Eduardo Kobra, maestro della neoavanguardia paulista
Il Brasile è unanimemente riconosciuta come capitale mondiale del calcio, nessun altro paese vive questo sport con pari gioia e spontaneità, ma non di meno, è rispetto alla street art ed Eduardo Kobra, è indubbiamente tra i suoi più significativi rappresentanti.
Nato nel 1976 a Campo Limpo, distretto di San Paolo in cui la povertà delle favelas si specchia nelle fronteggianti residenze della medio-alta borghesia, è uno dei tanti luoghi dove si cresce anzitempo e presto si conoscono le asprezze della vita.
Non ho mai visto i soldi, sono entrato in una galleria per la prima volta quando avevo circa 30 anni
E’ ancora bambino Kobra, quando bomboletta alla mano, comincia a tappezzare i muri e gli edifici della periferia paulista scrivendo il suo nome e lo fa, ispirandosi al tradizionale graffitismo dell’area sudorientale del Brasile, il Pichação, ovvero scrivere con la pece, una forma di protesta politica nata a metà degli ’40, i cui esponenti, i pichadores, non hanno l’arte come fine ultimo, provengono per lo più dalle baraccopoli e quelle scritte, sono espressione del malcontento della popolazione più debole e indigente, ribellione alle ingiustizie sociali, lotta contro quel regime militare che per i contenuti delle loro canzoni, fece arrestare persino Caetano Veloso e Gilberto Gil, costringendoli a scegliere tra restare in carcere o accettare l’esilio.
Dopo il quasi totale abbandono degli anni ’70, il Pichação rinasce e l’aspetto militante permane come resistenza, manifestazione e affermazione dell’essere; è lo spazio catturato dagli emarginati che vedrà nascere artisti come gli Os Gêmeos, Crânio, Speto e lo stesso Kobra, oggi muralista con un stile grafico proprio e lontano dalle origini, ma che da queste non si è scostato continuando a mantenere stretto il rapporto con la sua gente, le strade che lo hanno visto crescere, cercando di mantener viva la speranza e nel contempo la consapevolezza affrontando con i suoi dipinti, temi centrali del nostro tempo come la povertà, gli abusi della politica, le distanze razziali, le guerre e l’inquinamento.
All’evolversi della street art paulista, corre parallelo il desiderio di Kobra di sperimentare e unire le varie tecniche attraverso le quali si esprimeva e nei primi anni novanta, apre uno studio dove poter dar vita a idee ed ampi progetti, anche avvalendosi della collaborazione degli artisti della sua crew e qui, nascono lavori su larga scala come Muros de Memoria, con il quale l’ambiente urbano è trasformato in una foto ricordo, affinché il passato storico possa riaffiorare in un presente, che ne ha ormai perso traccia.
L’arte è aperta. Il mio lavoro non è limitato a nulla. Sono sempre aperto all’utilizzo di qualsiasi tipo di innovazione
Oggi Kobra è un artista di fama internazionale, ovunque è possibile imbattersi e ammirare un suo murales, opere che comunicano anche richiamando le azioni e le parole di personaggi come Mandela, Madre Teresa, Martin Luther King, Bob Marley, John Lennon, simboli universali divenute nel 2014, a Roma, protagonisti della sua prima personale, mostra che non poteva aver altro titolo se non Peace, creazione in qualche modo traslata l’anno successivo nel dipinto murale Olhares a Paz, realizzato a Los Angeles.
Esponente della neoavanguardia paulista, le sue opere sono intense e maestose esplosioni cromatiche, aerografo, spray e pennello uniscono, intrecciano e sovrappongono colori che vanno a comporre immagini e ritratti iperrealistici che abbattono la bidimensionalità degli spazi urbani.
Con una narrazione romantica e all’unisono giocosa, con i volti di Anna Frank, l’attivista pakistana Malala Yousafzai, Gandhi, Lincoln e ancora Einstein, Dalì, Frida Khalo o Niemeyer, l’artista brasiliano rende omaggio alla grandezza dell’essere umano, Eduardo Kobra mostra la bellezza per colpire le tante storture e brutture attuali.
Tra le sue opere più celebri, quella realizzata in occasione delle Olimpiadi tenutesi a Rio de Janeiro nel 2016, Etnias, un lavoro per il quale sono state impiegate «3000 bombolette spray, 700 litri di inchiostro colorato e 1.800 litri di vernice bianca per lo sfondo», scrive l’artista nella pagina dedicata a questa rappresentazione dei cerchi olimpionici, illustrata tramite gli occhi e i tratti dei cinque continenti, 3000 metri quadrati che raccontano e uniscono il pianeta.
Non dipingo nulla in cui non credo. Non farò nulla perché mi hanno detto di farlo