Atteggiamento e pregiudizio: giochi e insidie della mente
Con il sostantivo atteggiamento, generalmente si indica il comportamento assunto da un individuo o collettività, in una particolare circostanza, quindi la caratteristica forma di essere, manifestarsi e operare di un soggetto. Tuttavia, è di uso comune utilizzare il termine per sottolineare anche il modo di pensare d’una persona e in tal senso, può essere accostato all’insieme di opinioni e concetti, dal quale però lo si deve tenere ben distinto.
Per quanto si ritenga naturale che singoli e gruppi agiscano, dunque adottino comportamenti, in coerenza con le proprie idee, è evidente come spesso non sia così e scaturiscano notevoli discrepanze. Relativamente alla salute, è possibile produrre esempi eclatanti, nessuno infatti si dichiarerebbe favorevole a pratiche nocive, incoraggiando uso e abuso di tabacco e alcolici, eppure i consumatori abituali sono oltremodo numerosi, nonostante siano ormai noti gli effetti dannosi derivanti da simili abitudini.
La ragione principale della discordanza tra atteggiamento e comportamento è da considerarsi nella misura in cui, sebbene basterebbe dar rapida lettura a un qualunque vocabolario per scoprire il loro essere sinonimi, nell’accezione psicologico-sociale del termine l’atteggiamento s’identifica con la personale risposta psico-emotiva, sensoriale e comportamentale a determinate situazioni. Un costrutto mentale complesso alla cui evoluzione, fin dalla nascita, se non già allo stato fetale, s’intersecano differenti fattori condizionanti quali, in primis, il nucleo familiare in cui avviene la prima crescita ed a cui gradatamente s’affiancano lo scolastico, il lavorativo e l’ambientale in senso lato, comprensivo, quest’ultimo, della variegata sfera dei rapporti interpersonali. Ragionando in tale modo, l’atteggiamento viene ad essere considerato da un punto di vista astratto, basato quindi su concetti generali e rappresentante pertanto un mondo ideale, in base alle opinioni di ognuno ed in apparente contrapposizione alla concretezza del comportamento, manifestantesi tramite azioni concrete e visibili.
L’apparenza di contrasto fra le due umane manifestazioni, non dovrebbe tuttavia originare l’equivoco in assunto al quale atteggiamento e comportamento siano nettamente contrapposti o, peggio, antagonisti. L’interdipendenza fra gli stessi è indiscutibile, seppur in diseguale proporzionalità: essendo infatti possibile che un atteggiamento mentale non prosegua manifestandosi nel comportamento a lui consono, altrettanto impossibile è che un azione comportamentale non derivi da un atteggiamento che ne avvalli il manifestarsi, il che equivarrebbe sostenere che un movimento del corpo possa avvenire senza impulso nervoso che ne comandi il verificarsi: schietto, riduttivo e banalissimo esempio a riguardo sia il sopraggiungere d’un improvviso senso di solletico al capo ove il contesto non permetta di mettersi le mani fra i capelli (immaginando il caso d’un lavoratore in somministrazione d’alimenti): la persona in questione può infatti decidere di non rispondere allo stimolo. Il gesto del grattarsi, quando avverrà, resta sempre e comunque dipendente dallo stimolo nervoso che ha originato la sensazione del solletico; nella decisione del non farlo in determinate situazioni, vi è un igienico atteggiamento mentale di fondo che si sovrappone all’impulso nervoso, imponendo di non mettersi le mani nei capelli mentre si somministrano alimenti. Imposizione che invece non avviene in risposta a stimoli nervosi in cui il comportamento conseguente risulti impulsivo nell’atto di tutelare la condizione di salute del soggetto: in caso di scottature, difatti, il repentino ritrarsi non è soggetto in alcun modo ad imposizione alcuna della mente.
Ora, volendo semplicisticamente tracciare un parallelismo fra stimolo nervoso ed atteggiamento, sebbene nettamente differenti, si può dedurre ed affermare che un comportamento derivi necessariamente da un atteggiamento mentale che ne è sempre la causa, mai la conseguenza, in una sorta di rapporto consequenziale “dall’alto al basso”; volendo ritenere l’atteggiamento un’inclinazione psicologica esprimendo la quale consegue un determinato comportamento, l’incidenza ambientale andrà poi ad influire sul comportamento stesso, allineandolo o meno alla connaturata disposizione psichica.
Nell’intricato intreccio fra i due, la temporale persistenza o transitorietà d’entrambi si verificherà in funzione dei vissuti i quali, spesso, possono condurre a mutevolezza dell’uno, dall’altro o d’ambedue. S’immagini un individuo il cui lavoro consista nella vendita di prodotti per la caccia che, dopo anni trascorsi senz’essere particolarmente né a favore né contrario alla stessa, per esperienze personali divenga convinto animalista: l’istantanea accordanza comportamentale al neo sopraggiunto atteggiamento mentale, prevederebbe che lo stesso si licenzi sull’istante, alla ricerca d’altra mansione lavorativa. Tale decisione si può però venire frenata dalla necessità economica di mantenersi, portando pertanto la persona in questione a proseguire il proprio impiego fino a sopraggiunta alternativa, concorde all’indole emotiva che ha stimolato il cambiamento.
Ecco la discordanza.
L’atteggiamento mentale si mantiene costante nella neo-originatasi convinzione animalista, mentre il comportamento, non trovando immediata possibilità d’accordanza, entra in una sorta di stand-by, mantenendosi provvisoriamente discrepante alla stessa, seppur in motivato slancio di rinnovamento, provvisoriamente conforme ad un secondo assunto mentale sottostante al bisogno di mantenimento. Sarà solo al successivo cambio di mansione lavorativa che l’atteggiamento mentale, nella sua forma comportamentale, eviscerato dunque dalla totalità di significato che ne comprende gli astratti ideal-emozionali, collimerà in toto al comportamento derivato.
Sottinteso che, nel frattempo, nella persona in cui è avvenuta una variazione di concetto non vi sia tentativo alcuno di prevaricazione sulle idee altrui, erroneamente credendo di possedere la verità assoluta, atteggiamento, questo, che facilmente aprirebbe le porte ad una pregiudizievole ed irriguardosa forma di pensiero. Nella fattispecie succitata, pur non condividendo l’attività di caccia, un addetto alle vendite dovrebbe quindi proseguire la sua mansione al di fuori della propria mentalità, al di là d’un semplice e legittimo confronto d’opinioni con la clientela, in reciprocità di rispetto, ben lontano dall’imporre le proprie convinzioni, a discapito della vendita.
Per pregiudizio si intende un fazioso atteggiamento verso una categoria o un gruppo di persone che si forma nell’ambito delle relazioni sociali, risultante da una convinzione preconcetta ed il cui oggetto può essere anche un singolo individuo.
Aggrovigliate e complesse sono le origini del pregiudizio che, secondo alcuni ricercatori, in alcune personalità trova maggior predisposizione rispetto ad altre.
A tal proposito, secondo alcuni studi effettuati dal filosofo Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno (1903-1969), una personalità dotata di valori convenzionali e rigide credenze, tende in misura maggiore ad incollerirsi con soggetti deboli.
Adorno, che oltre ad essere filosofo fu sociologo, musicologo e musicista, fu convinto critico della società nei suoi aspetti capitalistici e, nel periodo nazista, si vide costretto all’esilio nel corso del quale, in territorio americano, condusse un’indagine, durata dal 1944 al 1949, sulla personalità autoritaria, raccolta nel testo The Authoritarian Personality (La Personalità Autoritaria, vol.1, vol.2, Pgreco, 2016), pubblicato nel 1950 e frutto di un’attenta valutazione sociologica su base teorica psicoanalitica, di principale riferimento hegeliano e freudiano.
Significativo esponente della Scuola di Francoforte, istituto la cui prima attività avvenne fra gli anni venti e gli anni trenta, d’orientamento neo-marxista e per lo più frequentata e sostenuta da filosofi e sociologi tedeschi d’origine ebraica, fra cui il direttore Max Horkheimer (1895-1973), Walter Benjamin (1892-1940), Herbert Marcuse (1898-1979), Erich Seligmann Fromm (1900-1980) e tanti altri, Adorno avanzò aspre critiche alla società borghese, considerandone il capitalismo monopolistico crudele e disfattista nemico delle relazioni interumane, non più considerate in quanto tali, ma come mero ed obbediente servizio al benessere del sistema, in un lento scivolare verso una lampante disumanizzazione a cui l’alienare l’individuo nelle sue peculiarità diviene conseguenza sconsolatamente inevitabile e dove il profitto, riservato a pochi, resta l’unico e principale obiettivo da perseguire.
La personalità oggetto della ricerca, venne considerata nell’ottica della struttura psico-emotiva formatasi nel soggetto durante la sua prima fase di vita e profondamente influenzata dall’interazione con i propri familiari; in caso di rapporto estremamente autoritario ed aggressivo, la forzata sottomissione dell’infante al genitore crea un disagio che, se protratto, in età adulta potrebbe proiettarsi su soggetti deboli o sulle minoranze, riconoscendovi inconsciamente la pregresse sensazioni negative vissute nell’infanzia e sviluppando pertanto il medesimo atteggiamento comportamentale interiorizzato nei primi anni di vita, subdolo meccanismo di difesa che Adorno collega a personalità storiche dittatoriali, in primis al fascismo, di cui lo stesso subì la feroce morsa.
Lo studio fu in seguito controbattuto, in quanto l’atteggiamento comportamentale di suddette personalità fu concettualmente affiliato ad un sentimento d’intolleranza, sebbene la stessa si basi frequentemente sui pregiudizi, concretizzando poi la sua opera in comportamenti di generale avversione, condanna e punizione nei confronti di orientamenti religiosi, politici, culturali e sessuali aprioristicamente negati ed insostenibili solamente perché non conformi ai propri, fino al cieco agire in base ad un’ideologia etnocentrica, tipica dei più efferati dittatori, basata su concezioni razziste e xenofobe.
Ad ogni modo, non si deve dimenticare quanto il pregiudizio non sia esclusivo appannaggio di taluni, ma potenzialmente di chiunque, essendo che fin dalla tenera età l’apprendimento dello stesso può avvenire nel familiare riferimento alla famiglia d’origine, sviluppandosi la crescita nell’emulazione di quanto viene proposto dalle figure genitoriali e parentali, in maniera più o meno esplicita. Si è infatti constatato che individui con personalità eccessivamente autoritaria, di frequente hanno avuto genitori che nutrivano forti pregiudizi nei confronti delle minoranze, poi appresi ed interiorizzati dalla prole durante la crescita.
Anche la competizione sembrerebbe favorire l’affiorare di preconcetti, in particolare modo durante l’età prescolare e scolare e, qualora il competitivo confronto non venga smantellato a tempo debito, in strutturato avvinghiarsi alla struttura mentale dell’adolescente e dell’adulto, in crescente e deleteria stabilità.
Solitamente i ragionamenti che conducono la prole al pregiudizio sono sintomatici di mentalità a forte carenza d’informazioni, spesso approssimative ed a loro volta assimilate da fonti poco attendibili o inveritiere e che, a contatto con la struttura psichica di soggetti la cui obiettività di giudizio è falsata, vengono razionalizzate in maniera soggettivamente parziale ed assunte come autogiustificazione ed ottusa discolpa riguardo ai propri comportamenti.
Un esempio su tutti l’errata, perfida ed abbietta convinzione che gli afroamericani fossero meno intelligenti dell’uomo “bianco” ha portato, soprattuto in territorio americano, alla loro relegazione in scuole di serie B, oltre che al diniego dei diritti civili, con conseguente frenata sul prezioso processo d’integrazione, dovuta all’offuscamento psichico di menti culturalmente aride, sentimentalmente avare ed umanamente turpi.
In alcuni casi il pregiudizio rende un senso di sicurezza.
È ciò che accade nel caso nella cosiddetta reputazione meritata: innanzi a una persona che non abbia conseguito successi, la quasi totalità delle menti, specialmente quelle di persone realizzate, non è incline a prendere in esame la possibilità che parte della responsabilità di tale fallimento possa essere attribuita ad un sistema sociale ingiusto, specie in un periodo storico dove potere ed apparenza prevalgono sulla sostanza interiore. Spostare parte della causa sulla società, significherebbe minare l’assunto secondo il quale la meritocrazia è direttamente proporzionale all’affermazione, che peraltro spesso è un’utopia, preferendo imputare la mancata affermazione del soggetto a lui stesso, mantenendo pertanto dorati ed esclusivi i propri meriti, e scivolando nel triste, ma rassicurante, proverbio secondo il quale “chi è causa del suo mal, pianga se stesso”, cinica formula che se venisse applicata all’ambito terapeutico, in particolar modo nel settore delle dipendenze, sfascerebbe a priori ogni possibilità di recupero.
Come ridurre i pregiudizi
L’incremento dell’istruzione e la trasmissione di più informazioni possibili, sui vari gruppi o categorie di persone, attraverso mezzi di comunicazione di massa, libri, quotidiani, oratoria e similari, è un primo passo nello sgretolamento d’inclinazioni mentali ottusamente poco obiettive.
Altra strada da intraprendere è il tentar di favorire i contatti sociali tra opposti gruppi e categorie.
Nei casi d’isolamento, lo stimolo ad una ritrovata aggregazione, cercando di condividere i medesimi spazi e di comunicare levando filtri nel tentativo di comprendersi sullo sfondo delle personali differenze, può essere strategia efficace a patto che vengano rispettate determinate condizioni, ovvero una consapevole predisposizione al confronto, attuata nell’ottica d’un reciproco arricchimento sulle dissimili personalità.
I contatti sociali sono essenziali, a condizione che i rispettivi membri dei vari gruppi siano in posizione di parità, in caso contrario il rafforzamento dei pregiudizi diviene rovinoso scoglio, distruttivo e vanificante l’intero percorso.
Le coscienze delle persone inclini ad atteggiamenti pregiudizievoli andrebbero risvegliate ed illuminate, combattendo in tale modo i devastanti effetti psicologici della discriminazione ed operando al fine d’un’unione fra individui che si tendano la mano al fine di giungere a cambiamenti sul piano sociale che influenzino positivamente le percezioni, i giudizi, gli atteggiamenti ed i comportamenti individuali al fine di una netta rimozione del pregiudizio, attuata tramite la conoscenza delle ferite profonde che lo stesso provoca nell’animo di chi ne è vittima.
All’interno di una comunità sociale, l’individuo è portato a ritenere ed agire in similitudine agli altri nel semplice concordare, pur nell’unicità d’ognuno, delle proprie opinioni con gli stessi; resta solida l’indipendenza pensante, ma la generale similarità delle idee crea uno sfondo d’unanimità che sta alla base delle frequentazioni scelte, ossia, la cerchia delle relazioni interpersonali si restringe intorno a coloro i cui concetti permettano un piacevole e costruttivo confronto sulle rispettive convinzioni, che non sia ovviamente totale incomparabilità delle stesse, con derivata impraticabilità discorsiva.
Nei casi in cui invece una persona si trovi a mutare le proprie posizioni iniziali in conseguenza alle pressioni altrui, chiaro è il meccanismo di rinforzo che influenza la stessa, amaramente subalterno alla ricezione di conferme esterne che si mantengono tali fino a che la sua opinione viene ritenuta concorde, pertanto approvabile tramite gratificazioni che nel soggetto in cerca di consenso son puntelli all’autostima.
Nella psicologia comportamentista, il rinforzo, positivo o negativo, praticato su un determinato tipo di comportamento, ne stimola o dissuade il riverificarsi, in ottica d’apprendimento.
Analogamente, in campo concettuale il sostegno sociale, e conseguente gratificazione, possono interferire sul sistema pensante dell’individuo, in svariati modi:
– tramite il rispetto delle norme: entrando in relazione con singoli o gruppi, un individuo può essere indotto a seguire determinate regole che, al di fuori della specifica frequentazione, gli sarebbero estranee;
– con l’imitazione: in alcuni casi l’imitazione si estende in maniera impressionante, specialmente nell’epoca attuale in cui il perenne martellare di social e media nel tentativo d’imporre canoni estetici e comportamentali non ha precedenti, divenendo allo stesso tempo fastidioso intralcio ai processi educativi familiari, in particolar modo nella fascia preadolescenziale, con rischioso aridimento delle capacità relazionali dei ragazzi;
– confronto: le persone valutano i propri pareri per stabilire in che modo corrispondano alla verità, o meglio, non esistendo verità assolute in ambito opinionale, ricercano prove delle proprie convinzioni nei fatti, ove scientificamente ciò sia riscontrabile, ed altrui assensi nel paragone dei differenti modi di pensare; ad approvazione raggiunta, si è più propensi nel confidare nelle proprie idee.
Nel rispetto delle norme prevale la pressione socio-emotiva, mentre nel confronto quella a carattere informativo, seppur nell’intero trio delle manifestazioni intervengano entrambi i meccanismi, a dimostrazione, ad esempio, che il rispetto delle norme non scaturisca esclusivamente dal timore sanzionatorio, ma anche dal fatto che l’individuo è perfettamente cosciente dei propri doveri a riguardo e non s’immagina alternative. Gli effetti sociali sullo stesso sono duplici, in quanto egli può decidere di rivalutarsi e modificare alcuni lati caratteriali, oppure incaponirsi e non assoggettarsi ad alcun tipo di condizionamento.
L’origine dell’influenza sociale può avere quattro fonti:
L’altro
Un punto di partenza basico può identificarsi nel confronto interpersonale, pur non essendo necessaria l’esistenza d’un rapporto particolare, basta infatti la semplice interazione; quando due persone interagiscono, pur non conoscendosi a fondo e non avendo motivo di legame, l’influenza può essere reciproca. Va poi da sé che l’intensità della relazione sia direttamente proporzionale alla possibilità d’influenzarsi; in particolare modo nella convivenza, sia essa amichevole od amorosa, dove il condividere la quotidianità offre notevoli stimoli all’autoriflessione, ove si sia ragionevolmente disposti alla stessa.
Il gruppo
Una realtà relazionale complessa, all’interno della quale è possibile si formi una spaccatura, con una maggioranza e una minoranza. Entrambe le fazioni possono funzionare da sorgenti d’influenza per l’individuo, miscelandone la peculiare personalità al variegato fluire di concettualità alla quale tentar d’amalgamarsi nel rispetto del proprio essere.
La situazione
Talvolta non è possibile ricondurre l’influenza a persone bensì ad eventi o connessioni. Le persone pensano ed interagiscono in un determinato modo, perché hanno l’impressione che in quel contesto si debba fare così, atteggiamento di tutto rispetto al quale adeguarsi, in caso di norme generalizzate a tutela del benessere generale, specialmente in ambito scolastico, pur non dovendo mai temere o vergognarsi di porre interrogativi, qualora la curiosità personale lo richieda, a titolo puramente informativo.
Autorità
Chi ne è soggetto riconosce che l’autorità è legittimata alla dirigenza in un particolare ambito, sia esso scolastico, lavorativo o interlocutorio di vario genere. Il riconoscimento dell’autorità ed il conseguente adattarsi alla stessa, non va confuso con la prevaricazione mentale che la persona autoritaria erroneamente ed ingiustamente decida d’attuare approfittando del proprio ruolo, situazione di non così rara diffusione in svariati contesti.
Le reazioni individuali all’influenza hanno duplice effetto: il soggetto può decidere di mutare il proprio modo di fare oppure pensare non prendere la direzione verso la quale viene indirizzato. Ricollegandosi al pregiudizio, di fondamentale importanza risulta la comprensione di quanto lo stesso non sia semplicemente un atto spontaneo, ma la somma di fattori esterni ed interni che portano ad esercitare o subire determinate influenze.
Venendo al mondo, il neonato viene a contatto con le innumerevoli sfumature della sfera affettiva che, se equilibratamente ed amorevolmente gestite dalla coppia genitoriale in salutare modalità, lo terranno per mano nel costruire, giorno per giorno, parola su parola, di carezza in carezza, una personalità stabile, la cui forza non stia nell’aver la convinzione di crescere un adulto il cui carattere non necessiti più di modifiche, ma nel fornirgli una sana “zolla” d’autostima che stia a metà strada fra l’egocentrismo e l’eccessiva incertezza interiore, strutture caratteriali egualmente perniciose. Compito di non semplice attuazione, rimanendo la genitorialità uno dei mestieri più difficili al mondo, ma d’imprescindibile concretizzazione qualora si desideri per la propria prole una dose di sicurezza ben lontana dall’esser megalomania, ma necessaria al mantener una costante e perenne inclinazione all’evolversi ed a far sì che, pur nell’assoluto rispetto delle idee altrui, l’eventuale esser oggetto di pregiudizi non venga vissuto con estrema sofferenza ed isolamento, ma che sia condizione di carenza mentale da rispedire al mittente.
Le persone giudicano sempre gli altri avendo come modello i propri limiti e a volte, l’opinione della comunità è piena di preconcetti e timori.
Paulo Coelho
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