Tommy Ingberg, le voci dell’anima in fotografia
«SURREALISMO, s. m. Automatismo psichico puro attraverso il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto o in altre maniere, il funzionamento reale del pensiero; è il dettato del pensiero, con assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica e morale».
Parole incise sul Manifeste du Surréalisme, il documento del 1924 tramite il quale André Breton (1896-1966) ufficializzò la nascita del movimento, evocando in tal modo il termine concepito e reso pubblico sette anni prima dallo scrittore Guillaume Apollinaire (1880-1918), quando nel redigere il programma di sala di Parade, balletto con musiche di Erik Satie (1866-1925) su testo di Jean Cocteau (1889-1963), lo espose come «une sorte de sur-réalisme». Nel medesimo 1917 utilizzò ancora il vocabolo coniato fissandolo nel sottotitolo e nella prefazione del dramma in due atti e prologo in versi a cui lavorava da tre lustri, Les Mamelles de Tirésias, ribadendo non solo verbalmente, ma anche mediante la visionarietà dell’opera, l’intenzione d’assecondare la necessità dell’arte di elevarsi oltre la tradizione e avventurarsi in territori inesplorati.
Credo nella risoluzione futura di questi due stati apparentemente contraddittori di sogno e realtà, in una sorta di realtà assoluta, di surrealtà.
André Breton
Una nuova e rivoluzionaria cultura a liberazione dell’immaginazione e dell’uomo dall’oppressione della ragione, della morale, d’ogni fattore in grado di inibire l’azione e l’energia creativa, mettendo dunque in discussione i valori stabiliti, le convenzioni sociali, assumendo spirito di rivolta, dimensione politica, spezzando altresì le regole accademiche, le catene che costringevano la parola. Sorto come movimento letterario chiamando a sé Benjamin Péret (1899-1959), Paul Éluard (1895-1952), Robert Desnos (1900-1945) al fine di compiere una più profonda indagine dell’animo, della natura umana, confidando «nell’onnipotenza del sogno, nel gioco disinteressato del pensiero» e giunger a «soluzione dei principali problemi della vita», s’aprì al cinema di Luis Buñuel (1900-1983), alla pittura di Max Ernst (1891-1976), Juan Miró (1893-1983), Salvador Dalí (1904-1989), alla fotografia di Man Ray (1890-1976), Brassaï (1899-1984), Bill Brandt (1904-1983) e persino di René Magritte (1898-1967), poeta della tela i cui scatti furono ritrovati soltanto verso la fine degli anni ’70 e reminescenze del suo genio, al pari di quello precursore di Photoshop di personaggi quali Melvin Sokolsky (1933) o Jerry Uelsmann (1934), principiarono ad essere irriflessa ispirazione dell’improvviso sprigionarsi dell’estro surreale di Tommy Ingberg.
Nato in Svezia nel 1980, Tommy Ingberg s’affacciò sul mondo della fotografia quando all’età di 15 anni, a dono d’un fascino subìto sin dall’infanzia, ricevette la prima fotocamera, una reflex dello storico marchio tedesco Praktica, con annessi due obiettivi. Creatività cominciò da allora a far respirare immortalando volti, paesaggi e natura, rubando istanti di pubblici eventi e altri alla quotidianità delle strade, sperimentazioni nel corso delle quali scaturì, facendosi sempre più evidente, un’innata espressività artistica; desiderio e ricerca tuttavia rimasti a lungo inappagati, vittime del comune mantra del sopravvivere: «procurati una laurea e un buon lavoro». La corona d’alloro arrivò puntuale, ingegneria informatica, ed insieme a lei un impiego e così presero a correre i giorni, consumarsi calendari e frattanto aumentava l’esperienza dell’occhio dietro al mirino, proporzionalmente cresceva il malanimo del non sentire e seguire quella voce interiore bramosa di liberarsi.
Arrivò il crollo, ma come a volte accade, sull’adagio della Fenice «post fata resurgo», sul fondo toccato Tommy Ingberg trovò il proprio sé e solo ad esso iniziò a dedicarsi, ascoltandosi e narrandosi attraverso immagini/diario di sentimenti provati, senza consapevolezza, abbracciando il surrealismo. Se fino a quel momento i fari a indicar la rotta erano stati Henri Cartier-Bresson (1908-2004), Elliott Erwitt (1928) oppure Annie Leibovitz (1949), il nuovo cammino intrapreso ne portò l’attenzione anche su maestri d’arte estranea alla fotografia come Maurits Escher (1898-1972), Pablo Picasso (1881-1973), i già menzionati Miró, Dalí, naturalmente Magritte ed ancora Andy Warhol (1928-1987), quindi spaziando dalla musica alla poesia.
Come nascono le idee è difficile da dire, avviene sempre in modo molto diverso, a volte permetto alla mente di vagare e abbozzo le immagini in un taccuino. Altre parto da un aspetto visivo, una fotografia scattata o qualcosa che ho davanti agli occhi (per questa ragione, le mani sono un elemento ricorrente), ma nella maggior parte dei casi tutto ha inizio da un pensiero, oppure un sentimento e da lì prendo la foto. Si tratta di un flusso inconscio e l’unica cosa che posso fare davvero, è dargli tempo.
Nel 2010, risveglio avviò quelle che un lustro dopo sarebbero diventate le collezioni Reality Rearranged e Solitaire, decine di opere in bianco e nero che l’artista svedese, frattanto andava componendo le serie, sottopose a giurie presentandole in vari concorsi e già nel 2011, ottenne la Menzione d’Onore nella sezione Non-Professional: Fine Art, Collage all’International Photography Awards per poi guadagnare con Inside, il 1° premio nella categoria Professional Special Digitally Enhanced all’edizione del 2016; quando numerose mostre ne avevano consacrato il talento e in bacheca figuravano ormai riconoscimenti riportati al Lumen Prize for Art and Technology, in più edizioni del Prix de la Photographie Paris (P×3), del Malmö International Exhibition of Photographic Art e la raccolta Journey, da Ingberg descritta «fluida e caotica», stava prendendo forma: «Per la prima volta dopo tanto tempo mi sono lasciando andare per avventurarmi in un sentiero sconosciuto, semplicemente gioendo di creare senza restrizioni». Un terzo lavoro ancora in chiaroscuro completato nel 2018, anno in cui sotto pioggia di colori è apparso il progetto tuttora in corso e dall’emblematico titolo, Renaissance.
Non ho mai visto la fotografia come un modo per descrivere oggettivamente la realtà, quanto piuttosto come un modo per raccontare storie, condividere idee […] Per me il surrealismo consiste nel cercare di spiegare qualcosa di astratto come un sentimento o un pensiero, esprimendo il subconscio con un’immagine. La serie Reality Rearranged è il mio primo tentativo di descrivere la realtà attraverso il surrealismo. Durante i due anni e mezzo in cui ho lavorato alla serie ho usato la mia vita interiore, i miei pensieri e i miei sentimenti come semi per le mie immagini. In questo senso il lavoro è molto personale, ma l’intento è far sì che l’osservatore si ponga domande quando guarda le immagini, le mie interpretazioni sono davvero irrilevanti nel contesto.
Continua con le fotografie sublimanti la donna di Miss Aniela
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