Energia a carbone: inquina e altera i fenomeni atmosferici

 
 
La International Energy Agency (IEA) ha reso noti i dati riguardanti gli andamenti del mondo dell’energia attraverso l’annuale Global Energy & CO2 Status Report e dallo studio emerge che nel 2018, la domanda è salita del 2,3%, ovvero al «ritmo più veloce dell’ultimo decennio» e l’incremento, ha visto però salire anche dell’1,7% le emissioni di diossido di carbonio, toccando così il massimo storico di 33,1 giga tonnellate, più del doppio rispetto al 2015, un triste primato che evidenzia l’incapacità d’invertire la tendenza al fine di evitare le devastanti ripercussioni prospettate dal cambiamento climatico.

Mentre rimane insufficiente lo sfruttamento del potenziale offerto dalle rinnovabili, continua l’ascesa del carbone ripresa dopo un periodo di declino. La crescita dell’1% registrata nel 2017, dietro la spinta di Cina, Stati Uniti d’America, India e Giappone, è stata confermata con un ulteriore +0,7%. Esso infatti, nonostante sia responsabile di quasi 1/3 della CO2 sprigionata, è ancora la fonte maggiormente impiegata nella produzione di elettricità, tanto che a livello globale quella derivante da tale combustibile equivale al 38% del totale.

Centrali a carbone: peggiori del traffico, incidono sui fenomeni meteorologici (https://terzopianeta.info)

Fonte: Global Energy & CO2 Status Report

 

In tutto il mondo sono operative 7.861 centrali termiche a carbone e impattano negativamente sull’ambiente e sulla salute, non solo con l’anidride carbonica — principale gas serra presente nell’atmosfera terrestre e causa primaria del riscaldamento globale — bensì liberando anche biossido di zolfo (SO2), ossidi di azoto (NOx), metalli pesanti fra i quali nichel, cadmio, piombo, mercurio, cromo, arsenico e provocano anche la dispersione di ozono (O3), un gas naturale che nella stratosfera svolge il compito essenziale di proteggere il Pianeta dall’azione nociva dei raggi ultravioletti UV-C provenienti dal Sole, ma se profuso nella troposfera si rivela altamente dannoso, irritando le vie respiratorie, riducendo le funzioni polmonari e le ripercussioni saranno tanto più intense quanto più alta è la consistenza e lunga la durata dell’esposizione, oltre ad esser dipendenti dalle caratteristiche del soggetto.

Altra insidia è inoltre costituita dal rilascio di materia particolata, aerosol atmosferico composto da particelle solide e liquide identificate con le sigle PM10, PM2.5 e PM0.1. Le famigerate e comunemente note polveri sottili, così identificate in base alla misura media del diametro aerodinamico per cui sono pulviscoli le cui dimensioni sono rispettivamente inferiori a 10 micrometri (μm), 2,5 μm e 0.1 μm. Al di sotto si trova il particolato ultrafine (UFP, dall’inglese ultrafine particulate) seguito solo dalle nanoparticelle, la cui grandezza è appunto calcolata su scala nanometrica. Il suddetto ordinamento riflette anche la loro capacità di entrare nell’organismo, se difatti i PM10 riescono penetrare nel tratto respiratorio superiore, dunque naso, faringe e trachea, i PM2.5 possono spingersi nelle parti più profonde dei polmoni e le UFP raggiungere persino gli alveoli, mentre le particole minori hanno addirittura la facoltà di arrivare al nucleo delle cellule. Tali polveri sono quindi in grado di arrecare gravi problemi a carico del sistema respiratorio, cardiovascolare, nervoso, fino a favorire patologie oncologiche e mutazioni del DNA.

 

Impianti vetusti e inquinanti

Coordinato da Stefanie Hellweg, il gruppo di ricerca dell’Istituto di ingegneria ambientale di Zurigo ha recentemente condotto un’indagine su ciascuna delle suddette centrali, per stimare gli effetti e capire dove sarebbe opportuno intervenire con più urgenza. I risultati, pubblicati sulla rivista scientifica Nature Sustainability, identificano Cina e USA, come i massimi produttori, tuttavia, sono gli impianti situati in India, Russia e in alcune aree dell’Europa orientale e sud-orientale ad essere più inquinanti, questo perché risultano vetusti e manchevoli di un efficiente trattamento dei fumi. Ciò non significa che le centrali moderne e del cosiddetto carbone pulito non rappresentino un pericolo; pur dotate di tecnologie che permettono di ridurre tramite filtraggio la dispersione di sostanze tossiche, l’azione di trattenuta del PM2.5 è minima, mentre è essenzialmente nulla nei confronti dei peggiori PM0.1

I dati, aggiornati al 2018, del Global Urban Ambient Air Pollution Database dell’Organizzazione Mondiale della Sanità , dicono che più dell’80% delle persone che vivono all’interno delle aree urbane monitorate, è esposta ad aria con livelli d’inquinamento superiore ai limiti previsti e alla luce del report Energy and Air Pollution pubblicato dalla IEA nel 2016, dalla sola combustione di carbone del settore energetico, provengono il 90% di PM2.5, il 70% di NOx e i 3⁄4 di SO2. Christopher Oberschelp, uno dei ricercatori dell’Istituto di Zurigo, a riguardo si è espresso in sostegno del gas naturale, che «dovrebbe progressivamente sostituire il carbone e a lungo termine puntare verso fonti rinnovabili».

Peraltro, questi tre elementi sono quelli che originano le piogge acide, ad alte concentrazioni difatti, determinano la diminuzione del pH dell’acqua contenuta nell’atmosfera, portandolo a un livello inferiore a 5, quando in natura, una precipitazione è acida quando i valori si trovano in un intervallo compreso fra 5 e 6.5. Le conseguenze per l’ambiente sono l’intaccamento delle capacità riproduttive delle piante, la morte di microrganismi appartenenti a ecosistemi terrestri e acquatici che non riescono ad adattarsi a un pH inferiore a 5, nei laghi e nei fiumi sono state osservate morie di pesci, inoltre si acutizza la tossicità del suolo e quindi anche dei prodotti coltivati, aprendo la possibilità all’essere umano di andare incontro a patologie circolatorie, polmonari e persino forme tumorali.

 

L’impatto sui fenomeni meteorologici

Centrali a carbone: peggiori del traffico, incidono sui fenomeni meteorologici (https://terzopianeta.info)Proprio la pioggia è stata al centro di uno studio quindicennale condotto dal Prof. Jörg M. Hacker, fondatore, direttore e capo scienziato dell’Airborne Research di Adelaide, e dal Dr. Wolfgang Junkermann dell’Instituto di Tecnologia (KIT) con sede a Karlsruhe. Pubblicato sul Bulletin of the American Meteorological Society, prestigiosa rivista dell’Advancing Science Serving Society, la ricerca ha evidenziato che le moderne centrali elettriche a carbone producono un quantitativo di particolato ultrafine superiore a quello emanato dal traffico stradale, a lungo considerato fonte battesimale di tali particelle, ma non è tutto.

Servendosi di un aliante motorizzato Dimona VH OBS e di un ultraleggero da ricerca D-MIFU, entrambi provvisti di particolari sensori atti a misurare temperatura, umidità, energia, vento e ovviamente la presenza di polveri e residui di gas, Hacker e Junkermann hanno effettuato misurazioni in varie parti del mondo: Italia, Finlandia, Francia, Mongolia, Germania, Australia, coprendo anche regioni extraurbane, quindi escluse dalle aree di crisi e spesso colpite da precipitazioni. Oltre 1200 ore di volo per una lunga e approfondita analisi nel corso della quale hanno rilevato, come confermavano i dati già a partire dagli anni ’90, un aumento di UFP dal diametro inferiore a 100 nm da quando sono entrate in funzione le moderne tecnologie che tendono a sopprimere le PM2.5 e i NOx.

Gli scienziati hanno presto capito che provenivano dai fumi di centrali elettriche a carbone, raffinerie e fonderie, e la strumentazione in dotazione ai velivoli ha permesso loro di quantificare le concentrazione di particelle e monitorarle, osservandone in maniera dettagliata gli spostamenti, il comportamento, gli effetti. Hanno quindi constatato il loro potere sulla fisica delle nubi e delle precipitazioni, appurando un’assenza delle stesse nelle vicinanze delle strutture.

In rapporto alle condizioni climatiche e atmosferiche, le particole riescono a viaggiare per numerose centinaia di chilometri, unendosi alle nuvole come nuclei di condensazione. Inizialmente subiscono una riduzione della loro dimensione, cosicché hanno bisogno di tempo prima di trasformarsi in gocce d’acqua, un’azione che si traduce in probabili intensificazioni e alterazioni della distribuzione delle piogge, sia su scala locale, sia regionale. In aggiunta, ingenerano picchi di concentrazioni al suolo in aree molto distanti dal luogo di origine, palesando conseguenze drammatiche: «Modifica l’idrologia della terra — ha spiegato il Prof. Hacker — redistribuendo le piogge, le polveri sottili possono creare situazioni d’insolita aridità in alcuni luoghi e inconsuete, pesanti e persistenti piogge altrove».

Lo studio ovviamente esclude che siccità o forti precipitazioni siano esclusivamente dipendenti dall’attività delle polveri ultrafini, ma i ricercatori sono però certi di una correlazione e altrettanto della necessità di apporre modifiche agli impianti: «Abbiamo dimostrato — ha dichiarato il Dr. Junkermann — che le centrali a combustibili fossili sono diventate la causa preponderante di particelle ultrafini e incidono in modo rilevante sui fenomeni meteorologici, con la possibilità d’innescare eventi estremi».

Le responsabilità della società e della politica

Secondo l’International Energy Agency, prima di vedere un calo significativo della domanda di carbone ci sarà da attendere quantomeno fino al 2023, tempi tutt’altro che brevi, ma nel frattempo ognuno può muoversi in favore dell’ambiente e della salute dato che i numeri dell’OMS parlano di 3,8 milioni di persone che ogni anno muoiono prematuramente per malattie riconducibili ad inquinamento domestico.

L’industria non è la sola responsabile quindi, in tutto il mondo sono circa 3 miliardi gli individui che continuano a sfruttare caminetti aperti e stufe con combustibili come legna, carbone e rifiuti vegetali per riscaldare, cucinare e illuminare le proprie abitazioni. Polmonite e cardiopatia ischemica per il 27%, broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) per il 20%, sono le patologie più frequenti e ad essere colpiti sono soprattutto i bambini — sotto i 5 anni ne muoiono circa 600mila ogni anno per malattie respiratorie — e con loro le donne, per le quali le probabilità di andare incontro a BPCO per mancato impiego di strumenti ed energie pulite.

Combustibile e tecnologia, dunque giocano un ruolo considerevole per determinare il contributo domestico all’inquinamento atmosferico urbano da polveri, sia locale che mondiale, come d’altra parte è ormai cruciale per il Pianeta l’azione di ciascuno a livello generale: consapevolezza sulle scelte alimentari, sensibilità verso gli sprechi, attenzione ai consumi energetici casalinghi, ai rifiuti, quando possibile lasciare l’automobile e tanto ancora nascosto in ogni gesto quotidiano.

L’Organizzazione della Sanità, fa notare altresì che l’incidenza maggiore proviene dalle classi meno abbiette di paesi a medio e basso reddito, per cui la risposta è anche politica: «Senza un sostanziale cambiamento delle politiche, il numero totale di persone che non hanno accesso a combustibili e tecnologie pulite rimarrà in gran parte invariato fino al 2030, ostacolando l’obiettivo dell’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile».
 
 
 
 

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