro voja,
tanto ch’a me me disse: — Oh Dio che noja! —
Me lo disse, è verissimo: ma poi
sai come principiò? Dice: — È con gioja
che vengo, o cittadini, in mezzo a voi
per onorà li martiri e l’eroi,
vittime der Pontefice e der boja! —
E, lì, rimise fòra l’ideali,
li schiavi, li tiranni, le catene,
li re, li preti, l’anticlericali…
Eppoi parlò de li principî sui:
e allora pianse: pianse così bene
che quasi ce rideva puro lui!
Doppo l’elezzioni
Nun c’era un muro senza un manifesto,
Roma s’era vestita d’Arlecchino;
ogni passo trovavi un attacchino
ch’appiccicava un candidato onesto,
cór programma politico a colori
pe’ sbarbajà la vista a l’elettori.
Promesse in verde, affermazzioni in rosso,
convincimenti in giallo e in ogni idea
ce se vedeva un pezzo de livrea
ch’er candidato s’era messa addosso
co’ la speranza de servì er Paese…
(Viaggi pagati e mille lire ar mese.)
Ma ringrazziamo Iddio! ‘Sta vorta puro
la commedia è finita, e in settimana
farà giustizzia la Nettezza Urbana
che lesto e presto raschierà dar muro
l’ideali attaccati co’ la colla,
che so’ serviti a ingarbujà la folla.
De tanta carta resterà, se mai,
schiaffato su per aria, Dio sa come,
quarche avviso sbiadito con un nome
d’un candidato che cià speso assai…
Ma eletto o no, finché l’avviso dura,
sarà er ricordo d’una fregatura.
Le formiche e er ragno
Un gruppo de Formiche,
doppo tanto lavoro,
doppo tante fatiche,
s’ereno fatte la casetta loro
all’ombra der grispigno e de l’ortiche:
una casetta commoda e sicura
incanalata drent’a una fessura.
Ècchete che un ber giorno
un Ragno de lì intorno,
che viveva in un bucio troppo stretto,
vidde la casa e ce pijò possesso
senza nemmanco chièdeje er permesso.
— Formiche mie, — je disse co’ le bone —
quello che sta qui drento è tutto mio:
fateme largo e subbito! Er padrone
d’ora in avanti nun sarò che io;
però m’accorderò cór vostro Dio
e ve rispetterò la religgione. —
Ma allora una Formica de coraggio
incominciò a strillà: — Che propotenza!
Questo è un vero sopruso! Un brigantaggio!
Perché nun è né giusto né legale… —
Er Ragno disse: — Forse, a l’apparenza:
ma, in fonno, è ‘na conquista coloniale.
Un volo de ricognizzione
Doppo un gran volo l’Aquila reale
s’incontrò co’ la Lupa che je chiese:
— Che novità ce stanno ner paese?
Come l’hai ritrovato?… — Tale e quale:
un ber celo, un ber mare, e lo Stivale
co’ le stesse osterie, le stesse chiese…
— Però, l’Italia, a quello ch’ho sentito,
è più forte e più granne… — Questo è vero,
ma l’Italiano s’è rimpiccolito:
alliscia er rosso e se strofina ar nero,
come se annasse in cerca d’un partito
fra er Padreterno e er Libbero Pensiero.
Nun c’è sincerità, nun c’è più stima:
l’ideale politico è un pretesto
pe’ potè caccià via chi c’era prima;
qualunque tinta è bona: in quanto ar resto,
ognuno cerca d’arivà più presto,
ognuno cerca d’arivà più in cima.
Infatti la Cornacchia, vôi o nun vôi,
ammalappena ricacciò l’artiji
cercò l’appoggi e li trovò fra noi…
— È naturale: te ne meraviji?
Speravi tu che dar Settanta in poi
li preti nun facessero più fiji?
Er cane moralista
Più che de prescia er Gatto
agguantò la bistecca de filetto
che fumava in un piatto,
e scappò, come un furmine, sur tetto.
Lì se fermò, posò la refurtiva
e la guardò contento e soddisfatto.
Però s’accorse che nun era solo
perché er Cagnolo der padrone stesso,
vista la scena, j’era corso appresso
e lo stava a guarda da un muricciolo.
A un certo punto, infatti, arzò la testa
e disse ar Micio: — Quanto me dispiace!
Chi se pensava mai ch’eri capace
d’un’azzionaccia indegna come questa?
Nun sai che nun bisogna
approfittasse de la robba artrui?
Hai fregato er padrone! propio lui
che te tiè drento casa! Che vergogna!
Nun sai che la bistecca ch’hai rubbato
peserà mezzo chilo a ditte poco?
Pare quasi impossibbile ch’er coco
nun te ciabbia acchiappato!
Chi t’ha visto?—Nessuno…
— E er padrone? — Nemmeno…
— Allora, — dice — armeno
famo metà per uno!
Er somaro filosofo
Ah! biù! Cammina! Ah! biù… —
Er vecchio Ciuccio che stracina er carico
propio nu’ ne pô più.
— Come fatichi, povero Somaro!
j’abbaia un Cane — E indove vai de bello?
— Devo portà ‘sta carta ar salumaro
— risponne er Somarello —
Sarà quarche quintale, capirai!
Se tratta de la resa d’un giornale…
— De quale? — Nu’ lo so, ma pesa assai! —
Subbito er Cane, inteliggente e pratico,
guarda er caretto e dice: — Ho già capito:
dev’esse l’Avvenire Democratico
che stampa li programmi der partito,
eppoi de tanto in tanto li raduna
in tutte balle da un quintale l’una. —
Er Somaro cammina a testa bassa
sotto le tortorate der padrone:
ogni botta che scegne sur groppone
la sente rintrona ne la carcassa,
e intanto pensa: «La democrazzia
è stata sempre la rovina mia!»
Er sorcio vendicatore
Tengo un Sorcio, drento casa,
ch’ogni notte, a una cert’ora,
zitto zitto scappa fòra,
guarda, cerca e sficcanasa.
Poi fa un giro e rivà via
pe’ rientrà ne la scanzìa,
dove rosica le carte
ch’ho ammucchiato da una parte.
Quer cri-cri, se chiudo l’occhi,
me figuro che dipènna
da la punta d’una penna
che sta a fa’ li scarabbocchi;
e m’immaggino perfino
ch’è la mano der Destino
che me scrive e che prevede
quarche cosa che succede.
Ma poi penso ch’er rumore
viè dar Sorcio unicamente,
ch’ogni notte arrota er dente
ne le lettere d’amore:
tutte lettere inzeppate
de parole appassionate
che me scrisse, a tempo antico,
la signora… che nun dico.
Forse er Sorcio, che capisce
le finzioni de madama,
le smerletta, le ricama,
le consuma, le finisce…
Dove dice: «O mio tesoro!»
me cià fatto un ber traforo;
dove dice: «T’amo tanto!»
s’è magnato tutto quanto.
Er gatto avvocato
La cosa annò così. La Tartaruga,
mentre cercava un posto più sicuro
pe’ magnasse una foja de lattuga,
j’amancò un piede e cascò giù dar muro:
e, quer ch’è peggio, ne la scivolata
rimase co’ la casa arivortata.
Allora chiese ajuto a la Cagnola;
dice: — Se me rimetti in posizzione
t’arigalo, in compenso, una braciola
che ciò riposta a casa der padrone.
Accetti? — Accetto. — E quella, in bona fede,
co’ du’ zampate l’arimise in piede.
Poi chiese: — E la braciola? — Dice: — Quale?
— Ah! — dice — mó te butti a Santa Nega!
T’ammascheri da tonta! E naturale!
Ma c’è bona giustizzia che te frega!
Mó chiamo er Gatto, j’aricconto tutto,
e te levo la sete cór preciutto! —
Er Gatto, che faceva l’avvocato,
intese er fatto e j’arispose: — Penso
che è un tasto un pochettino delicato
perché c’è la questione der compenso:
e in certi casi, come dice Orazzio,
promissio boni viri est obbligazzio.
Ma prima ch’io decida è necessario
che la bestia medesima sia messa
co’ la casa vortata a l’incontrario
finché nun riconferma la promessa,
pe’ stabbili s’è un metodo ch’addopra
solo quanno se trova sottosopra. —
Così fu fatto. Er Micio disse: — Spero
che la braciola veramente esista… —
La Tartaruga je rispose: — È vero!
Sta accosto a la gratticola… L’ho vista.
— Va bene, — disse er Gatto — nu’ ne dubbito:
mó faccio un soprallogo e torno subbito. —
E ritornò, defatti, verso sera.
— Avemo vinto! — disse a la criente.
Dice: — Da vero? E la braciola? — C’era…
ma m’è rimasto l’osso solamente
perché la carne l’ho finita adesso
pe’ sostené le spese der processo.
L’omo finto
Dice che un giorno un Passero innocente
giranno intorno a un vecchio Spauracchio
lo prese per un Omo veramente;
e disse: — Finarmente
potrò conosce a fonno
er padrone der monno!
Je beccò la capoccia, ma s’accorse
ch’era piena de stracci e de giornali.
— Questi — pensò — saranno l’ideali,
le convinzioni, forse:
o li ricordi de le cose vecchie
che se ficca nell’occhi e ne l’orecchie.
Vedemo un po’ che diavolo cià in core…
Uh! quanta paja! Apposta pija foco
per così poco, quanno fa l’amore!
E indove sta la fede?
e indove sta l’onore?
e questo è un omo? Nun ce posso crede…
— Certe vorte, però, lo rappresento,
— disse lo Spauracchio — e nun permetto
che un ucello me manchi de rispetto
cór criticamme quello che ciò drento.
Devi considerà che, se domani
ognuno se mettesse a fa’ un’inchiesta
su quello che cià in core e che cià in testa,
resteno più pupazzi che cristiani.
La voce de la coscenza
La sora Checca pare una balena:
ogni passo che fa ripija fiato:
però sotto quer grasso esaggerato
ce sta riposta un’anima che pena.
Era felice, ma la boja sorte
la fece restà vedova du’ vorte.
Cià avuto du’ mariti, sarvognuno!
Due se n’è messi all’anima, purtroppo!
Gustavo prima e Benvenuto doppo
je so’ campati dodicianni l’uno,
e adesso se li porta appennolone
attaccati a lo stesso medajone.
Li tiè rinchiusi in un cerchietto d’oro
da una parte e dall’antra, sottovetro:
Gustavo avanti e Benvenuto dietro,
che così nun se vedeno fra loro
e ognuno se figura e se consola
d’esse rimpianto da una parte sola.
Fa l’impressione che la vedovanza
je venga reggistrata da un controllo,
perché li du’ ritratti che cià ar collo
je vanno a sbatte propio su la panza
e li mariti, cór girasse intorno,
se dànno er cambio cento vorte ar giorno.
Gustavo è pensieroso e guarda storto
quasi che prevedesse l’accidente;
invece Benvenuto è soridente
come fosse contento d’esse morto,
ma ce se vede in tutt’e due la posa
de gente che sospetta quarche cosa.
La sora Checca, infatti, cià er rimorso
che quann’er primo stava ancora ar monno
faceva già la scema cór seconno
in una certa cammeretta ar Corso:
però je le metteva bene assai
perché Gustavo nu’ lo seppe mai.
Poi Benvenuto se la prese lui.
— Io me te spòso subbito — je disse —
purché me giuri de nun famme er bisse
co’ quarcun’antro de l’amichi tui…
— Oh! — fece lei — ce mancherebbe questa!
Per chi me pigli?… — E j’allisciò la testa.
Je fu fedele? Nun garantirei;
prova ne sia ch’adesso s’è avvilita
pe’ la paura che nell’antra vita
li du’ mariti parlino de lei:
e quanno ce s’affissa cór pensiero
je pare de sentilli pe’ davero.
Gustavo dice: — Vojo sapé tutto!
De me che te diceva? — Ch’eri un porco:
quanno partivi tu, partiva l’orco:
diceva ch’eri grasso, ch’eri brutto,
che nun facevi gnente de speciale…
— E invece me chiamava l’ideale!
In dodicianni, dunque, ha sempre finto!
— strilla Gustavo — Nu’ l’avrei creduto!
— Abbi pazzienza: — dice Benvenuto —
è stata propio lei che me cià spinto;
der resto, tu lo sai che nun so’ pochi
quelli che ce facevano li giochi.
Se te dovessi fa’ tutta la lista!
L’avvocatino der seconno piano,
er barone, er curato, er capitano,
perfino Giggi, quel’elettricista
ch’un giorno j’ha rimesso er campanello…
— Pure co’ quello lì? — Pure co’ quello! —
‘Sta voce che risente così spesso
nun è che la coscenza che lavora
su li peccati che faceva allora
rimossi da li scrupoli d’adesso:
e le scappate fatte, o belle o brutte,
una per una, le rivede tutte.
Apposta soffre: ché le pene sue
so’ appunto li ricordi de ‘sti fatti:
allora se riguarda li ritratti,
pulisce er vetro, bacia tutt’e due
e, sospiranno, fiotta a denti stretti:
— Ereno tanto boni, poveretti!
La cicatrice
Annavo a cena lì, tutte le sere:
e intorno a quelo stesso tavolino
veniva un professore de latino,
un maestro de musica, un barbiere
e un certo generale mezzo sordo
che se chiamava… nun me ne ricordo.
Chi generale fosse era un mistero;
ma pe’ noi ciabbastaveno l’impronte
d’una ferita che ciaveva in fronte
mischiata co’ le rughe der pensiero:
pe’ questo era tenuto, e co’ raggione,
in una certa considerazzione.
Nun dico mica ch’ogni cicatrice
sia una marca de fabbrica d’eroi:
ma, quelo lì, ciaveva er tipo, eppoi
quann’uno ner parlà dice e nun dice
finisce pe’ fa’ crede pure a quello
che nemmanco je passa p’er cervello.
— Benché so’ vecchio ce ritornerei… —
diceva spesso, e nun diceva dove:
e ce parlava der cinquantanove,
e ce parlava der sessantasei,
de Garibaldi, de l’Italia unita…
ma nun parlava mai de la ferita.
Così la cosa rimaneva incerta,
e se quarcuno je lo domannava
invece de risponne ce se dava
una gran botta co’ la mano aperta, e barbottava:
— Chi lo sa che un giorno nun dica tutto?… —
E se guardava intorno.
Ma quer giorno, però, nun venne mai:
e er vecchio, come fu come nun fu,
tutt’in un botto nun se vidde più:
cosa che all’oste j’arincrebbe assai
perché nun solo je voleva bene,
ma j’avanzava più de quattro cene.
Finché una sera, doppo quarche mese,
mentre stavamo a cena tutti quanti,
s’aprì la porta e ce se fece avanti
una povera vecchia che ce chiese:
— Scusate tanto: — dice — è in de ‘sto sito
che veniva er mi’ povero marito?
— Chi? — chiese l’oste — quer vecchietto, forse
co’ quela cicatrice? er generale? —
La vecchia a ‘ste parole restò male,
ma lì pe’ lì nessuno se n’accorse.
— Be’, — dice — l’antro giorno a l’improviso,
Dio ce ne scampi, è annato in Paradiso.
Lassù, purtroppo! — E con un viso affritto
che veramente ce commosse a tutti,
arzò le braccia verso li preciutti
attaccati sur trave der soffitto.
— Lassù, purtroppo! E nun c’è più riparo,
povero Checco ch’era tanto caro!
Un vero galantomo: tanto onesto
che all’urtimi momenti m’ha chiamato
pe’ via d’un certo conto ch’ha lasciato…
— Oh, nun è er caso de parlà de questo!
— je disse l’oste — Senza comprimenti:
una sciocchezza… Diciannove e venti! —
Doppo un silenzio che durò un minuto
s’arzò er barbiere e disse: — È doveroso
che, ar vecchio eroe modesto e valoroso
je venga dato l’urtimo saluto!
È cór core strazziato che m’inchino
tanto ar sordato quanto ar cittadino!
E, per te, che rimani ne le pene,
per te, povera vedova der morto,
chi trova una parola de conforto?
Iddio lo sa se je volevi bene!
— Ah, questo è certo! — sospirò la vecchia —
J’avrei portato l’acqua co’ l’orecchia!
Stavamo sempre come pappa e cacio;
tutte le sere, prima d’annà a letto,
se facevamo er solito goccetto:
Addio Nina… addio Checco… damme un bacio…
In sessantanni e più, solo una vorta
avemo liticato fôr de porta.
E fu precisamente in una festa:
mentre ballavo con un bersajere,
povero Checco me tirò un bicchiere
e io je detti una bottija in testa:
lo presi in fronte, disgrazziatamente,
e je restò lo sfreggio permanente!
Er pudore
In fonno all’orto c’è un pupazzo antico;
un gueriero de marmo, tutto ignudo:
co’ la spada e lo scudo
e la foja de fico.
Una Lumaca scivola e je striscia
su la parte più lucida e più liscia
e se ferma in un posto che nun dico…
Ossia lo dico subbito, perché
co’ quarche moralista c’è pericolo
che vada cór pensiero a chi sa che!
Se tratta der bellicolo.
Ecco che un Ragno nero,
ch’ha filato una tela rilucente
da la spada a la testa der gueriero,
(l’ha fatto certamente
pe’ regolà l’azzione cór pensiero),
je va incontro e je chiede: — E indove vai?
Una Lumaca onesta nun fa mai
passeggiate sur genere de questa:
se poi perdi la stima, come fai? —
A la parola stima
la Lumaca s’imbroja, se confonne:
poi, risoluta, corre e s’annisconne
sotto a la foja che v’ho detto prima.
E dice ar Ragno: — Vedi, amico mio?
Ho conosciuto un sacco de signore
che in certi casi sarveno er pudore
co’ lo stesso sistema che ciò io…
L’onore
— Povera società senza giudizzio!
Povera nobbirtà senza decoro!
— diceva un Rospo verde in campo d’oro
dipinto su uno stemma gentilizzio. —
Che diavolo direbbe l’antenato
se doppo dieci secoli a di’ poco
sapesse ch’er nepote vince ar gioco
cór mazzo de le carte preparato?
— Va’ là! — je fece un’Aquila d’argento
appiccicata su lo stemma stesso. —
Quel’antenato che stimamo adesso
nun era che un teppista der Trecento.
È er tempo che nobbilita: per cui
è inutile che peni e te ciaffanni.
Er nipote che rubba, tra mill’anni,
diventa un antenato puro lui.
La poesia
Appena se ne va l’urtima stella
e diventa più pallida la luna
c’è un Merlo che me becca una per una
tutte le rose de la finestrella:
s’agguatta fra li rami de la pianta,
sgrulla la guazza, s’arinfresca e canta.
L’antra matina scesi giù dar letto
co’ l’idea de vedello da vicino,
e er Merlo, furbo, che capì el latino
spalancò l’ale e se n’annò sur tetto.
— Scemo! — je dissi — Nun t’acchiappo mica… —
E je buttai du’ pezzi de mollica.
— Nun è — rispose er Merlo —
che nun ciabbia
fiducia in te, ché invece me ne fido:
lo so che nun m’infili in uno spido,
lo so che nun me chiudi in una gabbia:
ma sei poeta, e la paura mia
è che me schiaffi in una poesia.
È un pezzo che ce scocci co’ li trilli!
Per te, l’ucelli, fanno solo questo:
chiucchiù, ciccì, pipì… Te pare onesto
de facce fa’ la parte d’imbecilli
senza capì nemmanco una parola
de quello che ce sorte da la gola?
Nove vorte su dieci er cinguettio
che te consola e t’arillegra er core
nun è pe’ gnente er canto de l’amore
o l’inno ar sole o la preghiera a Dio:
ma solamente la soddisfazzione
d’avé fatto una bona diggestione.
Sogni
Da un anno, ogni notte, m’insogno e me pare
d’annà in un castello
che guarda sur mare;
nun sogno che quello.
C’è Pietro, er portiere, ch’appena me vede
se leva er cappello, s’inchina e me chiede:
— Sta bene, Eccellenza? Sta bene, padrone? —
E tutto contento richiude er portone.
Qualunque portiere che v’apre la notte
ve manna a fa’ fotte;
invece c’è Pietro che sente er bisogno
de dimme ‘ste cose gentile e sincere
che solo da questo capisco ch’è un sogno.
Che bravo portiere!
Er mastro de casa, ch’è un vecchio mezzano,
m’insegna una porta, me bacia la mano
eppoi sottovoce me dice: — È arrivata
la donna velata…
— Ma quale? — je chiedo — la pallida, forse,
che stava a le corse?
o quela biondina coll’abbito giallo
ch’ho vista in un ballo? —
È commodo e bello
d’avecce un castello
nascosto ner sonno,
ché armeno, la notte, ce faccio l’amore
co’ tante signore
ch’er giorno nun vonno.
— Der resto lei stessa,
signora duchessa,
co’ tutta la posa
superba e scontrosa,
m’accorgo che in sogno me tratta un po’ mejo
de quanno sto svejo.
Nun solo me guarda, ma spesso me dice:
— So’ propio contenta! So’ propio felice! —
— Davero? — je chiedo — ma allora perché
nun resti co’ me? —
E appena m’accorgo ch’ariva er momento
de dije sur serio l’amore che sento,
m’accosto, l’agguanto, la bacio…
Ma allora me strilla:
— Sta’ bono. No, no… Me vergogno!… —
E solo da questo capisco ch’è un sogno;
che brava signora!
Nun ciò che un amico, sincero e leale,
che dice le cose papale papale,
che quanno ho bisogno de questo o de quello
s’investe e m’aiuta, da vero fratello.
È a lui che confido le gioje e le pene
perché me capisce, perché me vô bene…
Infatti ogni notte lo vado cercanno
ner vecchio castello che sogno da un anno.
Er matto
Er vecchio Matto gira pe’ la villa
ne le sere d’estate senza luna,
acchiappa a volo e infila una per una
tutte le Lucciolette in una spilla.
Ogni tanto la gente, pe’ vedello,
s’arampica a le spranghe der cancello:
— Che fai? — je chiede. E er vecchio je risponne
— Smorzo le Lucciolette vagabbonne.
Perché dar foco che me mise in core
quela birbona che nun è più mia
una favilla se n’agnede via
e s’è cambiata in Lucciola d’amore.
Così successe questo: a poco a poco
er core mio rimase senza foco,
mentre la Luccioletta ch’è sortita
ancora se la gode e fa la vita.
Io so’ convinto che me vola intorno
pe’ ricordamme l’epoca più bella
che, invece d’una povera fiammella,
ciavevo er core illuminato a giorno:
ma ormai, purtroppo, ho perso la fiducia
in una fiamma ch’arde e nun abbrucia,
e me dispiace che me porti in giro
l’urtimo bacio e l’urtimo sospiro.
Però…
In un Paese che nun m’aricordo
c’era una vorta un Re ch’era riuscito
a mette tutto er popolo d’accordo
e a unillo in un medesimo partito
ch’era quello monarchico, percui
era lo stesso che voleva lui.
Quanno nasceva un suddito, er governo
je levava una glandola speciale
per aggiustaje er sentimento interno
seconno la coscenza nazzionale,
in modo che crescesse ne l’idea
come un cocchiere porta una livrea.
Se cercavi un anarchico, domani!
macché, nu’ ne trovavi più nessuno
né socialisti né repubbricani
manco a pagalli mille lire l’uno:
qualunque scampoletto d’opinione
era venduto a prezzo d’occasione.
Certi principî, in fonno, so’ un rampino,
e li partiti, quanno semo ar dunque,
serveno pe’ da’ sfogo ar cittadino
che spera in una carica qualunque
e acchiappa, ne la furia de l’arrivo,
l’ideale più spiccio e sbrigativo.
Pe’ questo, in quer Paese che v’ho detto,
viveveno così, ch’era un piacere:
senza un tiret’in là, senza un dispetto,
ammaestrati tutti d’un parere.
Chi la pensava diferentemente
passava per fenomeno vivente.
Er popolo, ogni sera, se riuniva
sotto la Reggia pe’ vedé er Sovrano
ch’apriva la finestra fra l’evviva
e s’affacciava tra li sbattimano,
finacché nun pijava la parola
come parlasse a una persona sola.
— Popolo! — je chiedeva — Come stai? —
E tutto quanto er popolo de sotto
j’arisponneva in coro: — Bene assai!
Ce pare d’avé vinto un terno al lotto! —
E er Re, contento, doppo aveje detto
quarch’antra cosa, li mannava a letto.
Ècchete che una sera er Re je chiese:
— Sete d’accordo tutti quanti? — E allora
da centomila bocche nun s’intese
che un «Sì» allungato, che durò mezz’ora.
Solamente un ometto scantonò
e appena detto «Sì» disse «Però…».
V’immagginate quelo che successe!
— Bisogna bastonallo! — urlò la folla —
L’indecisioni nun so’ più permesse
sennò ricominciamo er tir’e molla…
— Lasciate che me spieghi, eppoi vedremo…
— disse l’ometto che nun era scemo. —
Defatti, appena er Re cià domannato
s’eravamo d’accordo, j’ho risposto
ner modo ch’avevamo combinato;
ma un bon amico che me stava accosto,
pe’ fasse largo, propio in quer momento
m’ha acciaccato li calli a tradimento.
Io, dunque, nun ho fatto una protesta:
quer «però» che m’è uscito in bona fede
più che un pensiero che ciavevo in testa
era un dolore che sentivo ar piede.
Però – dicevo – è inutile, se poi
se pistamo li calli fra de noi.
Quanno per ambizzione o per guadagno
uno nun guarda più dove cammina
e monta su li calli der compagno
va tutto a danno de la disciplina… —
Fu allora che la folla persuasa
disse: — Va be’… Però… stattene a casa.
Per cui…
Er solleone abbrucia la campagna,
la Cecala rifrigge la canzone
e er Grillo scocciatore l’accompagna.
— È la solita lagna! —
dico fra me: ma poi
penso che pure noi,
chi più chi meno, semo tutti quanti
sonatori ambulanti.
Perché ciavemo tutti in fonno ar core
la cantilena d’un ricordo antico
lasciato da una gioja o da un dolore.
Io, quella mia, me la risento spesso:
ve la potrei ridì… ma nu’ la dico.
Nun faccio er cantastorie de me stesso.
Er pensiero
Qualunque sia pensiero me viè in mente,
prima de dillo, aspetto e, grazzi’a Dio,
finché rimane ner cervello mio
nun c’è nessuno che me pô di’ gnente.
Ma s’opro bocca e je do fiato, addio!
L’idea, se nun confinfera a la gente,
me pô fa’ nasce quarche inconveniente
e allora er responsabbile so’ io.
Per questo, ner risponne a quarche amico
che vorebbe sapé come la penso,
peso e misuro tutto quer che dico.
E metto tra er pensiero e la parola
la guardia doganale der bon senso
che me sequestra er contrabbanno in gola.
L’adulterio
I
Che l’amore sia bello ve l’ammetto,
ma quanno sur più mejo ve sentite
un commissario che ve strilla: — Aprite!
in nome de la legge!… — cambia aspetto!
Io che stavo co’ Jole… me capite…
come sento accosì, zompo dal letto,
corro verso la porta e da un bucetto
intravedo du’ guardie travestite.
Aprite, aprite! Eh, già! se dice presto!
Se m’acchiappava in quele condizzioni
me dichiarava subbito in aresto.
Fra lei che se strappava li capelli
e io che nun trovavo li carzoni…
Che momenti teribbili so’ quelli!
II
Come Dio volle, aprii la porta e allora
er commissario entrò coll’antri appresso.
Io feci er tonto. Dico: — E ch’è successo
pe’ venimme a chiamà propio a quest’ora?
— Voi — dice — state qui co’ la signora…
C’è la querela der marito stesso…
— Ma scusi, — dico — che nun è permesso,
de faje compagnia mentre lavora?
— Be’, — dice — favorischino co’ noi…
— In questura? e perché? — dico — Bisogna
ch’io spieghi prima… — Spiegherete poi! —
Intanto, Jole, pallida e confusa
singhiozzava: — Addio onore! Ah che vergogna!
Ce fosse armeno una carrozza chiusa! —
III
Ma er momento più brutto fu er passaggio
tra la folla che stava sur portone:
gente, te dico, senza educazzione,
che nemmanco fra un popolo servaggio.
Dice: — Nun vedi lei? pare un trombone!
— Cià pensato abbonora a piantà maggio!
— E lui, me lo saluti? Che coraggio!
— Se vede che je vanno le tardone… —
Basta: in questura nun ciagnede male
pe’ via che nun ce còrsero in fragante,
ma er fatto venne messo sur giornale.
Diceva chiaramente: «La scenata
de la moje infedele co’ l’amante,
presa col sorcio in bocca in via Privata!»
IV
Che pe’ sarvà l’onore d’un marito
rincojonito — giusto ce fa rima, —
ce sia bisogno de ‘sta pantomima,
io, francamente, nu’ l’ho mai capito.
Quanno l’onore è perso è bell’e ito;
ma, se la gente nu’ lo sa e ve stima,
voi rimanete tale e quale a prima
e sete rispettato e riverito.
Dunque a che giova sputtanà una fija,
che se azzeccava de sposa un antr’omo
era una bona madre de famija,
e dà raggione a lui che j’aritorna
la smania de sentisse gentilomo
solo quanno je rodeno le corna?
Er pensiero politico
uno che svicola…
Tu voressi sapé s’io so’ propenso
e me lo chiedi propio sur tran vai!
Da la stessa domanna che me fai
capisco che già sai come la penso.
Ecco… vedi… però… forse… se mai…
Io dico pane ar pane, ma in compenso
so’ stato sempre un omo de bon senso
perché me piace l’ordine e lo sai.
Dunque, su questo qui, nun se discute
che essenno tutti quanti d’un pensiero
ciavemo le medesime vedute.
Der resto, tu, m’hai bello che capito…
Dico bene? A proposito… ma è vero
che Giggia s’è divisa dar marito?
La crisi de coscenza
La crisi de coscenza pô succede
da un dubbio che te rode internamente:
come ridà la fede a un miscredente,
pò rilevalla a quello che ce crede.
In politica è eguale. Quanta gente,
che ciaveva un principio in bona fede,
s’accorge piano piano che je cede
e je viè fòra tutto diferente?
Te ricordi de Checco er communista
che voleva ammazzà de prepotenza
tutta la borghesia capitalista?
Invece, mó, la pensa a l’incontrario:
e doppo quarche crisi de coscenza
s’è comprato un villino a Monte Mario.
Er martire de l’idea
Guarda la testa mia ch’è diventata!
so’ tutte cicatrice. Vedi questa?
Fu quanno scrissi, in segno de protesta,
«Viva Oberdan!», davanti a l’Ambasciata.
Qua su… fu un clericale, in una festa;
più giù, ‘na guardia, in una baricata;
e ‘sta ficozza in mezzo, una sassata
d’un communista, che me prese in testa.
Qui, fu a un comizzio; questa, in un corteo…
E tu, doppo ‘ste buggere, me chiedi
come la penso adesso? Marameo!
Co’ la testa che ciò nun è possibbile
qualunque sia pensiero… Nu’ lo vedi?
Mancherebbe lo spazzio disponibbile!
Lo «smemorato»
Cosa vôi che ce stia drento un cervello
d’un omo che se scorda d’esse lui,
che nun conosce più l’amichi sui
né socera, né moje, né fratello?
E tutti ‘sti scenziati de cartello
che sanno legge ner pensiero artrui
ch’hanno capito? cavoli! Per cui
che je fa de sapé s’è questo o quello?
Eppoi succede spesso e volentieri
ch’ogni tanto quarcuno, pe’ prudenza,
se scorda quer che è stato infino a jeri.
Una prova lampante è er mi’ padrone:
da quanno che lo chiameno eccellenza
nun se ricorda più d’esse un cojone.
La stretta de mano
Quela de da’ la mano a chissesia
nun è certo un’usanza troppo bella:
te pô succede ch’hai da strigne quella
d’un ladro, d’un ruffiano o d’una spia.
Deppiù la mano, asciutta o sudarella,
quanno ha toccato quarche porcheria,
contiè er bacillo d’una malatia
che t’entra in bocca e va ne le budella.
Invece, a salutà romanamente,
ce se guadagna un tanto co’ l’iggene
eppoi nun c’è pericolo de gnente.
Perché la mossa te viè a di’ in sostanza:
— Semo amiconi… se volemo bene…
ma restamo a una debbita distanza. —
L’aresto der commendatore
La sera de l’aresto, l’inquilini
ereno esciti tutti pe’ le scale;
— Eh, — dice — se capiva! — È naturale!
— Ecco come se fanno li quatrini!
— Da un pezzo in qua faceva un lusso tale…
— E carozza… e automobbili… e villini…
— E la moje? Che anelli! che orecchini!
— Io lo dicevo che finiva male… —
E quanno scese assieme ar delegato
nessuno seppe dije una parola
che l’avesse un pochetto incoraggiato.
Nessuno! Solamente la portiera
ch’era rimasta in fonno a la guardiola
pensò a le mance e disse: — Bona sera!
Er sogno bello
I
— Macché! — je disse subbito er dottore —
Qui nun se tratta mica d’anemia!
È gravidanza, signorina mia:
soliti incertarelli de l’amore! —
Pe’ Mariettina fu una stretta ar core:
— So’ rovinata! Vergine Maria!
Madonna santa, fate che nun sia!
Nun potrei sopportà ‘sto disonore! —
Ma appena vidde ch’era propio vero
corse da Nino. — Nun è gnente! — dice —
Se leveremo subbito er pensiero.
Ce vô la puncicata. Domatina
te porto da ‘na certa levatrice
che già l’ha fatto a un’antra signorina. —
II
La sera Mariettina agnede a letto
coll’occhi gonfi e con un gnocco in gola,
e s’anniscose sott’a le lenzola
pe’ piagne zitta, senza da’ sospetto.
Poi pijò sonno e s’insognò un pupetto
che je diceva: — Se te lascio sola,
povera mamma mia, chi te consola
quanno t’invecchierai senza un affetto? —
E, sempre in sogno, je pareva come
se er fijo suo crescesse a l’improviso
e la baciava e la chiamava a nome…
Allora aperse l’occhi adacio adacio
e s’intese una bocca accanto ar viso,
che la baciava co’ lo stesso bacio.
III
Era la madre. — Mamma, mamma bella! —
E se la strinse ar petto. — Amore santo!
Che t’insognavi che parlavi tanto
e facevi la bocca risarella?
Però ciai l’occhi come avessi pianto…
Dimme? che t’è successo? — E pe’ vedella
più mejo in faccia, aprì la finestrella
e fece l’atto de tornaje accanto.
S’intese un fischio. — Mamma! questo è lui
che sta aspettanno sotto l’arberata…
Dije che vada pe’ li fatti sui.
Anzi faje capì che se l’onore
se pô sarvà con una puncicata
preferisco de dajela ner core.
All’ombra
Mentre me leggo er solito giornale
spaparacchiato all’ombra d’un pajaro,
vedo un porco e je dico: — Addio, majale! —
vedo un ciuccio e je dico: — Addio, somaro —
Forse ‘ste bestie nun me capiranno,
ma provo armeno la soddisfazzione
de potè di’ le cose come stanno
senza paura de finì in priggione.
Er nemmico
Un Cane Lupo, ch’era stato messo
de guardia a li cancelli d’una villa,
tutta la notte stava a fa’ bubbù.
Perfino se la strada era tranquilla
e nun passava un’anima: lo stesso!
nu’ la finiva più!
Una Cagnola d’un villino accosto
je chiese: — Ma perché sveji la gente
e dài l’allarme quanno nun c’è gnente? —
Dice: — Lo faccio pe’ nun perde er posto.
Der resto, cara mia,
spesso er nemmico è l’ombra che se crea
pe’ conservà un’idea:
nun c’è mica bisogno che ce sia.
La Libbertà
– Ched’è la Libbertà? Mò te lo spiego:
– diceva Menepijo a Menefrego –
la Libbertà d’un popolo è compagna
all’acqua che viè giù da la montagna.
Se la lasci passà dove je pare
se spreca ne li fiumi fino ar mare:
ma se c’è chi la guida e la riduce
e l’incanala verso l’officina,
appena arriva smove la turbina,
diventa forza e se trasforma in luce.
– Bella scoperta! Grazzie der consijo!
– rispose Menefrego a Menepijo –
Ma quanno l’acqua ha smosso ner cammino
una centrale elettrica o un mulino,
se canta o se barbotta nun è male
lasciaje un po’ de sfogo naturale.
L’incrocio
Una Cavalla disse a un Somarello:
– No, co’ te nun ce sto: vattene via.
Io vojo un maschio de la razza mia,
nobbile, arzillo, fumantino e bello.
– Pur’io – rispose er Ciuccio – vojo bene
a una certa Somara montagnola
ch’ammalappena dice una parola
me sento bolle er sangue ne le vene.
Ma qui se tratta che a l’allevatore,
che bontà sua cià fatto trovà assieme,
Je serveno li muli e nun je preme
se li famo per forza o per amore.
De dietro a l’ideale e ar sentimento
lo sai che c’è? l’industria mulattiera.
Dunque, damoje sotto e bona sera,
chiudemo un occhio e famolo contento.
L’Omo e l’Arbero
Mentre segava un Arbero d’Olivo
un Tajalegna intese ’sto discorso:
– Un giorno, forse, proverai er rimorso
de trattamme così, senza motivo.
Perché me levi da la terra mia?
Ciavressi, gnente, er barbero coraggio
de famme massacrà come quer faggio
che venne trasformato in scrivania?
– Invece – j’arispose er Tajalegna –
un celebre scurtore de cartello,
che lavora de sgurbia e de scarpello,
te prepara una fine assai più degna.
Fra poco verrai messo su l’artare,
te porteranno in giro in processione,
insomma sarai santo e a l’occasione
farai quanti miracoli te pare.
L’Arbero disse: – Te ringrazzio tanto:
ma er carico d’olive che ciò addosso
nun te pare un miracolo più grosso
de tutti quelli che farei da santo?
Tu stai sciupanno troppe cose belle
in nome de la Fede! T’inginocchi
se vedi che un pupazzo move l’occhi
e nun te curi de guardà le stelle! –
Appena j’ebbe dette ’ste parole
s’intravidde una luce a l’improviso:
un raggio d’oro: Iddio dar Paradiso
benediceva l’Arbero cór Sole.
Er miracolo
C’era una vorta un poverello muto
che volenno di’ male d’un Governo,
agnede a messa e chiese ar Padreterno
la grazzia de parlà per un minuto.
— Fate, o Signore, che, per un momento,
je dica chiaro come me la sento…—
E er Padreterno, ch’è bontà infinita,
lo fece riparlà tutta la vita.
La morale
Una bella matina er direttore
d’un Giardino Zoologgico vestì
le scimmie, le scimmiette e li scimmioni
co’ li carzoni de tela cachì.
Una vecchietta disse: – Meno male!
ché armeno nun vedremo certe scene…
Er direttore l’ha pensata bene:
se vede che je preme la morale… –
Una Scimmia, che stava ne la gabbia
tutta occupata a rosicà una mela,
intese e disse: – Ammenochè nun ciabbia
un parente che fabbrica la tela…
Libbro muto
Ner mobbiletto antico, che comprai
tant’anni fa da un antiquario in Ghetto,
c’era, sott’a la tavola, un cassetto
che tira tira nun s’apriva mai:
finché scoprii er segreto e fu una sera
che nun volenno spinsi una cerniera.
Subbito, da la parte de l’intacco,
la tavoletta fece un mezzo giro
e er cassetto s’aprì con un sospiro
ch’odorava de pepe e de tabbacco.
Guardai ner fonno e viddi in un incastro
un libbro intorcinato con un nastro.
Un libbro rosso rilegato in pelle
dove spiccava, tra li freggi d’oro,
un’arma gentilizzia con un toro
e un mago che giocava co’ tre stelle:
e, sott’all’arma, er titolo in cornice:
«La Regola per vivere felice».
— Dati li tempi, — dissi — è una fortuna! —
Ma in tutt’er libbro nun trovai nemmanco
una parola scritta. Tutto bianco.
Riguardai le facciate, una per una:
zero via zero. E chi sarà er sapiente
che fece un libbro senza scrive gnente?
L’avrà lasciato in bianco co’ l’idea
de minchionà la gente che lo sfoja,
o avrà capito che la vera gioja
finisce ner momento che se crea?
Era un matto o un filosofo? Chissà
come sognava la felicità?
Le parole inutili
Er Pappagallo, tutto soddisfatto
magna un biscotto silenziosamente. —
Perché nun parli mai? — je chiede un Gatto —
Com’è che nun t’insegneno a di’ gnente?
S’io fossi quer che sei
quarche parola me l’imparerei. —
Er Pappagallo cór ciuffetto dritto
spalanca l’ale e se le sgrulla ar sole;
poi dice ar Gatto: — Più che le parole,
ho imparato a sta’ zitto.
È inutile che insisti. Addio, Miciotto! —
E se rimette a rosicà er biscotto.
La gloria
Una notte d’estate m’insognai
de trovamme in un tempio, sopr’a un monte,
dove la Gloria me baciava in fronte
co’ tanta forza che me ce svejai.
E feci propio bene: se per caso
nun spalancavo l’occhi ar punto giusto,
la vespa, che ciaveva preso gusto,
me dava un antro pizzico sur naso.
Sensibbilità
A la Gallina, povera bestiola,
j’hanno ammazzato er Pollo.
Un vecchio Gatto, che s’è trovato ar fatto,
je porta la notizzia e la consola:
— Nun ha fiatato, nun ha detto un’a!
Da sì che monno è monno, nessun pollo
s’è fatto tirà er collo
co’ tanta dignità. —
La vedova sospira e se commove:
— Chi è stato? er coco? Sempre quel’infame!
E dove me l’ha cotto? — Ner tegame,
co’ le patate nove…—
Come mi’ padre! Puro lui, ‘st’inverno,
finì sopra un bracere de carbone,
che pareva un inferno…
— Macché: — je dice er Gatto — er mi’ padrone
cià la cucina a gasse. E che cucina!
— Mbè, meno male — fiotta la Gallina —
che armeno j’hanno usato ‘st’attenzione.
Acqua e vino
Se certe sere bevo troppo e er vino
me ne fa quarchiduna de le sue,
benché sto solo me ritrovo in due
con un me stesso che me viè vicino
e muro-muro m’accompagna a casa
pe’ sfuggì da la gente ficcanasa.
Io, se capisce, rido e me la canto,
ma lui ce sforma e pe’ de più me scoccia:
— Nun senti che te gira la capoccia?
Quanno la finirai de beve tanto?
— È vero, — dico — ma pe’ me è una cura
contro la noja e contro la paura.
Der resto tu lo sai come me piace!
Quanno me trovo de cattivo umore
un bon goccetto m’arillegra er core,
m’empie de gioja e me ridà la pace:
nun vedo più nessuno e in quer momento
dico le cose come me la sento.
— E questo è er guajo! — dice lui — Più bevi
più te monti la testa e più discorri
e nun pensi ar pericolo che corri
quanno spiattelli quello che nun devi;
sei sincero, va be’, ma ar giorno d’oggi
come rimani se nun ciai l’appoggi?
Impara da Zi’ Checco: quello è un omo
ch’usa prudenza e se controlla in tutto:
se pensa ch’er compare è un farabbutto
te dice ch’er compare è un galantomo,
in modo ch’er medesimo pensiero
je nasce bianco e scappa fòri nero.
Tu, invece, quanno bevi co’ l’amichi,
svaghi, te butti a pesce e nun fai caso
se ce n’è quarchiduno un po’ da naso
pronto a pesà le buggere che dichi,
che magara t’approva e sotto sotto
pija l’appunti e soffia ner pancotto.
Stasera, a cena, hai detto quela favola
der Pidocchio e la Piattola in pensione:
ma te pare una bell’educazzione
de nominà ‘ste bestie propio a tavola
senza nemmanco un occhio de riguardo
pe’ l’amichi che magneno? È un azzardo!
Co’ tutto che c’è sotto la morale
la porcheria rimane porcheria:
e se quarcuno de la compagnia
se sente un po’ pidocchio, resta male.
Co’ la piattola è peggio! Quanta gente
vive sur pelo e nun sapemo gnente?
Le verità so’ belle, se capisce,
ma pure in quelle ciabbisogna un freno.
Eh! se ner monno se parlasse meno
quante cose annerebbero più lisce!
Ch’er Padreterno te la marmi bona
da li discorsi fatti a la carlona! —
E ammalappena er vino che ciò in testa
sfuma nell’aria e me ritrovo solo
capisco d’avé torto e me consolo
che in un’epoca nera come questa
s’incontri ancora quarche bon cristiano
che, se sto pe’ cascà, me dà una mano.
Sogno
Jernotte m’insognai
che intrufolavo er muso
in un cancello chiuso,
che nun s’apriva mai.
Vedevo un ber giardino
e stavo co’ l’idea
de coje un’azalea
ner vaso più vicino.
Ma, propio ner momento
ch’allungavo la mano
m’ariva da lontano
come un bombardamento.
Me svejo tra li lampi
che m’entreno nell’occhi:
che furmini, che scrocchi,
che tempo, Dio ce scampi!
Pensai: — C’era bisogno
de fa’ tanto rumore
perché rubbavo un fiore
ner giardino der Sogno?
L’eco
Ve ricordate l’Eco
che passava la notte
sotto l’arcate rotte
der vicoletto ceco?
Doppo l’urtimi sfratti
fu l’Eco che rimase
ner vôto de le case
a piagne co’ li gatti:
finché, persa la voce,
restò disoccupato
ner vicolo sbarrato
da du’ palanche in croce.
Ma er giorno ch’er piccone
spianò le catapecchie,
l’Eco appizzò l’orecchie,
scappò da la priggione.
E in mezzo a quer via-vai
de carri e de cariole
in un mare de sole
che nun finiva mai,
s’intese più leggero
e corse a fa’ le gare
appresso a le fanfare
su la via de l’Impero.
Allora solamente
capì che ne la vita
senza una via d’uscita
nun se combina gnente.
Er nano diplomatico
Re Bomba era severo, ma in compenso
quanno vedeva Picchiabbò er buffone,
un vecchio Nano pieno de bon senso
e sincero secondo l’occasione,
incominciava a ride e er bon umore
riusciva sempre a intenerije er core.
Er Re, una notte, propio sur più bello
che s’era scatenato un temporale,
strillava: — Qua finisce in un macello!
in un acciaccapisto generale!
A me la spada! A me er cimiero! Alé!
La corazza, lo scudo! Tutto a me! —
Ammalappena Picchiabbò s’accorse
che discoreva solo come un matto,
je chiese: — Sire, a che ripensi? forse
a quer discorso storico ch’hai fatto
quanno li cortiggiani hanno saputo
che un sorcio ha rosicato lo Statuto?
— Ma che Statuto! La questione è seria:
se tratta invece d’affrontà er nemmico! —
disse er Sovrano: e doppo un’improperia
se dette una tirata ar pappafico;
ché er Re faceva sempre quela mossa
quanno capiva de sparalla grossa.
— Sappi — je disse poi — che stammatina
un’Ape ch’era entrata ne la serra
ha dato un bacio in bocca a la Reggina!
Nun c’è gnente da fa’: ce vô la guerra!
Vojo che tutte l’Ape a mille a mille
venghino trapassate da le spille.
Purché nun piova troppo o tiri vento
domani stesso parlerò a la folla
su la portata de l’avvenimento
e la farò scattà come una molla!
L’ora è solenne: è bene ch’er Paese
s’armi, combatta e vendichi l’offese! —
La prima idea che venne in mente ar Nano
fu quella de parlaje chiaramente;
voleva dije: «Sire, vacce piano:
guardamo se c’è tutto l’occorente,
ché spesso nun se pensa e nun s’abbada
che li nemmichi crescheno pe’ strada.
L’Ape so’ tante, più de quer che pare:
e se domani fanno un’alleanza
co’ le Mosche, le Vespe e le Zanzare,
un’incursione sola basta e avanza;
ché tra pizzichi e mozzichi in du’ botte
ce fanno un grugno come un’or’ de notte.
Eppoi ce stanno le materie prime:
perché se l’Ape nun ce manna er miele
chi fa li pasticcetti der reggime?
E se manca la cera? Addio candele!
Er popolo rimane de sicuro
a bocca asciutta e perdeppiù a lo scuro.
Tu, che studi le cose a tavolino
e vedi tutto chiaro e tutto tonno,
piji l’abbonamento cór destino
spalanchi la finestra e parli ar monno,
ma appena la richiudi e te ritiri
cominceno li lagni e li sospiri.»
Er Nano, invece, se ne stette zitto,
e da bon diplomatico com’era
je disse: — Sire, sei ner tu’ diritto.
Nun te scordà, però, che a primavera,
se l’Ape vede un fiore, je va addosso
e lo succhia e lo lecca a più nun posso.
E dove c’è ‘na rosa profumata
mejo de la Reggina? nu’ la senti
che quanno passa lascia la passata
da fa’ scombussolà li sentimenti?
L’Ape ch’avrà sentito quel’odore
ha pijato la bocca per un fiore. —
A ‘st’uscita Re Bomba perse er fiato,
e queli stessi muscoli der viso
che prima lo teneveno inciurmato
spianarono le rughe a l’improviso,
e fu in quer gioco de fisonomia
che ritornò la pace e l’allegria.
— ‘Sta vorta tanto, ne faremo a meno… —
disse er Sovrano, e s’affacciò a la loggia.
Guardò per aria: er celo era sereno.
La luna, rinfrescata da la pioggia,
rideva più der solito e le stelle
pareveno più limpide e più belle.
La ricetta maggica
Rinchiuso in un castello medievale,
er vecchio frate co’ l’occhiali d’oro
spremeva da le glandole d’un toro
la forza de lo spirito vitale
per poi mischiallo, e qui stava er segreto,
in un decotto d’arnica e d’aceto.
E diceva fra sé: — Co’ ‘st’invenzione,
che mette fine a tutti li malanni,
un omo camperà più de cent’anni
senza che se misuri la pressione
e se conserverà gajardo e tosto
cór core in pace e co’ la testa a posto.
Detto ch’ebbe così, fece una croce,
quasi volesse benedì er decotto;
ma a l’improviso intese come un fiotto
d’uno che je chiedeva sottovoce:
— Se ormai la vita è diventata un pianto
che scopo ciai de fallo campà tanto?
Devi curaje l’anima. Bisogna
che, invece d’esse schiavo com’è adesso,
ridiventi padrone de se stesso
e nun aggisca come una carogna;
pe’ ritrovà la strada nun je resta
che un mezzo solo e la ricetta è questa:
«Dignità personale grammi ottanta,
sincerità corretta co’ la menta,
libbertà condensata grammi trenta,
estratto depurato d’erba santa,
bonsenso, tolleranza e strafottina:
(un cucchiaro a diggiuno ogni matina)».
Nummeri
— Conterò poco, è vero:
— diceva l’Uno ar Zero —
ma tu che vali? Gnente: propio gnente.
Sia ne l’azzione come ner pensiero
rimani un coso vôto e inconcrudente.
Io, invece, se me metto a capofila
de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
È questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso.
Soffitto
In cammera da letto, sur soffitto,
c’è dipinta una Venere che dorme,
Apollo nudo, Marte in uniforme
accosto a un Bacco che nun sta più dritto
e a cavacecio d’ una nuvoletta
l’Amore che je tira una saetta.
La pittura era antica, ma da un anno
è diventata quasi futurista
pe’ via ch’er lavandino der dentista,
ch’abbita sopra a me, faceva danno,
e a furia de patacche e sbavature
m’ha scombinato tutte le figure.
Venere stessa nun s’ariconosce,
l’Apollo m’è rimasto senza lira,
l’Amore fa la mossa ma nun tira
e Marte cià tre bozzi su le cosce.
Se l’è cavata Bacco solamente
e in questo l’acqua è stata inteliggente.
E mó, come me svejo la matina,
ripenso a ’ste figure e me ciaccoro,
perché li confidavo solo a loro
li sogni che facevo a la supina,
quanno m’immagginavo che la vita
fosse una strada commoda e pulita.
E allora fumo. Fumo finattanto
che me resta la cammera annebbiata:
ogni illusione persa è una boccata
ch’esce con un sospiro de rimpianto,
e sento quasi l’inutilità
de quer ch’è stato e quello che sarà.
Ma appena che intravedo er dio der vino
ch’arza er bicchiere e ride come un matto,
scivolo giù dal letto e dettofatto
spalanco la finestra der giardino,
e mentre guardo er fumo che va via
me bevo er sole e m’empio d’allegria.
Scocciacò
I
Vonno la libbertà? Je la darò
disse Naticchia appena fatto re
der paesetto de li Scocciacò
e dettofatto se vestì da sé
se mise la corona e s’affaccio
– Scocciacojani! – disse – Fin d’adesso
potete fà quer che ve pare e piace
compreso quello che nun è permesso;
basta però che me lassate in pace –
Er popolo strillò: – Te sia concesso!
Se terrai fede a le promesse tue
Resteremo sovrani tutt’e due.
Così cambiò er governo e tra le prime
riforme der partito libberale
fu rimpastato er Codice penale
seconno l’esiggenze der reggime
II
Ma un brutto giorno quella stessa folla
Tornò a la Reggia e improvisò un comizzio
che fece zompà er Re come una molla.
– Qua – disse – se nun métteno giudizio
Preferisco magna pane e cipolla… –
Uno parlò pe’ tutti: – Maestà!
visto e considerato che l’orchestra
che ce sòna ’sta musica nun va,
te riportamo quela libbertà
che ciài buttato giù da la finestra.
Qui ciabbisogna un omo positivo
che rinforzi er potere esecutivo.
Er re disse: – Benone! – E tra le prime
riforme der governo autoritario
fu rimpastato tutt’er calendario
seconno l’esiggenze der reggime.
III
Però nun finì lì. Doppo quarc’anno
ch’er nmacchinario funzionava male
er popolo s’accorse de l’inganno
nun volle più sentì l’inno reale
e principiò a strillà: – Morte ar tiranno!
Naticchia che sentì fece un fagotto
cór manto, co’ lo scettro e la corona
córse a la loggia e lo buttò de sotto.
– Che santa Pupa ve la manni bona!
che volete che speri a conti fatti
da un popolo guidato da li matti? –
Doppo d’avè risposto pe’ le rime,
la massa se divise in tre correnti
co’ dodici partiti differenti!
Seconno l’esiggenze der reggime.
Quann’ero regazzino mamma mia
Quann’ero regazzino mamma mia
me diceva: – Ricordate fijolo,
quanno te senti veramente solo
tu prova a recità ’n Ave Maria.
L’anima tua da sola pija er volo
e se solleva come pe’ maggia.
Ormai so’ vecchio, er tempo m’è volato
da un pezzo s’è addormita la vecchietta;
ma quer consiglio nun l’ho mai scordato.
Come me sento veramente solo
io prego la Madonna benedetta
E l’anima da sola pija er volo.
Alcune immagini inserite negli articoli pubblicati su TerzoPianeta.info, sono tratte dalla rete ed impiegate al solo fine informativo. Nel rispetto della proprietà intellettuale, sempre, prima di valutarle di pubblico dominio, vengono effettuate approfondite ricerche del detentore dei diritti d’autore, con l’obiettivo di ottenere autorizzazione all’utilizzo, pertanto, laddove richiesta non fosse avvenuta, seppur metodicamente tentata, si prega comprensione ed invito a domandare immediata rimozione, od inserimento delle credenziali, mediante il modulo presente nella pagina Contatti.