José Jiménez Aranda, il «gran maestro della pittura»
Il disegno ed il colore non sono affatto distinti.
Man mano che si dipinge, si disegna.
Più il colore diventa armonioso, più il disegno si fa preciso.
Paul Cézanne
A Siviglia, Andalusìa, il 7 febbraio 1837 nasce il pittore, José Jiménez-Aranda Prieto, le cui orme saranno ricalcate dai fratelli minori Luis (1845-1928) e, seppur in maniera minore, Manuel (1849-1904). Assecondando innata predisposizione al disegno — affiorata nell’infanzia e probabilmente ereditata da due fratelli del padre, ebanista, anch’essi pittori — José Jiménez Aranda perfeziona talento nel frequentare, a partir dai quattordici anni, la Real Academia de Bellas Artes de Santa Isabel de Hungría, dov’è alunno, dapprima del concittadino Manuel Cabral Aguado-Bejarano (1827-1891) — uno fra i principali esponenti del costrumbismo andaluso sivigliano, maestro di grande ricchezza cromatica, amante dei toni freddi, delle folle, processioni, pellegrinaggi, d’eccellente bravura nel riprodurre edifici in minuziosi particolari e destinatario di numerose commissioni per ritratti di nobili e attori in costume — poi del madrileno, anch’esso specializzato in ritrattistica e propugnatore della pittura storica in Spagna, Eduardo Cano de la Peña (1823-1897), sperimentantesi in più d’una tendenza pittorica, nonché in murales, incisioni ed acquerelli, al contempo promuovendo la parità dei sessi nei percorsi formativi; da entrambi lo studente — frattanto lavorando in qualità di litografo — coglie seria occasione d’assimilar pratica e concetti, inevitabilmente forgianti il suo futuro stile che nel corso del tempo finemente personalizzerà, amalgamando esperienza a percettiva sensibilità artistica.
Dopo alcuni mesi trascorsi nel 1867 a Jerez de la Frontera, durante i quali s’impegna professionalmente nel decoro/restauro di vetrate a colori, l’anno seguente José Jiménez Aranda — presumibilmente smosso dal desiderio d’integrar ad apprendimenti accademici, quanto viaggi e ricerca possano restituire in termini di conoscenza — si traferisce a Madrid, concentrandosi in approfonditi studi delle opere custodite all’interno del Museo Nacional del Prado: dedica particolare interesse a quelle di Diego Rodríguez de Silva y Velázquez (1599-1660) e Francisco José de Goya y Lucientes (1746-1828), ponendo accento sull’eccellente capacità ritrattistica del primo e sulle riproduzioni storiche del secondo, di fatto riscoprendo medesimi generi in antecedenza trattati con Cabral Aguado-Bejarano e Cano de la Peña.
Unito in matrimonio dal 1868 con María de los Dolores Velázquez Mancera (1848-1892), è nel 1871 — annata peraltro corrispondente al conseguimento della medalla de tercera clase, assegnatagli per il dipinto Un lance en la plaza de toros dall’Exposición Nacional de Bellas Artes, che già l’aveva pregiato di due menzioni d’onore nel 1866/67 — che José Jiménez Aranda si reca a Roma con la famiglia e il fidato allievo José García Ramos (1852-1912), soggiornandovi per circa un quadriennio: in tale periodo stringe profonda amicizia con il pittore, acquerellista e incisore catalano, Marià Fortuny i Marsal (1838-1874), restando inequivocabilmente affascinato e facendo tesoro dei di lui virtuosismi tecnici, dell’assoluta padronanza nella modulazione del colore e dell’eccelsa abilità miniaturista universalmente acclamata nel capolavoro La Vicaría, dall’acquafortista — all’epoca in apice di fama e con introiti di vendita elevatissimi — concepito mediante la raffinata tecnica del preciosismo.
Rivarcati confini spagnoli a metà del 1875 e bissato traguardo all’Esposizione succitata — dacché riconquistando “bronzo” del 1878 per El guardacantón che gli apre porte dei più prestigiosi saloni francesi — nel 1881 José Jiménez Aranda decide di traslocare in zona Montparnasse, ai tempi meta d’esuberante scambio culturale, restando per quasi una decade immerso nell’animata atmosfera della Belle Époque, che gli fa da sfondo alla decisione d’avviare uno studio e dipingere quadri ambientati nel precedente secolo, volutamente ispirandosi a Marian Fortuny, purtroppo deceduto a causa di un’emorragia per ulcera gastrica.
Aranda tenta di riprodurne l’accortezza dei dettagli e i giochi di luce, ovvero alcuni degli aspetti complici d’una figurazione dal brillante e minuzioso realismo, testimone di come anche Fortuny abbia in passato attinto a Goya e Velázquez, nonché al connazionale Jusepe de Ribera (1591-1652), soprannominato Spagnoletto e protagonista della pittura napoletana ed europea del diciassettesimo secolo, oltre che fedele seguace del Caravaggismo e principale esponente della derivata corrente tenebrista.
Con alle spalle ragguardevole notorietà ormai a livello internazionale, José Jiménez Aranda, insieme a moglie e nutrita prole, si ristabilisce a Madrid nel 1890, riappropriandosi di uno stile più tradizionale, da cui scaturiscono scene di vita quotidiana, inoltre quello stesso anno assicurandosi la Prima Medaglia per Una desgracia, titolo riassumente quanto agli occhi immediatamente appare senza esser visto, ovverosia l’accidentale caduta di un muratore dall’impalcatura su cui stava lavorando: invero, il malcapitato non appare direttamente, ma presenza e tragedia avvenuta, si desumono dalla calca di passanti fermatisi ad osservar-lo; la drammaticità dell’evento è sapientemente risaltata da espressioni dei volti e gestualità delle persone, riunitesi davanti all’accaduto tra stupore, angoscia, curiosità, preoccupazione, dispiacere, in un ammasso di sentimenti contrastanti che s’elevano oltre tela, rapendo lo spettatore al suo interno.
Nel 1892, la prematura morte per colera della consorte il 28 aprile e di una figlia il 13 maggio, devia definitivo e addolorato passo di José Jimenez Aranda verso Siviglia, dove l’uomo indirizza i propri scolari allo stimato collega e amico Joaquín Sorolla Bastida (1863-1923) — colui che ebbe a definirlo «gran maestro en pintura» — tuttavia perseverando nel partecipare a svariate Esposizioni Nazionali e Internazionali, affiliandosi all’Accademia frequentata in gioventù e dal 1897 divenendone docente, mansione ricoperta con seria abnegazione che lascierà concreti e indelebili precetti in svariati pittori quali, fra i tanti, Ricardo López Cabrera (1864-1950), Daniel Vázquez Díaz (1882-1969), Eugenio Hermoso Martínez (1883-1963) e Manuel González Santos (1875-1949).
Nell’ultima parte d’esistenza — interrottasi fra mura domestiche della città natale il 6 maggio 1903, per incurabile malattia sorta sul finire dell’anno precedente — José Jimenez Aranda è regolare presenza all’Escuela de Alcalá de Guadaíra, circolo d’artisti che tra la fine del diciannovesimo secolo e la metà del ventesimo, si riunivano nell’omonimo comune per dipingere en plein air, metodo pittorico basato sulla diretta osservazione della realtà in luoghi all’aperto e delle peculiari gradazioni rivelate dalla luce naturale; oltre a meravigliosi paesaggi, magistrale tratto dell’uomo rivive nel Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616), di cui è uno dei più notevoli illustratori del periodo, sia tramite quadri, sia con le 689 tavole realizzate per l’edizione del tricentenario, dunque edita nel 1905.
Don Quijote soy, y mi profesión la de andante caballería.
Son mis leyes, el deshacer entuertos, prodigar el bien y evitar el mal.
Huyo de la vida regalada, de la ambición y la hipocresía,
y busco para mi propia gloria la senda más angosta y difícil.
Es eso, de tonto y mentecato?
Artista poliedrico e prolifico, dal viso la cui barba bruna contornava tratti austeri, ma al contempo addolciti da uno sguardo intenso e traboccante la bellezza dei vissuti, di José Jimenez Aranda restano le innumerevoli opere dipinte, in pieno agio trasversalmente ai generi e nelle quali pullula l’immortale spirito ch’egli fu in grado di trasmettere ad ogni soggetto umano, quasi come s’egli iniziasse a definirne i contorni dell’animo, poi abbigliandolo con impressionante precisione di vesti e fattezze; in piena maturità, nel 1897 s’espresse infinito in Una esclava en venta, ad una giovane donna totalmente denudata — con appeso al collo un cartello indicante nome, età, prezzo di cessione e posta a sedere su un tappeto, per modo da poter esser esposta alla vista e valutazione di potenziali acquirenti, dei quali si notano i piedi intorno accalcati — riuscendo con delicatezza ad instillare il sentimento d’imbarazzo e vergogna da lei provato nel trovarsi al centro d’una situazione a nessuno augurabile: inclinando il capo in maniera silente, d’ella si percepisce l’urlante rassegnazione, ignobilmente ammutolita dalla soggiogante tratta in essere.
Oltre che magistrale nel pennellar emozioni e addirittura render astrattamente udibile il chiassoso vociferar della gente, i dipinti di José Jimenez Aranda sono inestimabili resoconti storici, nei quali immergersi viaggiando a ritroso in luoghi, esperienze e personaggi, fedelmente narrati tra forme e colori, d’umano riguardo intrisi.
Il pittore non deve dipingere ciò che vede,
ma quanto apparirà.
Paul Valéry
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