Leonardo da Vinci e il Salvator Mundi: romanzesca storia di un prezioso dipinto
Ruota attorno al nome d’uno dei più ingegnosi intelletti dell’umanità il mistero del Salvator Mundi, opera dal 2010 attribuita a Leonardo da Vinci e presentata ufficialmente al pubblico, dal 9 novembre 2011 al 15 febbraio 2012, nella mostra Leonardo Da Vinci: Painter at the Court of Milan, ospitata dal rinomato museo d’arte britannico National Gallery — presso la storica sede della splendida Trafalgar Square — e considerata «la più completa esposizione mai tenuta dei rari, sopravvissuti, dipinti di Leonardo», arricchita da opere gentilmente donate in prestito da collezioni sparse in più parti del mondo.
…gl’ingegni elevati, talhor, che manco lavorano, più adoperano, cercando có la mente l’invenzioni, & formandosi quelle perfette idee, che poi esprimono, & ritraggono le mani, da quelle già concepute ne l’intelletto.
Leonardo da Vinci per parola di Giorgio Vasari (1511-1574), in Delle vite de’ più Eccellenti Pittori, Scultori et Architetti, 1550
Scienziato, inventore, filosofo, scultore, trattatista, architetto, pittore, scenografo, anatomista, disegnatore, progettista, ingegnere, botanico e musicista, Leonardo di ser Piero da Vincinella nacque il 15 aprile 1452*— verosimilmente nella fiorentina frazione comunale di Anchiano — come primogenito della relazione illegittima intrattenutasi fra il notaio Ser Piero d’Antonio di ser Piero di ser Guido da Vinci (1426-1504) e la presunta Caterina di Meo Lippi (ca. 1431-1493), o Caterina Buti del Vacca, donna d’umili origini allontanata da amante e figlio ad un solo anno dalla nascita di quest’ultimo, contrariamente alle tendenze dell’epoca accettato con entusiasmo dal nonno paterno Antonio (1373-1468 circa), al punto da citare Lionardo fra la ristretta rosa di parenti indicati come eredi testamentari.
Manifestando precoce interesse per il disegno, Leonardo trascorse vita all’insegna dell’attività artistico-scientifica che l’avrebbe incomparabilmente impresso nella storia, a cavallo fra due secoli egli non solo sunteggiando gli aspetti quattrocenteschi, bensì gettando le basi della cultura del Cinquecento, indomitamente travolto da curiosa sete di sapere — soddisfatta tra pratica e teoria — fra disegni, dipinti, monumenti, studi, progetti e quant’altro gli permettesse di spaziare in quasi tutti i settori del conoscibile umano.
Pochi anni prima della nascita di Leonardo da Vinci, l’ambizioso Francesco Sforza (1401-1466) — condottiero al servizio del duca di Milano Filippo Maria Visconti (1392-1447) — era divenuto erede al titolo sposandone la figlia Bianca Maria (1425-1468), alla morte del di lei padre venendo tuttavia disconosciuto dai meneghini e pertanto raggiungendo ambito traguardo con lo storico assedio, durato otto mesi, della città, in un periodo durante il quale la cultura artistica lombarda iniziava a schiudersi a innovativi modelli rinascimentali, in particolare modo diffusisi in territorio fiorentino grazie a fitti contatti politico-economici e nei sedici anni che lo videro in carica egli patrocinando grandi opere di restauro e urbanistiche, avvalendosi — fra gli altri — del prezioso apporto dell’architetto e scultore Antonio di Pietro Averlino, detto Filarete (1400-1469), destinatario d’importanti commissioni — realizzate in fede ad uno stile dalle linee ben definite, al contempo non disdegnando apporti decorativi — e autore di un Trattato di architettura fra le cui pagine il teorico ipotizzò come avrebbe dovuto essere la “città ideale”, immaginata in pianta a stella di otto punte, inserita in cinta muraria e denominata Sforzinda, in omaggio alla nobile famiglia italiana di riferimento.
Successori di Francesco Sforza ne furono l’erede Galeazzo Maria (1444-1476) — assassinato ad appena una decade di ducato — e il figlio Gian Galeazzo Maria (1469-1494), provvisoria reggenza, vista la tenera età del fanciullo, venendo assunta, per proclamazione del nove gennaio 1477, dalla madre Bona di Savoia (1449-1503), nel 1480 la donna subendo esilio per mano del cognato Ludovico Maria, ‘il Moro’ (1452-1508), quest’ultimo a lei sostituendosi come tutore del nipote nei quattordici anni successivi e imponendogli di vivere nel pavese Castello Visconteo — che ne fu anche dimora coniugale dopo il matrimonio con Isabella d’Aragona (1470-1524) — dunque lo zio paterno acquisendo titolo a precoce dipartita del giovane nipote.
Nel quinquennio di governo dell’intraprendente Ludovico Maria Sforza, Milano fiorì in radioso spirito rinascimentale e la sua corte s’annoverò fra le più belle d’Europa, le meravigliose stanze del Castello Sforzesco pullulando di artisti e letterati provenienti fra i quali, nel 1482, Leonardo da Vinci, che dal duca milanese sarebbe stato incaricato di realizzare il Cenacolo, nella più celebre raffigurazione dell’Ultima cena — dal 1980 annoverata nell’UNESCO — fra il 1494 e 1498 il sapiente pittore, con tecnica sperimentale, dando vita a un dipinto parietale su intonaco secco e — infuso nella solennità del refettorio dei padri Domenicani della Chiesa di Santa Maria delle Grazie — siglando uno straordinario capolavoro.
Quando Leonardo giunse in Milano, a lui s’aprirono le porte d’un città popolata — come poche altre in Europa — da più di centomila abitanti e altamente prolifica, allontanamento da Firenze avvenendo sia per motivazioni personali che diplomatiche in quanto, se da un lato a spronarne partenza fu il politico, mecenate, scrittore, poeta e umanista Lorenzo di Piero de’ Medici, ‘il Magnifico’ (1449-1492) — ch’era solito mandare i migliori artisti locali in visita a prestigiose signorie italiane, per modo da diramare arte e cultura fiorentina — dall’altro sgorgava direttamente dal petto del poliedrico vinciano l’aspirazione di farsi strada in ambienti oltremodo stimolanti e in costante mutamento, motivo che lo spinse a scrivere al duca una lunghissima «lettera d’impiego» — contenuta nel Codice Atlantico — elencandogli i propri progetti — su più discipline — senza tuttavia incontrare immediato consenso, probabilmente anche a causa dell’iniziale incomprensibilità della lingua romanza, difatti primissimo mandato concretizzandosi all’incirca un anno dopo il suo arrivo, quando il 25 aprile 1483, Bartolomeo Scorione — priore della Confraternita laica maschile milanese dell’Immacolata Concezione — lo contattò per eseguire una pala da porre sull’altare della cappella, nella Chiesa di San Francesco Grande — luogo di culto che verrà demolito nel 1806 — sulla quale Leonardo dipingerà la famosa e singolare Vergine delle Rocce.
Mantenendosi dinamico sul fronte dell’apprendimento attraverso costanti studi ed esperimenti, in quegli anni il genio toscano — plausibilmente entrato nelle grazie di Ludovico Maria Sforza — oltre al mantenere operosa la propria setola, in aggiunta all’abile destreggiarsi come scenografo di corte, dottamente si spese in progettazioni d’irrigazione per la città, una volta terminata la Vergine delle Rocce dedicandosi a ulteriori Madonne e ritrattistica, nel biennio fra il 1488 e il 1490 ordinativi ducali progressivamente accrescendosi, fino a che occupazione francese del Ducato di Milano (1499-1504), non lo costrinse ad abbandonare provvisoriamente la città, ritornandovi nel 1508, dopo aver fatto tappa a Mantova, Venezia, Roma, Firenze, Urbino e — fra il 1503 e il 1506 — nella terra natia a tavola di pioppo magistralmente fissando in olio, l’arcana ed ammaliante Gioconda.
Artisticamente e scientificamente inarrestabile, ad inizio del Cinquecento Leonardo da Vinci acuì conoscenze sul volo e sull’anatomia dei volatili — da prendere a riferimento nel costruire prototipi di apparecchi — e in Roma, raggiunta nel 1514 in seguito a definitivo abbandono di Milano, ingegno perseverando a nutrire approfondendo discipline geometriche, ottiche, meccaniche e nel 1517 stabilendosi all’interno di confini francesi, in appassionata e gratificante consacrazione alle proprie ricerche e il 23 aprile 1519, in Amboise, egli riunendosi a Dio, di sé lasciando indelebile e inarrivabile retaggio.
Quelli che s’innamoran di pratica sanza scienzia, son come ‘l nocchieri ch’entra in navilio sanza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada. Sempre la pratica deve essere edificata sopra la bona teorica, della quale la prospettiva è guida e porta, e senza questa nulla si fa bene.
Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, ca. 1540
Leonardo da Vinci: «Facil cosa è, all’uomo che sa, farsi universale»
Al lasso di tempo vissuto in Milano, appartiene il Salvator Mundi, forse commissionato dal re francese Luigi XII di Valois-Orléans (1462-1515) e posteriormente all’invasione dell’esercito di Francia portato in un convento di Nantes, del misterioso dipinto rimanendo alcuni studi preparatori per la maggior parte gelosamente custoditi nella britannica residenza reale di Windsor e reminiscenza dell’originale principalmente rievocandosi nella litografia che — intorno al 1650 — ne ricavò, con estrema precisione, l’incisore e acquafortista ceco, Wenceslaus Hollar (1607-1677), direttamente accedendo alle collezioni del Carlo I Stuart d’Inghilterra (1600-1649), su richiesta della vedova Enrichetta Maria di Borbone (1609-1669), prima che il Salvator Mundi venisse messo all’asta, nel 1763, da uno dei figli del duca, politico e poeta, John Sheffield (1648-1721) e poi scomparisse per più di due due secoli, in principio Novecento riproponendosi in una compravendita — del pittore e commerciante d’arte sir John Charles Robinson (1824-1913) a favore dell’esorbitante collezione di Francis Cook, I Visconte di Montserrate (1817-1901) — come opera di Bernardino Luini (1480-1532) o Giovanni Antonio Boltraffio (1467-1516), entrambi allievi di Leonardo, nel 1958 rivenduta a 45 sterline alla casa d’aste Sotheby’s e per quarantasette anni nuovamente eclissandosi, oltre al fatto che a suscitare aggiuntivi dubbi furono le parecchie riproduzioni, tanto di bottega leonardesca, che ne creò una ventina, quanto di pittori — allora brulicanti — impegnati a scoprirne ed imitarne lo stile, a tal proposito uno fra gli alternativi Salvator Mundi di maggior fama essendo quello di Antonio di Giovanni de Antonio, in memoria al nome d’Antonello da Messina (ca.1430-1479), conservato alla National Gallery di Londra e datato nel decennio 1465-1475.
Olio su tavola in legno di noce, racchiuso in 65,7 x 45,7 centimetri, il Salvator Mundi rappresenta la caratteristica iconografia bizantina — nel Vecchio Continente popolare tra il quindicesimo e il sedicesimo secolo — in posizione frontale e a mezzo busto, del Cristo Pantocratore — l’Onnipotente che nell’Apocalisse dell’apostolo evangelista Giovanni afferma: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine» — nell’atto di benedire sollevando la mano destra, mentre la sinistra sorregge una sfera in quarzo ialino, o cristallo di rocca — la cui purezza simbolo d’innocenza, fede e verità — che solamente una mente forte di conoscenze sulla rifrazione ottica sarebbe stata in grado di figurare in quel modo, ciò portando a credere che mano leonardesca ne sia artefice, in affianco a dettagli che suggeriscono una padronanza di tratto e un’erudizione pittorica non comuni, difficilmente conferibili ad un praticante o discepolo che fosse, ma odierno e avvincente dilemma, non ancor del tutto risolto, consistendo nel chiedersi se sia interamente frutto di Leonardo o se, in alternativa, egli ne abbia concepito ideazione, delegandone compimento ai propri scolari, intervenendo di sua mano solamente a migliorare alcuni elementi.
Protagonista di contrastanti congetture ancora lontane dall’essere confermate con assoluta certezza — portate sullo schermo nel 2021 dal documentario Salvator Mundi, la stupéfiante affaire du dernier Vinci, a regia dello scrittore, giornalista e autore per la televisione francese Antoine Vitkine — il recondito quadro — dopo essere rimasto appeso per quasi un cinquantennio alle pareti domestiche di Basil Clovis Hendry Sr. (1919-2004), un piccolo industriale residente a Baton Rouge, inconsapevole del valore artistico-economico di quanto in possesso — nell’aprile 2005 apparse, su decisione del figlio alla scomparsa del padre, in una piccola asta della Louisiana, a New Orleans, attraendo la fervida attenzione del mercante d’arte — frequentemente in Europa alla ricerca d’opere d’inesatto conferimento — Robert Simon, il quale, nello sfogliare catalogo e facendo un immediato confronto con l’incisione di Wenceslaus Hollar, intuì che avrebbe potuto trattarsi del dipinto andato perduto, dunque appropriandosene per 1.175 dollari, dopo aver prevalso sull’unico cliente oltre a lui interessato, ma non a tal punto da prolungare fibrillante contesa.
Affidandosi alla competente mano della restauratrice e amica trentennale Dianne Dweyer Modestini, Robert Simon avviò un segreto e costoso biennio di ripristino, inizialmente svanendo ogni speranza che autore ne fosse Leonardo da Vinci, viste le pessime condizioni causate da vernici, danneggiamenti, ridipinture — ad esempio barba e baffi integrati in un secondo momento, ipotizzandosi un adattamento delle sembianze di Cristo alle fattezze ufficialmente riconosciute dopo il rinnovamento apportato dalla Controriforma (1545-1648) — ma zelante pulitura, restauro e ricostruzione svelando requisiti pittorici surclassanti le più speranzose previsioni.
Decisione di portare alla luce quanto completato, portò nel 2008 Robert Simon a contattare Nicholas Penny, direttore della National Gallery, dov’era in preparazione una mostra su Leonardo e per allestire la quale il curatore Luke Syson lavorò un quinquennio, piacevolmente rapito sull’istante all’osservazione del Salvator Mundi, dunque cinque esperti — due italiani, due americani e un britannico — venendo convocati per valutarne autenticità, tre fra loro non prendendo posizione, Carmen Bambach, esperta di pittura italiana rinascimentale del Metropolitan Museum di New York, esprimendo netta opinione secondo cui la maggior parte del Salvator Mundi sarebbe stata eseguita da Giovanni Boltraffio, con passaggi di Leonardo da Vinci — infine lo storico dell’arte britannico Martin Kemp dichiarandosi convintamente entusiasta, dunque esposizione concretandosi, come suddetto fra il 2011 e il 2012, nonostante scetticismi di altri studiosi e titolo del trafiletto esplicativo appeso di fianco alla tavola riportando:
Leonardo da Vinci (1452-1519)
Christ as Salvator Mundi
about 1499 onwards.
A sostenere parte delle spese di restauro e assicurative, oltre che a seguire eventuali trattative di vendita, fu Warren Adelson, collega di Robert Simon, fra i due stipulandosi società, dunque la coppia — una volta stimato il prezzo del dipinto in 130 mila dollari — interpellando collezionisti d’arte e musei — fra i quali il Metropolitan Museum di New York e il Museum of Fine Arts di Boston — addirittura tentando di proporre l’opera in Vaticano, riscuotendo generale indifferenza, perlomeno fino a quando, nel 2013, breccia scoccò in Dmitrij Evgen’evič Rybolovlev, imprenditore russo residente a Monaco e proprietario dell’omonima società polisportiva monegasca Association Sportive de Monaco Football Club che — in volontà di mantenere assoluto riserbo — s’avvalse del fidato Yves Bouvier, mercante d’arte il quale, per condurre negoziato in tutta riservatezza, s’appoggiò alla prestigiosa casa d’aste Sotheby’s e, per 83 milioni di dollari, acquistò il Salvator Mundi, cedendolo poi al magnate alla mirabolante somma di circa 127,5 milioni.
Nel 2016, l’industrioso organizzatore di aste Loïc Gouzer — vicepresidente di Christie’s per l’arte contemporanea — in lungimirante visione impresaria prende contatti con Sandy Heller, consulente di Rybolovlev, incontro sfociando in un evento difficilmente ripetibile, nella serata del 15 novembre 2017 il Salvator Mundi, partendo da una base di 100 milioni, venendo battuto — in poco meno di mezz’ora su cinquanta rilanci — per 400 milioni di dollari (esclusi 50,3 per i diritti d’asta), bruciando il primato precedentemente detenuto da Massacre of the Innocents, olio su legno di quercia — datato al 1638 — del pittore fiammingo Pieter Paul Rubens (1577-1640), venduto nel 2002 da Sotheby’s, per 49,5 milioni di sterline, all’imprenditore e collezionista d’arte canadese Kenneth ‘Ken’ Roy Thomson, II barone Thomson di Fleet (1923-2006).
Nessuna informazione trapelò riguardo al titolare dell’acquisto, perlomeno fino al 6 dicembre 2017, quando un articolo giornalistico del The New York Times ne rivelò la probabile identità nella persona di Badr bin Abd Allāh bin Moḥemmad bin Farhan Āl Saʿūd — Ministro della Cultura dell’Arabia Saudita — in qualità di mediatore del principe ereditario Moḥammad bin Salmān Āl Saʿūd, l’enigmatico Salvator Mundi prendendo così la via dell’Oriente, benché disattesa esposizione prevista a cominciare da settembre 2018 presso il museo d’arte e civiltà di Abu Dhabi e da ottobre 2019 a febbraio 2020 nelle sale del Louvre di Parigi in occasione del cinquecentenario della morte del Maestro, sembrerebbe nuovamente scomparso nel nulla, suscitando numerose ipotesi riguardanti rapporti economico-politici internazionali e l’autenticità dell’opera stessa, ovvero la mano di Leonardo da Vinci, di cui al di là d’ogni circostanza e dovuto dibattito, radioso spirito prosegue oltre i confini del tempo ad effondersi sul Pianeta illuminando fra savie pennellate, irresolubili misteri e superbe cromie.
[Leonardo da Vinci] questo essere simbolico, è custode della più vasta collezione di forme, tesoro sempre accessibile di peculiarità della natura, una potenza costantemente imminente e che si espande al prolungarsi del proprio dominio. Costituito da una miriade di esseri, memorie, l’inaudita capacità di riconoscere, entro la distesa del mondo, una quantità straordinaria di realtà distinte e di ricrearle secondo infinite modalità. È maestro dei volti, dell’anatomia, delle macchine. Sa l’origine del sorriso; può effigiarlo sull’ala d’un edificio, negli anfratti d’un giardino; increspa e contorce i corsi delle acque, le lingue di fuoco. È nei tratti “timidi e bruschi” dei fanciulli, nei gesti limitati degli anziani, nella sobrietà della morte. Concepisce il fantastico rendendolo plausibile, laddove il pensiero unisce così linearmente da suggerire la vita e la spontaneità dell’insieme. Esegue un Cristo, un angelo, un mostro, prendendo quanto è conosciuto, rintracciabile ovunque, e proponendolo attraverso inedite prospettive.
Paul Valery, Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, 1894
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