Paolo Troilo, l’anima dipinta con le mani
Dirompente, intimo, emotivo, Paolo Troilo scolpisce in pittura anime ch’esplodono tra vene rigonfie e volti deformati di corpi michelangioleschi, contratti e impetuosi che si contorcono in un grido profondo, liberatorio e squarciante. Pugliese di Taranto, Paolo Antonio Troilo nacque il 27 marzo 1972 e all’età di 4 anni, la madre Lucia lo mise davanti a una tela bianca, gli passò una piccola riproduzione di un dipinto del pittore toscano Giotto da Bondone e lo invitò a farne una copia. Da allora, non un giorno è trascorso senza illuminarne il sorgere di disegni sorgere, tuttavia anni dovrà dibattersi l’anima artistica prima di liberamente librarsi.
Il mio pubblico è nei miei lavori, quello che raffiguro non sono io, è un simbolo dell’essere umano.
Ottenuto il diploma di maturità ad indirizzo artistico, Troilo lasciò i luoghi della Taranta per recarsi a Roma e frequentare l’Istituto Europeo di Design, dopodiché fece tappa a Firenze, dove seguì i corsi universitari di Architettura e di Lettere, finché nel 1993 trovò impiego come assistente presso la società di comunicazione Alta e interruppe gli studi. Nel 1997 venne chiamato a Milano per entrare a far parte della Saatchi & Saatchi, una delle agenzie pubblicitarie più importanti del mondo e in breve tempo, ne divenne Art Director Senior realizzando numerose campagne di successo. Vi rimase fino al 2003, anno in cui passò alla Arnold Worldwide in qualità di Direttore Creativo e la carriera proseguì ricevendo premi e riconoscimenti, mantenendo rapporti e collaborazioni con il pubblicitario, giornalista e scrittore francese Jacques Séguéla, l’australiano David Droga, fondatore e presidente dell’agenzia Droga5 con sede a New York e ancora con una delle figure di maggior rilievo della comunicazione italiana, Paolo Ettorre, prematuramente scomparso nel 2007 all’età di 61 anni.
Nonostante tutto, quel mondo che sembrava appartenergli per volere del destino, agli occhi di Paolo Troilo stava smarrendo l’estro, la peculiare genialità, soffocando l’espressività che attendeva di conflagrare: «Come direttore creativo, dovevo essere molte persone diverse, adattarmi ai desideri di acquirenti, clienti e mercato stesso […] La mie giornate trascorrevano fra grandi quantità di lavoro, molti incontri e tanta politica, ma niente di reale. All’inizio della mia carriera, avrei viaggiato in tutto il mondo per catturare un luogo specifico per una campagna. Ora, se si desidera un certo ambiente, si ha una fantastica location 3-d e dentro si mette un modellino. Non è più necessario viaggiare. Si diventa un perfetto animale da ufficio».
Con la sensazione di vivere la fase finale di un pur radioso periodo, un giorno di settembre del 2003 si recò in un negozio di belle arti e acquistò in blocco quanto gli occorreva per dipingere, ma una volta tornato nel suo appartamento e posizionato la tela, realizzò di aver dimenticato di comprare i pennelli e da una semplice banalità scaturì l’arte. Iniziò a usar le dita e come soggetto per abbracciare l’universalità scelse se stesso, facendo quindi del suo corpo il mezzo attraverso cui liberare e riparare il dolore provato e quello dell’essere umano, invitando dunque con i suoi quadri a dare ascolto alla propria anima affinché possa la sua voce giungere alla coscienza: «Il dolore è come la gioia, energia. Il male della società contemporanea è quello di vivere una vita non propria, desideri che non le appartengono, dolori e gioie indotti. Quando siamo da soli, per pochi istanti a volte, ce ne accorgiamo. Quell’istante è quello che dipingo».
Paolo Troilo tratteggia l’emozione pura, elimina ambientazione, oggetti di qualunque genere, dalla tavolozza toglie anche il colore per arrivare a «dipingere direttamente, senza interferenze» e si rivolge esclusivamente alla regalità, alla forza impattante e al minimalismo del bianco e nero: «Sottolineano l’istante in cui tutto accade, non lasciando vie di fuga cromatiche o concettuali. Non c’è il verde di un prato, l’azzurro di un cielo, il rosso del sangue; limiti materiali e concettuali che ammorbidiscono l’impatto su occhi impreparati alla vera origine. La luce».
Trascorso un anno a perfezionare la tecnica ritraendosi con la macchina fotografica per poi trasporsi su tela fra ombre e avorio, cominciò a vendere le prime opere e nel 2006 queste iniziarono ad essere esposte suscitando immediato interesse di pubblico e critica. Quando nel 2009 la Arnold Worldwide prese in considerazione il taglio dei direttori creativi per far fronte alle sfide economiche durante la crisi di mercato, Paolo Troilo era all’apice della carriera pubblicitaria, ma l’artista non era più sepolto nel silenzio e ne aveva appena dato prova con la serie Conta Fino a Dieci e la successiva Il Mio Nome è Nessuno o, Forse, Centomila, per cui senza esitazioni colse l’occasione per abbandonare la professione e dedicarsi esclusivamente alla pittura.
Nel 2010 propose una personale senza titolo e nel 2011, in concomitanza al nuovo progetto Azioni, venne chiamato fra gli artisti rappresentanti del Padiglione Italia alla 54° Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia, un traguardo che fece correre il pensiero alla famiglia, alla madre, al babbo Antonio, «ma il telefono non funziona in Paradiso».
Il padre si spense nel 1995 e alla sua memoria, alla relazione fra padri e figli, Troilo ha dedicato la spirituale serie In the Name of the Fathers, 8 tele presentate a New York nel 2017, decorandole con parole altrettanto appassionate.
Nel Nome Dei Padri
Questo è un testo falso,
questo è un vero testo,
questa non è né verità né menzogna,
né il presente né il passato,
questo è qualcosa su mio padre,
queste sono lettere che si connettono tra loro
per trovare la forza di essere vicini a quello che è successo,
quello che ho visto,
ciò che i miei occhi hanno riflesso,
il mio naso ha odorato,
la mia pelle si è incontrata.
Questo è un tentativo,
il tentativo di segnalare qualcosa non presente,
queste sono frasi che rischiano di sembrare irreali e di perdersi,
questo indica un’ombra nel buio,
questo è un viaggio fatto da me stesso
sui miei stessi piedi.
Questo è un “nessun commento” alla domanda “chi sono io?”.
Questa è la storia che cade in una fiaba
e salta in una leggenda durante la corsa verso un’eredità.
Questo è il mio Apollo 13,
diretto da un regista morto.
Questo è mio padre:
il dottore,
l’anestesista a Taranto,
la città delle persone dipendenti dal gas killer,
il cugino di mia madre,
il figlio della sorella di sua suocera,
questo è un uomo vestito di bianco sconfitto da incidenti,
piangendo i genitori,
da una ripartizione cardio e piante cerebrali.
Questo è un uomo che ha perso molte volte,
di fronte alla “morte degli amici”
o quando ha cercato di diventare il capo del suo dipartimento,
o quando ha cercato di darmi il proprio nome,
Antonio,
all’ufficio anagrafe il giorno in cui sono nato,
o quando ha cercato di digerire il veleno molecolare
che stava insegnando alle sue cellule come morire giovani.
Se fossi uno scrittore futurista,
parlerei di lui attraverso il suono di strumenti medici,
le gocce di disordine chimico,
gli anelli dei telefoni alle 2 del mattino,
le dolci carezze,
l’acqua delle sponde sud,
e le voci dei tre bambini che chiedono “papà acqua per favore!”
E poi “anche io” e poi “anche io”.
Se fossi un artista del Rinascimento,
parlerei di lui con una gloria dipinta su una cupola,
ma capovolto,
scivolando verso il buco
mentre la vernice veniva lavata via all’interno di un catino.
Ma io sono Paolo Antonio Troilo,
figlio di Antonio Troilo,
padre di Antonio Troilo,
ed è così che l’ho dipinto,
questo è quello che posso dire di mio padre.
Tutto e niente.
Come un mancato grazie.
Continua con l’arte della finger painting di Iris Scott
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