La maternità ritratta e sublimata nell’arte pittorica
La maternità ha catturato l’estro d’innumerevoli pittori attraverso varie epoche e stili; dalle raffigurazioni sacre alle laiche, nella rappresentazione delle persone comuni o di regnanti e nobildonne, ugualmente unite nell’unicità di un’esperienza che accomuna ogni donna .
La donna che diviene madre e che sapienti pennelli hanno saputo concretizzare in raffigurazioni d’immenso realismo, ognuno secondo particolare abilità artistica e personale percezione.
È il delicato momento dell’allattamento ad apparire, sullo sfondo di un naturale paesaggio, in un particolarissimo e prospettico dipinto di Giorgione (Castelfranco Veneto, 1478 circa – Venezia, 1510), soggetto a numerose interpretazioni nel corso dei secoli. Il dipinto in questione, soprannominato dai posteri la Tempesta, racconta delle abili pennellate di un artista del cui vero nome e della biografia, nonostante la notevole popolarità raggiunta durante la sua esistenza, non si conosca molto, considerandone probabilmente sia la breve vita che la personale avversione (nonostante nella sua produzione non siano mancati soggetti sacri) ad intrecciare rapporti lavorativi con l’ambiente ecclesiastico, ai tempi garante di celere fama conseguente alle commissioni pittoriche affidate.
Fu infatti di sua personale predilezione il dedicarsi ad opere commissionate da una ristretta cerchia aristocratica con la quale condividere ideali umanistici e personaggi laicamente immersi in paesaggi naturalistici, peraltro realizzati in probabile chiave allegorica di significato verosimilmente conosciuto esclusivamente a lui stesso ed al committente dell’opera. Sotto protezione delle veneziane famiglie “Marcello”, “Contarini” e “Vendramin”, fu proprio fra le mura domestiche di quest’ultima che l’acculturato umanista ed esperto d’arte Marcantonio Michiel, notò il succitato dipinto, poi inserendolo fra le varie opere da lui visionate e registrate a taccuino, permettendone la postera attribuzione allo stesso Giorgione.
L’imperturbabile enigmaticità di Tempesta lo rende una delle tele più soggette a tentativi di decodificazione che mai troveranno conferma assoluta ed allo stesso tempo una delle opere più significative della pittura veneziana del Cinquecento, nella produzione artistica tipica della Maniera Moderna, ovvero l’appartenente al periodo del Rinascimento maturo che, una decade abbondante dopo la morte di Giorgione, sfocerà nel Manierismo.
Il paesaggio rappresentato, dipinto direttamente, senza disegni di preparazione sottostanti, raggiunge una prospettiva sorprendente senza ricorrere alla classica “lineare”, ma sapientemente dosando giochi di luce ed effetti cromatici conseguenti all’accostamento di determinati colori, influenzanti la loro luminosità l’uno sull’altro, tramite una tecnica tipica della tradizione pittorica veneta, soprattutto veneziana, del XVI secolo, il tonalismo. La particolarità della suddetta pratica, di cui Giorgione fu protagonista indiscusso, oltre che prezioso maestro di un giovane Tiziano, prevede l’utilizzo del colore, in tono su tono, che arrivi ad armonizzare la varie cromie sfumando i contorni ed ottenendo sia un realistico effetto prospettico che un perfetto immedesimarsi dei soggetti nel paesaggio.
Osservando Tempesta ci si trova effettivamente proiettati nell’atmosfera di un temporale che stia per esplodere impetuoso, allo stesso tempo percependo l’effetto della luce solare che ancora riesce a filtrare adagiandosi fra le case sullo sfondo ed fogliame, restituendo la sensazione della natura in tutta la sua potente bellezza sulla quale adagiare due figure umane completamente immerse nel giogo climatico. Sull’allegoria di fondo si sono scervellate almeno una trentina di differenti ipotesi, dalle bibliche alle storiche, dalle filosofiche alle mitologiche, restando comunque avvolta nel mistero la reale intenzione dell’artista, che apportò inoltre modifiche in fase di realizzazione; una terza donna, nuda ed in procinto d’immergersi nel ruscello, appariva infatti precedentemente nel dipinto, poi nascosta sotto strati di colore, come rivelato da un’analisi radiologica.
Chi fossero l’uomo in piedi e la donna seduta non è dato sapere, anche se Marcantonio Michiel, nell’annotare le proprie considerazioni, ipotizzò fosse una zingara: “el paesetto in tela cun la tempesta, cum la cingana [zingara] et soldato … de man de Zorzi de Castefranco”.
Al di là d’ogni arcano, la naturalità del rapporto fra la madre e il proprio pargolo in fase d’allattamento esplode in tutto il proprio candore, lievemente ombreggiato dallo sguardo della stessa donna che, proiettato in quello dell’osservatore, sembrerebbe manifestare, in seriosa e materno istinto protettivo, lieve rimprovero per intrusione nell’intimità dell’empatia.
Come per ogni tipologia d’arte, decine sono le possibilità d’immedesimazione, a seconda del personale sentire e nella Tempesta variegati risultano essere i particolari sui quali soffermarsi a seconda delle proprie inclinazioni al cogliere ma, sotto quel vento che smuove le fronde e che si riesce quasi a percepire sul viso, il nutrire d’una madre il proprio figlio resta magico aggancio sull’emotività, nell’armonia di un atavico gesto, commovente oltre secolo nel suo semplice manifestarsi.
Diedegli la natura tanto benigno spirito, che egli nel colorito a olio ed a fresco fece alcune vivezze ed altre cose morbide ed unite e sfumate talmente negli scuri, che fu cagione che molti di quegli che erano allora eccellenti, confessassero lui esser nato per metter lo spirito nelle figure, e per contraffar la freschezza della carne viva più che nessuno che dipignesse, non solo in Venezia ma per tutto … venuto poi l’anno circa 1507, Giorgione da Castelfranco … cominciò a dare alle sue opere più morbidezza e maggiore rilievo con bella maniera, usando nondimeno di cacciarsi avanti le cose vive e naturali, e di contraffarle quanto sapeva il meglio con i colori, e macchiarle con le tinte crude e dolci, secondo che il vivo mostrava, senza far disegno, tenendo per fermo che il dipignere solo con i colori stessi senz’altro studio di disegnare in carta fusse il vero e miglior modo di fare ed il vero disegno.
Giorgio Vasari (Arezzo, 1511 – Firenze, 1574), Le Vite, 1568
Celeberrima e valente ritrattista il cui tratto resta uno fra i più entusiasmanti nell’artistico panorama di raffigurazioni visuali, Élisabeth Vigée Le Brun (Parigi, 1755 – Louvenciennes, 1842) condusse la propria esistenza in un secolo, il XVIII, durante il quale il crescente manifestarsi della capacità pittorica femminile, spesso stilisticamente innovativa, veniva vissuta come minaccia dall’universo maschile, timoroso di appannaggio, che, per scongiurare una pressante concorrenza professionale, s’adoperò per limitare la presenza delle stesse nelle accademie.
Pregiudizievole maschilismo che, nonostante tutto, non fu d’ostacolo all’affermarsi della giovane pittrice la quale, degnamente figlia del ritrattista che ebbe a scioglierle l’arte nel DNA, non ancora ventenne divenne membro d’una corporazione di pittori parigini, l’Academie de Saint-Luc, dedicandosi vita ed animo al pennellare gentilezza attraverso lineamenti dipinti ponendo l’accento sull’animo effuso dagli stessi.
Confidenziale amicizia con la regina Maria Antonietta le aprì varco nelle più influenti corti, dove divenne ben presto la pittrice più richiesta e remunerata; la confidenza che la legava alla regnante la facilitò nell’entrare alla Royal Academy of Painting and Sculpture, dove solo 15 donne erano state ammesse dall’origine della stessa associazione.
L’invidiabile condizione di prestigio le attirò svariate calunnie sul piano professionale e personale, pur non ledendo la sua capacità operativa, che l’accompagnò per tutto il corso della sua vita, sia in patria che all’estero, dove si vide costretta ad esiliare con la figlia a conseguenza della rivoluzione del 1789 e giungendo sul suolo italiano con risorse finanziarie scelleratamente depauperate dal marito, da cui, nel frattempo, si era separata.
Resilienza, determinazione e passione per il pennello non demorsero, riportandola velocemente al centro della scena artistica ed ottenendo numerosi apprezzamenti di genere, fra i quali quelli di Raffaello. Terminato l’esilio nel 1800, negli anni successivi la donna rientrò nella sua Parigi, aprendovi un salotto letterario, ed alternando domicilio a Louvenciennes, dove morì all’età di 87 anni, sette anni dopo la pubblicazione dei suoi Souvenirs, memoriale pubblicato in diversi volumi e riportante le vicissitudini, personali e storiche, dell’epoca.
Delle circa 900 opere dipinte, due terzi furono ritratti ed un terzo soggetti storici o paesaggistici; numerosi gli autoritratti, alcuni insieme alla figlia Jeanne Julie Louise, nei quali, oltre alla raffinatezza ed eleganza della sua pittura, si tasta l’affettivo legame fra madre e figlia, peculiarità d’eviscerare sentimento con amorevolezza di pennellate che caratterizzò la sua intera produzione.
Autoritratto con la figlia Julie datato 1786, immortala la donna in affettuoso abbraccio con la figlioletta, nata nel 1780 ed alla quale la madre era particolarmente legata. Il dipinto, esposto nel 1787, fu causa di scandalo in quanto il sorriso di Elizabeth lasciava intravedere i denti, condizione ai tempi ritenuta poco convenzionale, opinionale bigottismo che nulla poté sulla dolcezza della raffigurazione in cui la tenerezza dello stringersi, la purezza degli sguardi, la sensazione dell’unione concretizzatasi nell’amore materno e l’incredibile realismo pittorico, surclassano ogni critica oltre tempo, rendendo immortale la capacità d’amare.
Medesimo museo e medesima tecnica a olio per Autoritratto con la figlia Julie eseguito a distanza di tre anni, espressiva pennellata intrisa di neoclassicismo dove la finezza dei lineamenti, la sceltezza dei colori e la maestria del ritrarre sono a personificazione del candore di fondo, miscelato fra arte e maternità.
Stilisticamente a metà strada fra il rococò ed il neoclassicismo, peculiarità di Elizabeth fu la cortese capacità di estrarre da ogni persona raffigurata l’interiorità racchiusa in essa, motivo per cui il dipinto Maria Antonietta con i suoi figli le venne commissionato, nel 1785, dalla stessa regina allo scopo di redimere la propria reputazione tramite le sue qualità di madre, essendo la stessa ormai invisa all’intero popolo, e non solo, ed ulteriormente diffamata dallo scandalo della collana, il tranello che, qualche anno prima, la contessa Jeanne de Saint-Rémy de Valois aveva perpetrato ai suoi danni ed a quelli del cardinale di Rohan.
Della trentina di quadri che la Le Brun fece per la famiglia reale, il ritratto della regina in veste materna sembrerebbe simbolicamente spogliare la donna di qualsiasi titolo, nonostante il regale contesto di fondo, lasciando spazio alla sola amorevolezza di posa della primogenita Maria Teresa Carlotta, inclinante il capo verso la madre, al secondogenito, delfino di Francia, Luigi Giuseppe, al penultimo nato Luigi Carlo, pasciuto fanciullo seduto in grembo ed all’incolmabile vuoto della culla in cui avrebbe dovuto esser presente la neonata Sofia Elena Beatrice, purtroppo deceduta di tubercolosi durante la realizzazione del ritratto.
Sebbene non potesse un quadro ritenersi sufficiente a riscattare l’immagine della regina, l’osservarne il fanciullesco stringersi a lei della prole, restituisce la sensazione di una madre nella semplicità del proprio ruolo, colei che per ogni figlio, al di là dell’appartenenza sociale e degli errori commessi, un tenero e caldo rifugio rimane a priori.
L’olio su tela, di 275×210 cm, è conservato nella reggia di Versailles, nella seconda delle 5 stanze del “Grande appartamento della regina”, ai tempi utilizzata per i pranzi ufficiali della famiglia reale.
È difficilissimo dare un’idea di tanta grazia e di tanta nobiltà a chi non abbia personalmente visto la regina. I suoi tratti non erano regolari; aveva ereditato dalla sua famiglia quell’ovale lungo e stretto del viso tipico delle sue origini austriache. I suoi occhi, non grandi, erano quasi azzurri; aveva lo sguardo vivo e dolce, il naso sottile e grazioso, la bocca regolare, nonostante le labbra fossero piuttosto marcate. Ma l’incarnato splendente era la connotazione più straordinaria del suo viso. Non ne ho mai visto uno così luminoso, e dire luminoso è l’unico modo per descriverlo: la sua pelle era, infatti, così trasparente da non prender l’ombra. Non potevo quindi rendere i contrasti come avrei voluto: mi difettavano i colori per dipingere quella freschezza, quei toni così fini, tipici della sua deliziosa figura, che non ho mai trovato in nessun’altra donna (…) La timidezza che all’inizio mi aveva ispirato l’aspetto della regina era scomparsa del tutto per la graziosa bontà che ella mi testimoniava. Quando Sua Maestà sentì dire che avevo una voce graziosa, durante le sedute mi faceva cantare con lei duetti di Grétry, perché amava immensamente la musica, sebbene non fosse perfettamente intonata. Mi sarebbe difficile descrivere tutta la grazia, tutta l’amabilità della sua conversazione: ritengo che la regina non si sia mai lasciata sfuggire l’occasione di dire una parola gentile a chi aveva l’onore di avvicinarla, e la bontà che sempre mi testimoniò è uno dei miei più dolci ricordi.
Élisabeth Vigée-Le Brun
Medesima sensazione di materno conforto emana da Alma parens del 1883, metaforico raffigurato di William-Adolphe Bouguereau (La Rochelle, 1825 – La Rochelle, 1905) in cui il tratto dell’accademico e neoclassico pittore si posa sulle anatomie in maniera puramente anacronistica, elevando la potenza della maternità a simbologia patriottica, corona d’alloro sul capo a simbolizzarne la gloria e la ricchezza della sua terra allegorizzata nel ramo di vite, nel grano e nelle spighe ai piedi della donna; fanciulli dunque posti a similitudine di cittadini in ricerca di sicurezza che, come teneri figli in attesa d’allattamento, nella fierezza della madrepatria trovano ristoro.
Lo stile di Bouguereau rimase sentitamente fedele a canoni di bellezza classici ed idealistici, sfumati di quel romanticismo che mai si stancò di ammorbidire le figure femminili secondo canoni immuni all’innovazione e alla modernità artistica, ragion per cui le sue opere, nonostante le eccellenti capacità tecniche ne abbiano originato dei realistici capolavori, peraltro sorretti da riconoscimenti e soddisfacenti remunerazioni, subirono un progressivo declino di popolarità, unito ad aspre critiche dopo la sua morte, fino ad una meritata rivalutazione negli anni Ottanta, a partir dal sincero apprezzamento della sua pittura da parte di Salvador Dalì.
La perenne ricerca della bellezza lo tradì in Famiglia indigente, essendo che, secondo taluni, la condizione di povertà estrema non potesse rispecchiarsi in tratti di beltà così armonica e per niente affaticata, le critiche che gli vennero mosse furono di un’artificiale rappresentazione della miseria, anche se forse, osservando lo sguardo di quella madre, l’enorme malinconia che ne trapela trafigge oltre ogni canone estetico, così come il tentativo di tenere a sé ogni figlio ed allo stesso tempo allungare una mano nella speranza di generosa elemosina. I piedi scalzi, posti in evidenza, gli abiti malconci e la prostrazione dei due bambini al suo fianco, sanno essere ugualmente perforanti sul cuore, oltre ogni giudizio.
Durante le otto decadi delle sua longeva esistenza, Bouguereau dipinse più di 800 opere riuscendo ad immortalare, con pennellata sopraffina, il nudo femminile nella sublime bellezza delle sue fattezze, ritenendo la pittura passione senza la quale, per sua stessa affermazione, sarebbe “uomo inutile”, dedizione totale ed avvolgente con la quale donare vita alle proprie creazioni.
E vita pulsa nei suoi ritratti materni fra l’empatia dei primi contatti, come in Ammirazione materna, nell’incantevole espressione della madre che, orgogliosa, osserva la propria creatura nella beata serenità dei sogni d’infante; l’inclinazione del capo della donna aggiunge trasporto alla soavità d’un gesto che si fa intima contemplazione e che, nell’oculato accostamento cromatico, nella scelta dei colori a contrasto, nella rappresentazione delle vesti, delle purpuree perle al collo e della chioma finemente raccolta, omaggia la femminea figura sullo sfondo di un rasserenante paesaggio di campagna.
Sono invece le accoglienti mura domestiche a farsi scrigni delle prime esperienze di maternità in Prime carezze e Giovane madre con bambino.
Nel primo dipinto una madre piacevolmente crogiolata nel contatto fisico con il proprio bimbo, di una sua carezza si compiace cullandolo fra un abbraccio ed un primo sorriso, sull’intendersi degli sguardi; il fuso alle sue spalle e la biancheria al suo fianco lasciano quel sentore di casa e quotidianità, in cui sperimentarsi e conoscersi in un neonato rapporto.
In Giovane madre con bambino è un intreccio di mani alla vita del bimbo, accompagnato ad una premurosa espressone ridente, a permettere di captare il materno sentimento di ammirazione ed ancora una volta il capo s’inclina come a voler cedere all’incanto, di nuovo scoprendo dorate perle sul collo, aggrazianti la femminilità; è invece il camino ad ovattare l’atmosfera domestica, illuminata dall’angelica bellezza del fanciullo in placida attesa.
Per me un’opera d’arte deve essere un’elevata interpretazione della natura.
La ricerca dell’ideale è stato il proposito di tutta la mia vita.
William-Adolphe Bouguereau
Ottimismo, inventiva e determinazione hanno reso Pierre-Auguste Renoir (Limoge, 1841 – Cagnes-sur-Mer, 1919) il pittore più frizzante di tutto l’impressionismo, sciogliendone animo e nuances fra lo stile di vita bohémien di fine Ottocento, accomunante tutti gli artisti, non convenzionali, delle principali città europee, emarginati e immiseriti dal non subire le imposizioni della società del tempo. Talento d’infante e pura passione artistica nelle vene spronarono Renoir a condurre una risulta esistenza per poi riproporla nei suoi dipinti, genuinamente arricchiti da personaggi danzanti, conversazioni amichevoli, spensieratezza e ottimistica gioia di vivere in barba alle ristrettezze economiche, fissata su tela dalla sopraffina abilità tra luci e colori catturati nella pittura all’aperto (ne plein air) e dipinta nelle femminee e generose forme, tipiche delle sue raffigurazioni femminili.
Sua musa ispiratrice e modella per i suoi dipinti fu Aline Victorine Charigot, la donna che poi divenne sua moglie e dalla quale ebbe tre figli; la stessa apparirà in moltissimi dei suoi quadri, in veste di madre e non solo, non oltretutto l’unica donna ad essere ritratta in compagnia della propria prole.
Appartenente al periodo impressionista dell’autore, Madame Charpentier con i figli, raffigura infatti Marguérite, la moglie del celebre editore di letteratura francese Georges Charpentier, delineata nella sua figura di madre in contemporanea adesione alle mode dell’epoca; il suo elegante abito porta infatti firma di Charles Frederick Worth ed i loro figli indossano vestiti accuratamente abbinati fra di loro. La bimba, Georgette-Berthe, sta seduta sul cane di famiglia mentre il figlio più piccolo, Paul-Émile-Charles, appare con i capelli non ancora tagliati, sulla base dei canoni dei tempi. Nonostante nel ritratto sia intenzionale il porre accento al contesto aristocratico della famiglia, lo stile pittorico del pittore prevale nell’ottenere, tramite scelta cromatica ed espressività dei visi, un ritorno di armonica e spontanea atmosfera familiare.
Di paterna ispirazione la Maternità, altrimenti noto come Madame Renoir con il figlio Pierre, è uno dei vari disegni o pitture ad olio ai quali si dedicò da Renoir dopo la nascita del figlio, avvenuta il 21 marzo del 1885, in cui appare la futura sposa Aline, in fase d’allattamento. La figura della donna e del neonato prevalgono sullo sfondo di una campagna appena accennata e l’intimo rapporto di nutrizione è vivacizzato dalla tenera mossa del neonato che, mentre s’appaga di latte, gioca con il proprio piede.
Un dipinto deve essere una cosa amabile, allegra e bella, sì, bella. Ci sono già abbastanza cose noiose nella vita senza che ci si metta a fabbricarne altre. So bene che è difficile far ammettere che un dipinto possa appartenere alla grandissima pittura pur rimanendo allegro. La gente che ride non viene mai presa sul serio.
Pierre-Auguste Renoir
Rivoluzionario spirito impressionista soffiò nell’animo di Mary Cassatt (Allegheny, 1844 – Château de Beaufresne, Le Mesnil-Théribus, 1926), pittrice alla quale innata concretezza d’ideali concesse la fortuna di poter dipingere seguendo indole di setola, perfezionata nella tecnica dalla frequentazione dell’Academy of the Fine Arts ed arricchita da numerosi viaggi di studio entro confini europei, per poi trasferirsi a Parigi, insieme alla madre ed alla sorella, con le quali seppe tessere un intenso rapporto d’affetto, allentato, al contrario, con il padre, in quanto ostacolante la sua scelta carrieristica. Bastone fra le ruote tuttavia con limitata capacità d’arresto, poiché Mary seppe autofinanziarsi con la vendita delle sue opere, poi ritornando fra suolo italiano e francese, successivamente iniziando ad apprezzare la pittura di Edgard Degas, dopo aver visto dei suoi pastelli nel 1875, innamorandosene e lasciandosi sedurre dal movimento impressionista a cui, a partire da quello stesso anno, iniziò ad appassionarsi.
Lo stesso Degas aveva visionato un quadro della Cassatt, Ida, sentendone una sorta d’affinità pittorica, sensazione che, dal loro primo incontro nel 1977, sfocio in una collaborazione lavorativa attraverso la quale sperimentarsi entrambi in nuove tecniche, spesso sovrapposte l’una all’altra, intensificando allo stesso tempo il loro rapporto interpersonale.
Perennemente attiva, nonostante la maggior dose d’intraprendenza da dover investire per raggiungere riconoscimenti al merito, in una società dove ancor il maschilismo dilagava, la pittrice ribelle, d’indubbia capacità, oltre che artistica, relazionale ed imprenditoriale, si fece strada nel panorama internazionale, spesso a sostegno dei diritti civili delle donne.
Cecità ne interruppe l’attività, ma non sfregiandone le personali convinzioni, ricordandola al mondo come una delle pittrici americane più rappresentative.
Fulcro della magistrale produzione pittorica di Mary fu la quotidianità, riportata a tela tramite i vissuti familiari dei suoi soggetti, spesso incentrati sulle peculiare relazione esistente fra madre e figli, nella moltitudine di dipinti che la videro immortalare i rapporti materni fra colori e sublimità di tratto. Dipinti in cui poeticamente ritrasse l’arte materna del primo accudimento, l’incantevole momento dell’allattamento, l’amore di un bacio, la dedizione nel gioco, sino alla Giovane madre che cuce del 1900, le cui gambe si fan morbido e rassicurante appoggio alla figlia.
Frammenti di vita borghese che comune sottofondo divengono ad opere dalla Cassatt concepite secondo la stimante venerazione della donna nel suo ruolo di madre e lavoratrice, ritratta con cortesia, raffinatezza di tratto, squisitezza d’animo ed incredibile capacità di trasmettere alla tela reali storie di ordinarietà.
Ho toccato con un senso d’arte alcune persone, si sono sentiti l’amore e la vita. Puoi offrirmi qualcosa da confrontare con quella gioia per un artista?
Mari Cassatt
Seduzione di colore fu invece colpo al cuore per Vincent van Gogh (Zundert, 1853 – Auvers-sue-Oise, 1890), artista il cui pennello iniziò ad intingersi nel colore in là nel tempo, al ventottesimo anno di vita di un uomo che, negli anni giovanili, legò la propria amorevolezza al mondo contadino, con generale predisposizione nei confronti dei lavoratori consumati dalla fatica di grevi mansioni e sfibrati dalle diffuse condizioni di povertà.
Casualmente avvicinatosi alla pittura tramite l’attività lavorativa del fratello, commerciante di opere d’arte, innata capacità artistica e bontà d’animo confluirono sulla tela nella rappresentazione dei braccianti e del loro infaticabile operare, inneggiando all’umiltà di una condizione esclusa da qualsiasi privilegio sociale, ma, a livello valoriale, in cima alla classifica esistenziale.
Un percorso pittorico tratteggiato sulla percezione della dignità fra semina ed aratro, fra raccolto, stanchezza e sofferenza, il tutto affiancato a rappresentazioni di cieli magicamente stellati, fiorenti campi di grano, paesaggi naturali, fiori, ambienti interni o vie cittadine; un piccolo universo adattato alla propria percezione interiore fin al punto d’affrancarsi da ogni rappresentazione meramente realistica, me incredibilmente fedele al proprio sentire ed alla fiducia nell’uomo legato alla sua terra.
Tipicità di pennellata prevalentemente osannante il giallo cromo, una particolarità di giallo a base di cromato di piombo che fu il perno, sensoriale e materiale, di tutta la sua produzione, in una sorta di letteratura del dipingere che plasmò il mondo reale a tela fra lucidità ed allucinazione, nella malinconia d’essere sospesa sul precario equilibrio mentale di un artista senza pari.
La stanchezza d’una madre si concretizza, fra un camino ed un piccolo sgabello di legno, sul viso d’una donna esausta nelle lineari pennellate di Uomo al mare del 1889, accoccolante scena di genuina consuetudine dove la fatica umana s’abbandona al caldo ristoro del fuoco. Nell’opera Primi passi, dipinta l’anno successivo, il primo cammino appartiene ad una fanciullina che tenta il suo incedere sul mondo, da van Gogh raffigurato nel rassicurante ménage familiare d’una donna la cui schiena è piegata a reggere l’infante, tanto quella dell’uomo che, abbandonati per un attimo gli attrezzi da lavoro, si prepara ad accogliere la fanciullesca marcia della propria bimba.
Il bucato al vento, oltre a restituire la sensazione di veracità domestica, ancora una volta rimanda al valore primo della fatica umana, in tutte le sue sfaccettature.
Cosa altro si può fare, pensando a tutte le cose la cui ragione non si comprende, se non perdere lo sguardo sui campi di grano. La loro storia è la nostra, perché noi, che viviamo di pane, non siamo forse grano in larga parte?
Vincent van Gogh
Plausibilmente, una fra le rappresentazioni stilisticamente più fantasiose della donna appartiene all’estro di Gustav Klimt (Vienna,1862 – Vienna,1918), artista poliedrico e ritrattore di spicco dell’agiata borghesia viennese industriale che, nel dedicarsi alla raffigurazione della femminilità, s’affidò ad un’indiscutibile eleganza di tratto, arricchita con preziose decorazioni d’oro puro in foglia (verosimilmente influenzato dall’attività d’orafo del padre) ed armonizzata attraverso la morbidezza delle linee, con il risultato di un fine e passionale erotismo che dalla tela si effonde alla percezione di chi la osservi.
Totale nudità d’una donna in stato di gravidanza, di fulva e riccia capigliatura, è protagonista del dipinto Speranza (1903) che l’autore, conscio del rischio di critica per lo scottante soggetto, presentò solamente sei anni dopo la sua realizzazione, svelando il corpo d’una gravida insolitamente magra ed impallidita, di sobrio sguardo ed apparente malinconia, sebbene in languido abbraccio alla sommità del proprio ventre. Sullo sfondo visi deformati ed un teschio, quasi a simbolizzare l’inquietudine dell’attesa, nella speranza di un lieto fine a parto concluso.
Medesimo tema viene ripreso in Speranza II datato fra il 1907 e 1908, d’impatto cromatico decisamente opposto, dove la donna, rappresentata su uno sfondo dorato, è abbigliata di veste decorata da una moltitudine di sfumature evocanti solarità; anch’essa, come la precedente, è posta di profilo, stavolta anche nel viso, rivolto al nascituro, mentre nel precedente il volto è girato verso l’osservatore. L’atmosfera, nella globalità pittorica, differisce dalla precedente in fiducia e radiosità, restituendo una serenità antitetica alla precedente inquietudine, pur persistendo la presenza d’un piccolo teschio e di addolorate donne apparentemente costernate.
Le tre età della donna (1905) sono invece fissate a tela in soave allegoria sulle stagioni della vita, pennellate nelle sembianze di un’anziana donna verso la fine del suo percorso esistenziale, da una donna più giovane e bella e da sua figlia, che la stessa unisce a sé in un abbraccio dove la chiusura degli occhi sembra donare maggior trasporto al reciproco sentimento amoroso. I fiori sparsi fra i capelli della madre, sottendono la giovane età della stessa, contemporaneamente ricordando la precarietà della vita e la ciclicità ad essa intrinseca.
Ecletticismo stilistico pervade la pittura di Pablo Ruyz y Picasso (Malaga, 1881 – Mougins, 1973), delineandolo in quattro tecniche artistiche ben precise, collimanti con i suoi personali vissuti e corrispondenti al periodo blu, dove, con predominanza dello stesso colore, egli dipinge prevalentemente la quotidianità delle persone comuni ed affrante; al periodo rosa, utilizzando la rosata tinta per dipingere personaggi da lui osservati, spesso circensi, e allentando la tensione sui loro volti; al Cubismo, con particolare dedizione a forme geometriche tipiche della corrente, ispirato da vari artisti; infine al Post-Cubismo, di ritorno a soggetti più classici e simbologia di stampo surrealista ed espressionista.
Rispettivamente del periodo blu e rosa è la sua personale rappresentazione della maternità in Maternità del 1901 e nell’omonima tela realizzata nel 1905.
Madre e figlio del primo dipinto sono ritratti nella natura, presumibilmente una grotta, dove la scura tonalità effonde un’atmosfera cupa e dolorosa; la donna appare in stato di preoccupazione, lo stesso che sembra calarsi sull’espressione del fanciullo, nonostante lo stretto ed avvolgente abbraccio che lo custodisce.
Quella del 1905 è la maternità celeberrima di Picasso, dove le tonalità schiariscono e la sofferenza sembra sciogliersi fra le stesse, in particolar modo nell’espressione della donna che osserva il proprio figlio apparentemente più serena rispetto alla precedente, come effuso anche dalla maggiore luminosità dell’incarnato e dalla dolcezza del volto, incorniciato da quel ciuffo ribelle che sfugge alla chioma. Un viso non eccessivamente solare, a dimostrazione di quanto la maternità susciti comprensibili preoccupazioni, ma comunque decisamente più disteso e meno afflitto.
Sempre del periodo blu è Maternità in un campo del 1901, dove l’apprensione sembra riaffiorare sul volto della donna e del bambino, anche qui stretti in un tenero e protettivo abbraccio; tuttavia, il paesaggio rurale di fondo e la scelta dei colori con i quali dipingerlo, più brillanti rispetto al blu, tendono ad affievolire la percezione della tristezza, comunque intuibile nel malinconico sguardo materno.
Madre e figlio acrobati (1905), ancora del periodo rosa, trasporta sulla tela l’emarginazione degli artisti circensi, persone dalle impressionanti abilità, spesso derisi e non considerati dalla società; l’emozione che gli stessi suscitarono in Pablo è percettibile nelle espressioni della madre e del figlio, assorti nei loro pensieri e mestamente suddivisi da un muro di silenzio che sembra amareggiato disincanto, commovente in particolare modo nelle braccia conserte del ragazzino, palesemente avvilito.
Madre con bambino è stato invece dipinto dall’artista dopo la nascita del suo primo figlio, curiosamente rappresentando maternità e paternità insieme; come si può notare ad un’attenta osservazione, dietro la donna lievemente appare un uomo che, insieme alla stessa, abbraccia il neonato. Anche il sesso del nascituro passa in secondo piano rispetto all’amore, infatti il bimbo ha una mano femminile ed una maschile, a dimostrazione del fatto che l’affetto genitoriale non dovrebbe avere limiti o pregiudizi.
A quattro anni dipingevo come Raffaello, però ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino.
Pablo Picasso
Figlie dell’art déco sono invece le donne di Tamara de Lempicka, nata Maria Gurwik-Górska (Varsavia 1898 – Cuernavaca,1980), elegante ed intraprendente donna indomita alle convinzioni borghesi e ben decisa a rappresentare nei suoi dipinti l’idea di una donna libera ed indipendente, con particolare tecnica volta a rappresentare i loro visi in maniera innaturale e quasi caricaturale, sprigionanti serietà e freddezza miscelate ad atteggiamenti d’estrema sicurezza. La malinconia che sembra pervadere ogni donna è probabilmente una trasposizione di sé, dell’avvenente e spregiudicata Tamara, toccata da talento e successo, ma sfibrata da un’opprimente forma di depressione che ne graffiò l’intera esistenza, nell’infanzia allietata dalle amorevoli cure dalla nonna, dopo l’abbandono (o il suicidio) del padre.
In seguito alla morte della stessa, la sua vita proseguì fra continui spostamenti, sregolatezze e vita mondana, contemporaneamente dipingendo, a farneticante ritmo, per donne dell’alta aristocrazia ed intensa attività proseguì negli anni Trenta, fino alla fuga che, essendo il padre di origini ebraiche, la costrinse a lasciare l’Europa in periodo di persecuzione nazista, trovando velocemente successo in patria americana.
Lo stile dell’eccentrica pittrice si avvalse dell’utilizzo di un ristretto numero di colori, portati alla massima luminosità ed uniti a tratti nitidi e meticolosi, ottenendo un effetto tenace ed energico.
Tenerezza di setola la colse in alcuni dipinti in cui la versione materna della Lempicka acquista in tenerezza, pur non cedendo all’impeccabile tenuta estetica della propria persona, sia nelle vesti che nei gioielli, mantenendo comunque uno sguardo dallo spessore smisuratamente triste; talvolta l’aumentata morbidezza delle vesti e la circolarità dell’abbraccio sembrano addolcire le consuete linee tecniche utilizzate, conferendo armonia all’unicità di un gesto che solamente ad una madre e alla propria creatura appartiene nella sua pienezza.
Ho sempre amato le persone che ho ritratto, donne o uomini che fossero!
Naturalmente occorrerebbe mettersi d’accordo sul termine amare.
Tamara de Lempicka
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