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Gerta Pohorylle: Gerda Taro, la donna, la fotocronista

Credi che un caporedattore sappia distinguere la semplice bontà di un’immagine? Raramente. La fotografia è fatta di nulla, inflazionata, merce che scade ogni giorno. Si tratta di saperla vendere.
Gerda Taro

Gerda Taro — al secolo Gerta Pohorylle — venne alla luce sotto il germanico cielo di Stoccarda, nel lontano 1° agosto del 1910 e genitori ne furono il signor Heinrich ‘Hersch’ (1876-?) — commerciante di uova originario dell’Husyatyns’kyi district, Ternopil Oblast, dipartimento dal 18 luglio del 2020 inglobato all’area di Chortkiv Raion per effetto della riforma amministrativa dell’Ucraina — e Gisela Boral (1877-1937), i cui nomignoli ‘Ghittel’, ‘Gittl’, ‘Gisele’, anch’ella natia di medesima regione del consorte, sebben in differente circoscrizione, difatti accogliendone nascita il quartiere di Bučač ed all’interno di coniugal unione la coppia Ebrea di Galizia donando vita anche ad Oskar (1912-?) e Karl (1914-?).

Nella capitale dello stato di Baden-Württemberg — dov’erano emigrati i coniugi Pohorylle — Gerda ricevette educazione borghese ed artistica, infanzia marciando all’insegna di beatitudini tipiche dell’età, studio e pratica di tennis, dunque istruzione perfezionandosi dapprima alla Queen Charlotte Realschule — istituto fondato come Städtische Mädchenschule III nel 1914, chiuso allo scoppio del primo conflitto mondiale e nel 1945 riaprente i battenti come liceo di matematica e scienze — ed in seguito presso un collegio di economia in Losanna, tenace temperamento in lei facendo capolino fin da ragazza e virandone convinta adesione — specialmente dopo amicizie intessute a Lipsia, ove l’intero nucleo familiare aveva traslocato attorno al 1930 — a correnti socialiste ed associazioni di lavoratori, ragion per la qual l’inaspettata e persecutoria ascesa del nazismo rappresentò ulteriore minaccia oltre alle di lei origini ebraiche ed in effetti, nel 1933, primo arresto e successiva detenzione relegandola a cella per l’aver attivamente sostenuto propaganda e volantinaggio contro i nazionalsocialisti, nonché per essersi rifiutata di parlare sotto interrogatorio, indi a libertà ricevuta grazie a possesso di passaporto polacco, conseguendo fuga dalla ferocia hitleriana, malauguratamente la famiglia — che Taro mai più avrebbe rivisto — disgregandosi verso differenti destinazioni, giacché i fratelli diretti in territorio britannico, mentre gli amati genitori instradatisi verso Israele, al pari d’una moltitudine d’Ebrei che tale zona ritenevano propria e sicura Patria in cui approdar, spiritualmente e trasversalmente connessi da ascetico legame a prescindere dalla provenienza geografica d’ognuno.

Nel triennio trascorso in Sassonia, Gerda Taro aveva frattanto rafforzato le proprie convinzioni rivoluzionarie attraverso amicizie fortemente gradite e ideologicamente affini, fra le quali quelle con lo studente di medicina, con cui intraprese relazione sentimentale, Georg Kuritzkes (1912-1990) — figura di spicco delle Brigate Internazionali, unità militari costituite da volontari stranieri che combatterono a sostegno del governo repubblicano durante la Guerra Civile spagnola (1936-1939) — e con il chirurgo newyorkese Willy Chardack, fugace amante di lei infatuatosi nell’attimo fuggente d’una serata sulla via del ritorno, quand’al notarla sguardo si disarmò di fronte a tal aggraziata e fascinosa beltà.
 

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Fred Stein (1909-1967), Gerda Taro, 1935

 
Alla volta di Parigi, l’intraprendente e perspicace giovane seppe degnamente destreggiarsi come segretaria e dattilografa, condividendo dimora con Ruth Cerf, cara amica con lei partita da Lipsia e anello d’aggancio con il fotoreporter ebreo-ungherese Endre Ernő Friedmann (1913-1954), del qual Taro divenne assistente personale ed editor d’immagini per Alliance Photo, una tra le più celebri agenzie locali specializzate — attiva dal 1934 al 1939 — nata dal sodalizio del trio composto dalla fotografa statunitense Maria Eisner Lehfeldt (1909-1991) e dai francesi René Zuber (1902-1979) e Pierre Boucher (1908-2000).
 
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Fred Stein (1909-1967), Gerda Taro e Robert Capa, Parigi, 1935

 
Nell’acuta intenzione di bypassare insofferenti estremismi politico dilaganti in Europa, Endre e Gerda coniando lo pseudonimo, Robert Capa, a suggello delle reciproche fotografie, commercializzate come fossero opera del fantomatico personaggio di fantasia portato ad ingannevole e precaria realtà, il cui cognome derivando dall’epiteto ‘Cápa’, a Friedmann affibbiato in terra natia ed il cui significato in lingua ungherese essendo «squalo», dal canto suo Gerda di lì a poco adottando identità con la quale si donò a storia, riguardo il casato ispirazione traendo dallo scrittore, scultore e pittore astrattista giapponese, Tarō Okamoto (1911-1996), ben presto i due abbandonandosi alle calamitanti vibrazioni dell’innamoramento, irriducibilmente travolti l’un dall’altra sull’onda d’equipollenti peripezie, trascinati dalla potenza di condivisa passione per l’obiettivo cristallizzante la visione dei disastrosi effetti bellici sull’umanità e piacevolmente assordati dall’eufonico boato d’amore deflagrato nel loro petto, insita e rara intesa che nel 1936 la coppia sperimentò su iberico suolo nel direttamente documentar l’insurrezione spagnola, pubblicando preziosi e storici scatti sul periodico svizzero Zürcher Illustrierte — in attività fra il 1925 ed il 1941 — e su riviste francesi quali il mensile comunista Regards ed il settimanale Vu  — stampato dal 1928 al 1940 — quest’ultimo d’innovativa concezione sia dal punto di vista dell’impaginazione che per quanto concerne l’avviar reportage fotografici su diretto mandato della testata, oltre che rotocalco pionieristico nell’inserir fra le proprie pagine copiosa quantità d’immagini — su svariati argomenti — e prestigiose firme quelle, fra gli altri, di fotografi del calibro di André Kertész (1894-1985), Henri Cartier-Bresson (1908-2004), Margaret Bourke-White (1904-1971), Emmanuel RadnitzkyMan Ray’ (1890-1976), Emmanuel Radnitzky (1898-1991) e Gyula HalászBrassaï’(1899-1984).
 
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Gerda Taro
Miliziane in addestramento durante la Guerra Civile spagnola, 1936

 
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Gerda Taro
Miliziana repubblicana, Barcellona, Agosto 1936

 
Inizialmente siglandosi al congiunto contrassegno Capa&Taro — successivamente Friedman eleggendo Robert Capa ad esclusiva definizione — la coppia si spese nel catturare immagini sul campo con impavido ed ardente impeto, di fatto aprendo le porte al moderno fotogiornalismo in ambito bellico e la caparbia, indomabile, libera, veemente ed ispirata Gerda Taro pienamente dedicandosi al proprio lavoro, instillata attitudine trasmutando a pasciuta missione, ella mai cedendo a deceleranti limitazioni poste in essere dalla paura di fronte a situazioni elevatamente rischiose, di temerario azzardo la Taro facendo cavallo da combattimento e, come leggiadra amazzone galoppante controvento, spingendosi nel cuore di lotte armate, al fin di trarne realistiche istantanee a testimonianza dell’orrore dell’uomo sull’uomo in preda alla barbarie che offusca talune menti, servizio maggiormente significativo dall’artista portato a termine in solitaria — Capa trovandosi in quei giorni nella capitale francese — fu quello realizzato, per il grande quotidiano d’informazione indipendente Ce Soir — e in seguito richiesto dalla stampa nazionale — nella battaglia di Brunete, svoltasi a ovest di Madrid, fra il 6 ed il 25 luglio 1937, a partir dall’offensiva repubblicana nell’intento di placare la stretta nazionalista sulla capitale, tuttavia dopo dopo primario conseguimento d’obiettivi ed illusione di raggiunta vittoria, ad Esercito popolare e Brigate Internazionali non restando altra scelta che battere mestamente in ritirata, sotto i colpi della pressione franchista.
 
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Gerda Taro
Soldati a bordo della Corazzata Jaime I
Almería, Spagna
Febbraio 1937

 
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Gerda Taro
Soldati a Puerto de Navacerrada durante l’offensiva di Segovia, 1937

 
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Gerda Taro
Miliziani nel quartiere Carabanchel di Madrid
Giugno 1937

 
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Gerda Taro ritratta durante la battaglia di Guadalajara
Luglio 1937

 
Assiduamente fedele ad innata ideologia, non di rado Gerda Taro era solita spronare gli ardimentosi militi incitandoli all’attacco, in una sorta di partecipazione verbale parallelamente surclassante le di lei parole, nell’atto dell’esser fisicamente oltre il limite dell’ignorato terrore, al punto da riuscir a concretar meticolosi frammenti visivi della funesta distruzione, desolatamente catastrofica su esseri umani ed ambiente, consequenziale a bombardamenti ed incursioni, ingrata e meschina sorte colpendo la Taro allorquando — in rientro dalla prima linea mentre viaggiava sul predellino esterno di un veicolo traboccante soldati contusi e condotto dal generale e politico polacco KarolWalterŚwierczewski (1897-1947), all’epoca dei fatti comandante della XIV Brigata Internazionale — rovinosa caduta le fu causata dall’urto di un carro armato all’auto su cui era saltata nel panico generato da un attacco aereo tedesco, all’eco d’angosciosi mitragliamenti piovuti a raffica da cielo, ella — esile e minuta — a terra all’impietoso avanzar del cingolato fatalmente subendo lo schiacciamento del busto e, riportando indicibili ferite, sopportando il tormentato, estenuante e lungo tragitto verso l’ospedale madrileno di El Escoria, temerarietà, istinto di sopravvivenza ed estrema estremamente lucido autocontrollo, permettendole di tentare nel mentre, di comprimere le affusolate ed operose mani sul ventre per tamponare plausibile fuoriuscita di organi interni, a ciò sovrapponendosi disperati tentativi medici d’un salvataggio che in pochi istanti divenne chimera, di fatto le condizioni di Gerda apparendo nell’immediato talmente serie ed inequivocabili, d’annientar sul nascere qualsivoglia prognosi favorevole, la sofferente guerriera perseverando nel resistere ed al contempo mai mancando di porre domande riguardo alla propria — visceralmente amata — attrezzatura fotografica, fintantoché massicce dosi di morfina a lei somministrate nella pietosa intenzione di lenirle dolore, non le inevitabilmente annebbiarono facoltà intellettive, ai timidi albori del 26 luglio del 1937 l’eterea e soave sua anima da lei affrancandosi, nello svettar dignitosa ascesa alla volta celeste e le inermi spoglie trovando eterna pace al Père-Lachaise, con omaggiante monumento funebre forgiato dallo scultore, incisore e pittore Alberto Giacometti (1901-1966) — soggetti una conica bacinella ed il mitologico falco Horus, una delle più antiche divinità egizie simbolo di resurrezione — ed elogio in suo ricordo levandosi all’etere dalle commosse voci dei ragguardevoli poeti Louis Aragon (1897-1982) e Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, Pablo Neruda (1904-1973), all’estremo saluto accompagnandola più di centomila persone, fra le quali un inconsolabile ed affranto Capa, ineluttabilmente sfiancato dall’incolmabile vuoto lasciato dall’assenza dell’amata e immensa compagna le cui parole, pronunciate non molto tempo prima di perire, ne asserirono la smania di presenziar costantemente in prima linea come “unico modo per capire e compiere un buon lavoro”, ella conseguendo di lì a poco infelice primato d’essere la prima fotoreporter femminile di guerra a perdere la vita sul campo.
 
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Fra i molteplici affetti a rimembrarla, quello profondo della fotografa Assunta Adelaide Luigia Saltarini ‘Tina’ Modotti (1896-1942), che nome Maria aveva assunto nel luglio del 1936 allo scoppiar della Guerra Civile spagnola, venuta inaspettatamente a conoscenza della tragica dipartita della stimata e carissima collega — conosciuta l’anno seguente in corso di promozione, assieme al compagno Vidali, di Viento del Pueblo: Poesia En La Guerra, libro del drammaturgo e poeta spagnolo Miguel Hernández Gilabert (1910-1942) — come lei rischiando vita nello spendersi a favor di prossimo sotto l’incombere dei bombardamenti, nell’altruistico, lodevole e caritatevole aiutar profughi a raggiunger la frontiera, cocciutamente impermeabile a irresolute titubanze.

«Sai, Maria, all’ospedale da campo degli americani, vicino all’Escorial, hanno portato la piccoletta bionda, quella fotografa che ti cercava sempre».
«Gerda Taro?»
«Si, è finita sotto i cingoli di uno dei nostri carri armati, sul fronte di Brunete». (Elena Poniatowska, Tinissima)

 

Gerda Taro, La pequeña rubia 

La Guerra Civile spagnola si scrisse a caratteri cubitali nell’animo di Gerda e Robert, sia dal punto di vista professionale che da quello umano, rispettivamente l’allieva — la cui prima tessera stampa datata quattro febbraio 1936 — equiparando il maestro, fra i due creandosi un reciproco scambio di pratiche nozioni messe a punto sul filo d’impetuosi, audaci, magnanimi ed empirici clic e la coppia spartendosi sentita e solidale condivision di belligeranti esperienze assorbite dagli attoniti sguardi, fra timpani stravolti da esplosivi fragori e narici saturate da fumosi miasmi rimbombanti al fronte, a primo scoppio di conflitto la Taro giungendo a Barcelona, assumendo pseudonimo di, La pequeña rubia, «La piccola bionda» ed insieme a Capa collaborando con il fotografo e giornalista polacco David Szymin ‘Chim’ (1911-1956), noto come David Seymur — del terzetto nel 2007 verrà trovata una valigetta, a Città del Messico, al cui interno all’incirca 4500 negativi — iniziando coll’immortalar accadimenti nella zona meridionale di Córdoba e in quella nord-orientale dell’Aragona, Gerda avvalendosi d’una Rolleiflex, formato 6×6, con la qual realizzava fotografie quadrate, viceversa rettangolare il formato riprodotto dalla Contax o dalla Leica utilizzate da Robert, gradatamente la Taro sviluppando una propria autonomia ed anch’essa di Leica attrezzandosi, frattanto ampliando sfera d’amicizie nella frequentazione di personalità dichiaratamente antifasciste — fra i tanti lo scrittore, giornalista, critico letterario e attivista Eric Arthur Blair, ossia, George Orwell (1903-1950) e l’esimio articolista e romanziere Ernest Miller Hemingway (1899-1961), ambedue ad impegnato e pubblico supporto dei repubblicani spagnoli — e nell’ultima annata del breve arco vitale a lei concesso in prestito, sempre più rotocalchi pregiandosi dei suoi lavori ad univoca firma, rimbalzandone talento — in aggiunta ai già citati — i giornali The Illustrated London News, Life, Volks-Illustrierte, a Gerda l’editoria riconoscendo meritato ed ampio risvolto agli scatti ch’ella portò a termine da sola, storicamente perpetuando l’attacco di Valencia del febbraio 1937, pochi mesi prima della succitata battaglia di Brunete che ne interruppe bruscamente esistenza ed a tal proposito accidentali circostanze del fatale incidente venendo messe in forse da un articolo redatto per mano del giornalista britannico-austriaco, esperto di storia fotografica e generale, cultura e spionaggio, Robin Stummer — e pubblicato, il 9 ottobre 2008, sul New Statesman.
 

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Robert Capa (1913-1954), Gerda Taro, Cordoba, 1936

 
Frangenti di realtà verosimilmente non ricostruibili alla perfezione nella sventurata drammaticità della passata contingenza di quel giorno, al netto di ciò della Taro palesandosi la certezza d’una tempra divinamente refrattaria al panico e dell’effimero cammino sul mondo rimanendo l’orme d’una donna dal lesto e resiliente passo, convogliato con arguta e granitica dinamicità all’interno d’intollerabili e spietati orrori bellici, a contemporanei e posteri elargendo concreta possibilità d’immaginar l’inimmaginabile, per mezzo di fotografie scattate nel pieno dell’inferno.
 
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Gerda Taro
Soldati Repubblicani, 1937

 
Frizzante, divertente, sfuggevole, euforica, di raffinata avvenenza e calamitica sensualità, l’amabile Gerda mai smise di coltivar idee e nutrir ingegno, di sovente sostando nei caffè di Montparnasse — fra questi prediligendo la brasserie Le Café du Dôme — ad intavolar questioni e snocciolar riflessioni socio-politiche e storico-culturali, solar sorriso della ragazza ammiccandosi al trattar di sentimenti, vibrati interiori che a più uomini la legarono e sebben si narri d’un suo rifiutar proposta di matrimonio da parte di Capa, egli ne fu partner per antonomasia, uomo da luttuoso avvenimento addentro inconvertibilmente trafitto, al recupero delle spoglie in Tolosa giunto in sostentante compagnia di Ruth — il corpo della Taro avendo nel frattempo ricevuto ufficiale riconoscimento da parte dell’amico, poeta e drammaturgo, Rafael Alberti Merello (1902-1999) e dalla di lui moglie, sceneggiatrice e saggista, Maria Teresa Léon (1903-1988) — Robert all’amata sopravvivendo come un rassegnato passero offeso ad una ala, nel 1938 dissetandosi di ricordi nella pubblicazione del libro fotografico Death in the Making, a lei dedicato — con prefazione di Jay Cooke Allen Jr. (1900-1972), giornalista del Chicago Tribune — e custodente foto d’entrambi — oltre a quelle di Seymour e Kertész — e ininterrottamente perdurando come fotografo di guerra e in quella d’Indocina (1946-1954) trovando la morte lacerato da una mina ed all’anima gemella riunendosi in altra dimensione.

Sentimento fra i due andò germinando fra intesa professionale e vincolo di cuore, la coppia sorseggiando sapere su giornali sfogliati all’unisono in locali parigini e sorridendosi tra un frammento di storia corrente ed un pizzico di visionaria follia portata a realtà nell’intrinseco significato dei rispettivi scatti, alcuni dei quali erroneamente attribuiti a Capa ed in un secondo momento ricollegati a legittima proprietaria, indomita anima non incline a viver nell’ombra e quand’ancora in vita creando propria etichetta al nome Photo Taro, in particolar modo liberatorio sgancio professionale avvenendo nel fissar a imperitura memoria fotografica l’invasione di Valencia ed in tal maniera spiccando volo sullo sfondo della notorietà d’un Capa sempre più lucente, fiammeggio di fama — senza nulla togliere alle personali capacità di colui che diverrà il più importante fotografo di guerra della sua epoca — irrefutabilmente riflessa nella donna che ne fu brillante apprendista da principio e sagace insegnante poi, straordinariamente intuitiva nel predisporre all’uomo trampolino di lancio nel mondo, attraverso geniale e lungimirante ideazione del fantomatico personaggio Robert Capa, in seguito da lui personificato in toto e grazie a lei svettando nell’internazional panorama una carriera fin ad allora oscillante fra alti e bassi, tuttavia non riuscendo a raggiunger obiettivo tanto bramato, ovvero il condurla all’altare.

Neanche matta mi sposo. Voglio la mia indipendenza; voglio un nome per me, non voglio essere l’ombra di Capa, la proprietà di Capa. Diventerò più rispettata, più famosa e più conosciuta di lui, vedrai. Faccio amicizia con più facilità di lui; è me che cercano […] Sono stanca di fargli da secondo. La relazione fra uomini e donne sarà sempre una relazione di potere, per questo non mi sposerò mai. (Elena Poniatowska, Tinissima)

«La mia passione non è Capa, è la fotografia», parrebbe aver asserito la meravigliosamente sfrontata Gerda Taro, irriverente ragazza dall’inebriante e travolgente personalità, per natura incasellabile e d’istinto seguace di sé, anima e mente effondendosi in ogni suo scatto nell’intento di renderlo quanto più inclusivo possibile, afferrando anche la minima particella di realtà fra luoghi, fatti e persone, quasi come a voler inglobar l’inconcepibile andazzo del mondo bellico in una foto e riproporne il silente strido tramite sguardi, gestualità, oggetti, territori e nelle inquadrature scelte ponendo voluto accento su città rase al suolo, rifugiati, armi e combattenti, mai mancando di sottolineare il valore delle donne in tali frangenti e lei stessa rappresentandole nella forza manifestata in ogni contesto, della Leica facendo ardente e ineguagliabile mezzo di narrazione per il quale visse e morì, a causa in toto dedicandosi nell’empatia dell’affiancarsi — in corpo e spirito — ai soggetti ritratti e che fossero militi, civili, adulti o bambini, la Taro trasversalmente catturandoli nel terribile baleno di sconquassante sgomento che fa tremare e disorienta, fra disillusione e cardiopalmo essi smarrendo ogni sogno o speranza ed amaramente annientandosi nell’assurdità di quegli scontri che Gerda — rivoluzionaria nell’essenza e infinitamente possente nel trascinar a spalla per chilometri cinepresa, cavalletto e fotocamera come un’infervorata in ultima missione — abbrancò, dando scacco matto allo scorrer del tempo, arrestandolo fra ghiera ed obiettivo e fottendone l’inesorabile scorrere a dispetto d’obliante nebbia, resa impotente, dottamente dissolta e tramutata a racconto negli schemi di fotogrammi in equilibrio fra soffocante inquietudine ed ancestrale vitalità, da lei accolti come una futura madre la propria creatura nell’ovattato grembo.
 

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Robert Capa (1913-1954), Gerda Taro, ca. 1935

 
Lei, per l’appunto, disinibita, emancipata, insolentemente anticonformista e impudentemente audace, una Gerda Taro il cui viso prorompe l’indescrivibile, incantevole e squisita proporzione dei tratti, da Madre Natura su di lei ricamati nel capolavoro del volto che le fu dipinto riunendo fra deliziose sfaccettature espressive le peculiarità caratteriali infusele e mai smorzate da circostanze o imprevisti, esuberanza ingenita che si dice attraesse ad oltranza chiunque le capitasse accanto, ciò nondimeno talmente focosa ed incontenibile da doversi prendere a piccole dosi, allo stesso tempo non essendo possibile — per chi ebbe il privilegio di conoscerla — farne a meno, ella ramificandosi immensa in minuscoli vissuti negli anfratti d’ogni cuore conosciuto in carne ed ossa ed in quelli che dal suo eccentrico, ammaliante carisma, furono e saranno rapiti oltremisura.
 
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Gerda Taro, 1935

 
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Robert Capa (1913-1954), Gerda Taro, ca 1935

 
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David “Chim” Seymour (1911-1956), Gerda Taro, ca. 1936

 
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Gerda Taro, ca. 1937

 
 
 
 
Fotografie originali, presenti negli archivi dell’International Center of Photography
 

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