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Robert Doisneau, il fotografo dell’umana meraviglia

 
 
Profondo e magnanimo, Robert Doisneau fu poeta della fotografia, cogliendo, con armonioso stupore, le miriadi di sfuggenti sfumature d’umana passione e così sublimando ed eternando effusioni d’amanti, sguardi assorti e stanchi, la dignità dei lavoratori, degli emarginati, dei senzatetto, nonché musicando il meraviglioso comunicare, puro e sognante dei bambini che sul mondo si affacciano, creature ch’egli, tanto delicatamente sfiorò da lasciarne fuoriscir voci e vitalità dagli scatti, in canto all’infanzia.

…L’enfant parle soleil
l’enfant parle merveilles
l’enfant parle silence
l’enfant parle vacarme
l’enfant parle misère
l’enfant parle terreur
l’enfant parle beauté malice douleurs caprices
l’enfant parle amour
l’enfant parle bonheur
l’enfant parle désirs
l’enfant parle faim soif et sommeil…
(Jacques Prévert, da Gran Ballo di Primavera)

E il sorriso scovato nel nulla, naturale scintilla medicante, pura manifestazione del saper accogliere il sottile dell’esistenza con il cuore, facoltà spesso soffocata, oppressa, disimparata e strappata proprio ai bambini, in Robert Doisneau è stata l’immanente fiamma trovatrice delle bellezze del tempo umile, dell’attimo tenue, colei che gli ha permesso d’opporre bontà e armonia all’atribile, all’evidente gravosità. Sensibilità che lo portò a donar incanto alla strada, all’imperfezione, ai volti di scrittori, scultori, poeti, pittori, quelli di Raymond Queneau, Simone de Beauvoir, Jacques Prévert, Jean Fautrier, Georges Braque, Maria Callas, Alberto Giacometti, Pablo Picasso. «In tutta la vita mi sono sempre divertito», affermò, libero e «disobbediente» come si definiva e predicava il dover essere, eppure quella vita carezzata con affetto, umorismo e gentilezza, non si presentò e non fu parimenti magnanima.

Certi giorni basta il semplice fatto di esistere per essere felici. Ci si sente leggeri leggeri, ci si sente fatalmente ricchi che viene voglia di condividere con qualcuno una gioia troppo grande. Il ricordo di quei momenti è il mio bene più prezioso. Forse perché sono così rari. Un centesimo di secondo qui, un altro là, sommati insieme non saranno che due o tre secondi rubati all’eternità.

Robert Doisneau è stato un poeta dell’immagine, il fotografo umanista che seppe vedere il mondo con meraviglia, cogliendo e sublimando istanti di vita. (terzopianeta.info)

Nei primi del Novecento, Eugène Léon Gaston Doisneau, un uomo di modeste origini, lasciò la natia Raizeux e il mestiere di venditore di biciclette per andar a cercar fortuna a Parigi e all’ombra della Torre Eiffel, dapprima trovò lavoro come contabile presso il grande magazzino Le Bon Marché, dopodiché, fu assunto alla Plomberie Duval. Conobbe e s’innamorò presto della figlia del proprietario, Sylvie Marie Duval, la portò all’altare a fine ottobre del 1909 e la sera del 14 aprile di tre anni dopo, da lei ebbe Robert Sylvain Gaston Doisneau, il futuro ‘pescatore d’immagini’. Nacque a Gentilly, un piccolo centro abitato situato a sud della capitale, disegnato dalle strade di periferia che lo videro crescere, ne influenzarono la visione e divennero sue, ritratte nella realtà del mendicante, nelle mani dell’operaio, nelle persone comuni, con quelle che definiva meraviglie quotidiane.

Ho amato la pura e semplice delinquenza dei miei amici nei bassifondi; ho passato dei bei tempi con loro. C’erano italiani, ucraini, polacchi e i ragazzi locali.

A sconvolgere la famiglia arrivò però la Grande Guerra e poi la malattia.
Con l’inizio del conflitto, Eugène fu chiamato alle armi e qualche tempo dopo la sua partenza, la tubercolosi cominciò a minare la salute di Sylvie. I medici le consigliarono di allontanarsi dalla città, per donare al respiro aria maggiormente salubre ed insieme al figlio, che amava chiamare Roro, si trasferirono in prossimità del villaggio di Neuvic, nella verdeggiante regione di Corrèze. Durante la permanenza, ben cosciente di cosa l’attendesse, la giovane madre prese quel tempo per offrigli un’istruzione, insegnandoli a leggere, scrivere, le tabelline, gli tramandò la passione per i libri, senza mancar di dargli il gioco facendogli passare ore sulle rive del vicino fiume. Quando la guerra ebbe finalmente termine, furono raggiunti dal padre e con lui fecero ritorno a Gentilly, dove Sylvie, andò lentamente spegnendosi trovando la morte il 25 settembre del 1919. Quanto passato al fronte e poi la scomparsa della moglie cambiarono profondamente Eugène, due anni dopo la perdita si sposò con Lucie Anne Marguerite, mentre Doisneau andrà a viver con la zia paterna che mai descrisse come una donna amorevole.

 

L’incontro con André Vigneau

Adolescente, s’iscrisse all’antica scuola di arti grafiche Estienne, fondata nel 1889 e così chiamata in onore della secolare dinastia parigina, resasi celebre per edizioni di classici greci, latini, d’arte monumentale. Ne uscì nel 1929 con un diploma in litografia e incisione, scoprendo però come in ambito lavorativo fossero figure sempre meno richieste, ma questo non gl’impedì di trovar impiego come disegnatore progettista presso l’agenzia pubblicitaria di Léon Uhlmann. Nel frattempo la passione per la fotografia era timidamente sbocciata e dopo qualche tempo, la sfruttò per mettersi al servizio dello studio stando dietro l’obiettivo, acquisendo perciò confidenza con la macchina, non sapendo che presto avrebbe incontrato la persona capace di fargli trasformare il mestiere in arte: André Vigneau.

Diplomatosi alla Scuola di Belle Arti di Bordeaux, Vigneau iniziò come pittore ritrattista e in seguito, folgorato dalle pellicole di Charlie Chaplin, si affacciò sul mondo cinematografico suonando il violoncello in orchestre dedicate all’interpretazione di colonne sonore. Ruolo che gli consentì di aver il denaro necessario per continuare a dipingere dopo la Prima Guerra Mondiale, ma soprattutto gli permise di intraprendere un’eclettica carriera esprimendo il proprio talento fra teatro, cinema, scultura e fotografia. Fu tra i pionieri dell’illustrazione editoriale e annoverò varie collaborazioni con scrittori, realizzando per loro le copertine delle opere letterarie e numerose furono quelle eseguite per Georges Simenon: Il cane giallo, La testa di un uomo, L’ impiccato di Saint-Pholien, Il carrettiere della Provvidenza, Pietro il Lettone.

Nel 1930 divenne direttore artistico della casa editrice Lecram Press, curando al contempo uno dei maggiori laboratori fotografici parigini e fu allora che Robert Doisneau ebbe modo di conoscerlo diventando suo assistente. Il primo servizio lo eseguì raccogliendo fotografie tra le bancarelle dello storico mercato delle pulci di Saint-Ouen e Vigneau non esitò a mostrarle a Henri Weindel, all’epoca condirettore di Excelsior, quotidiano d’informazione e intrattenimento tra gli antesignani del fotogiornalismo. Ne rimase entusiasta e una settimana dopo pubblicò il reportage: «Ero audace e imprudente come lo sono sempre i principianti […] Avevo una fotocamera datami in prestito e ripresi degli uomini che facevano il gioco delle tre carte. Il mio aspetto era quello di un ragazzino, quindi non si infastidirono. Ero davvero orgoglioso, comprai tutti i giornali».

André Vigneau ricoprì un ruolo particolarmente significativo, sia a livello lavorativo, sia artistico, esercitò un forte ascendente sul giovane Doisneau, lavorando per lui affinò notevolmente la tecnica, andò sviluppando un proprio linguaggio e non ultimo, ebbe modo di entrare in contatto con le avanguardie, dallo studio passavano infatti personaggi come Man Ray, Raoul Dufy, Andre Kertesz, oltre al già citato Simenon e tanti altri. Tuttavia, sogni e aspirazioni s’interruppero bruscamente quando arrivò il momento di adempiere all’obbligo militare e per 12 mesi, anziché immerso nella Parigi bohémienne appena conosciuta, si vide confinato sulle montagne dei Vosgi, un esilio che non servì a nulla se non a fortificarne le idee anarco-pacifiste.

 

Robert Doisneau, dalla Renault alla Rapho

Allo scadere del servizio di leva sposò Pierrette Chaumaison, da lei avrà le figlie Annette e Francine, era il 1934 e tramite il fotografo Lucien Chauffard, conosciuto all’agenzia di Uhlmann, venne assunto dalla Renault, nell’impianto produttivo situato sull’isola di Seguin, nel mezzo della Senna tra Boulogne-Billancourt e Sèvres, nella periferia ovest di Parigi. Doisneau rimase profondamente colpito dalla condizione dei lavoratori, così non si limitò a creare foto d’archivio, scatti per riviste e brochure, ma documentò la vita all’interno della fabbrica, ritraendo i dipendenti dall’ingresso all’uscita, nei loro gesti ripetitivi alla catena di montaggio, durante la mensa e lo fece avvicinandoli con rispetto, umanità, con la discrezione che lo aveva sempre contraddistinto e il desiderio di dar prova della loro esistenza, esattamente come in seguito farà con gli agricoltori e gli operai delle miniere. L’esperienza si concluse nel 1939, venne cacciato a causa dei continui ritardi: «Mi ci sono voluti cinque anni per farmi licenziare dalla Renault, sebbene avessi fatto tutto il possibile a tal fine».

Quello stesso anno conobbe Charles Rado, un immigrato ungherese che nel 1933 aveva fondato l’agenzia Rapho di cui facevano parte Brassaï, Nora Dumas, Ergy Landau, Ylla e Doisneau ne divenne fotografo indipendente. Viaggia per la Francia, raccoglie storie, ma neanche tre mesi dopo aver iniziato un nuovo percorso, il mondo piombò nella Seconda Guerra Mondiale e del buio di quegli anni fotografò la fame, i rifugi, al servizio della Resistenza mise le sue abilità di litografo per fare passaporti, falsificare documenti. Catturò le fasi salienti della drammatica realtà fino all’insurrezione del 1944, mentre per sopravvivere vendeva cartoline con disegni e incisioni e quando l’incubo ebbe fine, i suoi scatti della Parigi liberata vennero pubblicati anche dai quotidiani degli Stati Uniti.

L’ampio reportage realizzato durante l’occupazione nazista gli permise di entrare nell’Agence de Documentation et d’Édition Photographique (ADEP), dove per un breve periodo lavorarono anche Robert Capa, Pierre Jahan e Henri Cartier-Bresson. La Rapho aveva cessato di esistere con il deflagrare del conflitto; Charles Rado era ebreo, per cui si vide costretto a chiudere i battenti e ripartì da New York insieme a Paul Guillumette, ma nel 1946, resuscitò per mano di Raymond Grosset, fotografo che l’aveva gestita già in passato. Si unirono Janine Niepce, Jean Dieuzaide, Jean-Philippe Charbonnier, Sabine Weiss e con loro anche Robert Doisneau, legando il suo nome a quello dell’agenzia per il resto della carriera, rifiutando di lasciarla anche di fronte alle tentazioni di Cartier-Bresson che avrebbe voluto averlo alla Magnum Photos.

L’immagine non era l’unica sua passione, aveva un debole per il teatro, il cinema, lavorò sul set di Man About Town di René Clair, Tirez sur le pianiste di François Truffaut, Les Bonnes Femmes di Claude Chabrol, realizzò un cortometraggio dal titolo Les visiteurs du square e il suo cuore batteva anche per la musica e la letteratura, placava la sete di parole scrivendo testi e didascalie che chiamava ‘notazioni poetiche’ e ancora lettere, appunti, ricordi, diari di viaggio e autori quali Jean Giono, Robert Giraud, François Cavanna, vantarono un peso come nessun fotografo, nacquero fortunate collaborazioni e solide amicizie, in particolare con Blaise Cendrars e Jacques Prévert.

Sono i miei due angeli custodi, sono sempre con me durante le mie passeggiate solitarie. A volte, quando penso a loro, parlo ad alta voce, poi la gente pensa che io sia pazzo, ma non sanno che sto camminando con i loro fantasmi.

Dall’immediato dopoguerra nacquero molte delle sue fotografie più famose, nel 1947 vinse il Prix Kodak, compose opere come La Banlieue de Paris, L’Enfant de Paris, Les Parisiens tels qu’ils sont, i cui testi vennero firmati rispettivamente da Cendrars, Claude Roy e Giroud, sottoscrisse contratti con riviste come Vogue, Life, scattando per quest’ultima la celebre Le baiser de l’hôtel de ville, che divenne un caso giudiziario. Impegnato alla realizzazione del servizio di cui era stato incaricato, Doisneau immortalò il bacio di una giovane coppia e la foto divenne un’icona della Parigi anni ’50, negli anni furono stampate milioni di copie su ogni supporto, mentre l’identità dei soggetti rimase ignota per quasi mezzo secolo. Fin quando cioè, nel 1992, Denise e Jean Luis Lavergne affermarono pubblicamente di esser loro i protagonisti dell’attimo rubato e avvalendosi della legge che riconosce all’individuo la proprietà dei diritti d’immagine, portarono in tribunale il fotografo. All’epoca, Life aveva infatti presentato l’opera come un istante rubato, ma a quel punto, Françoise Bornet e Jacques Carteaud uscirono dall’ombra e provarono la sua innocenza di Robert Doisneau.

Il fotografo li aveva notati mentre si baciavano, ma la proverbiale timidezza gli fu di impedimento e così li avvicinò, chiese loro se avessero potuto ripetere il gesto d’amore e venne con favore accontentato, mentre loro ricompensati. Fu lui stesso a raccontare per primo come tutto avvenne, coerente con la volontà di offrire la realtà vista attraverso i suoi occhi: «Io non fotografo la vita reale, ma la vita come mi piacerebbe che fosse». Dopo lo scatto, Françoise Bornet ricevette una copia autografata e l’ha conservò sino al 2005, quando decise di venderla all’asta e ad aggiudicarsela un anonimo collezionista per un valore di 155mila euro.

Negli anni successivi al fatidico 1950 Doisneau continuò ad affermarsi e la sua fama a propagarsi attraverso mostre individuali, collettive, reportage in Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Unione Sovietica, sperimentò il colore, arrivò il Prix Niépce, formò Le Groupe des XV affinché la fotografia fosse riconosciuto come forma d’arte e nel 1983, fu la volta del National Grand Prix of Photography, riconoscimento che ne sancì la definitiva consacrazione e mentre le sue fotografie presero ad esser stampate e ristampate su poster, libri, affascinando nuove generazioni, lui continuò a cercar la periferia, senza però trovarla come la teneva stretta nei ricordi.

Nel 1984, insignito della Legion d’Honneur, assieme ad altri 28 fotografi provenienti anche dall’estero, partecipò alla  Mission Photographique, un progetto promosso dalla DATAR, delegazione interministeriale francese dedita allo sviluppo territoriale, che aveva l’obiettivo di rappresentare il paesaggio francese degli anni 80. Originariamente programmato per soli 12 mesi, si protrasse per un lustro e Doisneau tornò nelle sue banlieue per catturarne nuovamente i colori, ma quelle nuove città gli si presentarono svuotate delle anime che avevano popolato le strade da lui amate e ormai prive di fascino: «Il cemento ha sostituito le maioliche in gesso, le capanne in legno. Non c’è niente per cogliere la luce».

Pierrette Chaumaison, assalita dall’Alzheimer e dal Parkinson, si spense nell’inverno del 1993 e Robert Doisneau, la seguì 6 mesi dopo, il 1° aprile 1994, lasciando più di 400mila negativi e un esempio immenso di libera e delicata umanità.

Robert Doisneau è stato un poeta dell’immagine, il fotografo umanista che seppe vedere il mondo con meraviglia, cogliendo e sublimando istanti di vita. (terzopianeta.info)Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo poteva esistere

 
Robert Doisneau è stato un poeta dell’immagine, il fotografo umanista che seppe vedere il mondo con meraviglia, cogliendo e sublimando istanti di vita. (terzopianeta.info)
 
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