Peperoncino, il variopinto regno della piccantezza
La verità della vita risiede nei semi di peperoncino.
Jean-Marie Adiaffi
C’era una volta, il peperoncino
Fu nel 1753 che il medico, botanico, accademico e naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus (1707-1778) classificò scientificamente un genere di pianta — della famiglia Solanaceae — al nome Capsicum, quest’ultimo comprendente — oltre al peperone — numerose specie di peperoncini, diversificantesi dallo stesso sia morfologicamente che per il contenuto di un composto chimico, denominato capsaicina, attivo nel conferire piccantezza e la cui concentrazione misurabile attraverso la scala di Scoville, così appellata in richiamo al chimico statunitense Wilbur Lincoln Scoville (1865-1942), che ne fu ideatore, nel 1912 creando il S.O.T. (Scoville Organoleptic Test), omonima analisi per mezzo della quale disciolse in acqua e zucchero una soluzione d’estratto di peperoncino, esperimento prevedendo che l’estratto venisse diluito fino a che gli assaggiatori non ne valutassero la scomparsa del tipico pizzicore e su questa base assegnando dunque un determinato valore, ma soggettività non consentendo il raggiungimento di risultati scientifici obiettivi, sostituendosi nuova metodologia a strumentazione HPLC (High Performance Liquid Chromatography), allo scopo di misurare l’esatto quantitativo di capsacinoidi senza interferenze umane, in seguito la numerazione ottenuta venendo sempre convertita allo SHU — Scoville Heat Units — in una forbice compresa fra lo zero e i sedici milioni, dove zero corrisponde ad assenza di piccantezza.
Autoctono di Messico e Perù, il peperoncino ha origini millenarie, tanto gli xerici arbusti della Valle di Tehuacan — ecoregione matorrale messicana — quanto la peruviana Cueva del Guitarrero, testimoniandone presenza fin dal 5000 a.C. e a conferma, reperti fossili risalenti ad almeno 9000 anni fa, la bacca risultando difatti conosciuta ed usata da popolazioni quali Inca, Maya, Aztechi, Olmeca e Tolteca, talora assurgendo ad elemento sacro, altrimenti immolandosi a moneta di scambio e sovente, a comprovarne ruolo di rilievo, comparendo in manufatti come negli antichi disegni tessili di Nazca, oppure sull’Obelisco di Tello (800/1000 d.C.), niveo monolito — avente denominazione dello scopritore, Julio César Tello (1880-1947), ritenuto padre dell’archeologia peruviana, nonché primo ricercatore indigeno sudamericano e principale esploratore della cultura preistorica Paracas — di circa 3 metri coi lati alla base di 30 e 12 centimetri, dove, oltre alla geografia del territorio occupato dei Chavin, appaiono scolpite immagini di flora e fauna come da tradizione mesoamericana e tra le varie raffigurazioni, verosimilmente un caimano, dalle cui fauci fuoriuscirebbero peperoncini.
È invece il sito archeologico Joya de Cerén — facente parte dello Stato El Salvador — a celare sotto le ceneri, un villaggio agricolo Maya risalente al decimo secolo a.C. e malauguratamente inglobato nell’eruttiva lava del vulcano Loma Caldera sul finire del sesto secolo, una settantina di costruzioni perfettamente conservandosi e importante ritrovamento avvenendo nel 1976 — ad opera del docente antropologo alla Colorado University e archeologo mayanista Payson D. Sheets, classe 1944 — svelando all’umanità quotidiane abitudini dell’epoca e il peperoncino rivelandosi protagonista culinario indiscusso.
Approdo in Europa del peperoncino avvenne in seguito alla spedizione di Cristoforo Colombo (1451-1506), inizialmente egli accennandone nel diario di bordo il 15 gennaio 1493 e durante la seconda tratta gustandolo in anteprima — con immediato entusiasmo — Diego Alvaro Chanca (?-1515), ai tempi medico ordinario di Ferdinando II d’Aragona (1452-1516) e Isabella I di Castiglia (1451-1504), ufficialmente nominato dalla Corona come accompagnatore e a cui, nel 1494, il celeberrimo navigatore avrebbe confidato preoccupazione in merito al fatto che i reali spagnoli si fossero resi disponibili a sostenere economicamente ogni spesa, a condizione che al rientro venissero importate tonnellate di nuove spezie tramite cui avviare un’economia che fosse in grado d’indebolire il monopolio commerciale arabo su tale fronte, preziosa occasione per la Spagna di risanare le finanze esaurite nelle costose e interminabili battaglie intraprese allo scopo di annientare le roccaforti musulmane, nell’intento di cacciare il nemico dai propri territori.
Risentimento del genovese s’era acuito in quanto nel primo viaggio — intercorso fra il 3 agosto 1492 e il 15 marzo dell’anno seguente, con novanta uomini avventuratisi nella piccola flotta composta dalla nave Santa Maria, o Gallega, e dalle due caravelle Pinta e Niña — non si trovarono le ricchezze sperate e nonostante approdo nel Nuovo Mondo gli fosse valso ampia acclamazione al rientro, tediante timore di perdere le sovvenzioni promesse dalla Spagna ne martellava pensieri, sennonché — lungi dal perdersi d’animo — seconda partenza il 25 settembre 1493 lo vide a capo di ben diciassette imbarcazioni e un abbondante migliaio di marinai, l’equipaggio riposando piede a Cadice l’11 giugno 1946 e in suolo iberico stavolta giungendo a mani piene d’ogni bene, fra cui appunto piante di peperoncino che avevano fortemente incuriosito il dottor Chanca, al punto da studiarne approfonditamente le proprietà organolettiche, tuttavia l’esotica bacca non fruttando agli Spagnoli quanto previsto, dacché lo sconfinato adattamento ambientale della specie permettendone, nel giro di pochi decenni, vasta diffusione e coltivazione, a dispetto di potenziale e redditizia esclusiva commerciale, in un sessantennio il piccante frutto propagandosi in tutto il Continente Antico e semplicità di coltura riducendo drasticamente la necessità d’importazione, tuttavia a esaltato gradimento — sebbene aristocratici palati non ne apprezzassero il mordace sapore — parallelamente corrispondendo severa ammonizione ecclesiastica, lo scrittore, missionario e gesuita, José de Acosta (1540-1600) definendo il peperoncino «suscitatore di insani propositi» e di fatto ciò costituendo deterrente al consumo, sull’onda di clericale condanna in virtù del plausibile potere afrodisiaco ad esso attribuito.
Potenziali disincentivi che non ne impedirono comunque estesa diramazione, di paese in paese il peperoncino attecchendo in ogni terra e nella penisola italica certosina descrizione apparendo nel libro, I discorsi, dell’umanista, medico e botanico senese Pietro Andrea Mattioli (1501-1577) come Pepe d’India, effettivamente nome attuale originandosi sul finire del ventesimo secolo come diminutivo di peperone — a sua volta precedentemente coniato dall’accademico, presbitero e poeta satirico pistoiese Niccolò Forteguerri (1674-1735) — nel primo trentennio del Novecento il peperoncino comparendo esclusivamente sulle tavole contadine e meno facoltose, al punto da guadagnarsi epiteto di “spezia dei poveri” e riprova di quanto venisse snobbato dai ceti altolocati è il non apparirne alcun cenno letterario negli allora trattati gastronomici per eccellenza, quali La fisiologia del gusto — in prima pubblicazione nel 1825 e consacrante fama di Jean Anrthelme Vrillat-Savarin (1755-1826) — e, sessantasei anni più tardi, La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene, manuale tramite cui Pellegrino Artusi (1820-1911) rivisitò con colta ironia i piatti del tempo, unendo in un unico volume ricette provenienti da tutta Italia e per tale motivo venendogli riconosciuto d’aver gettato le basi della cucina nazionale italiana.
Fra il popolo il peperoncino veniva utilizzato tanto per insaporire piatti poco appetibili e conservare la carne, quanto per le salutari proprietà antisettiche, nella cucina povera del meridione spopolando celermente e soprattutto in Calabria, della quale la città di Napoli — a cavallo di secolo ferventemente attiva in ambito culinario a livello europeo — colse con prontezza le pietanze locali grazie al ricettivo estro del cuoco e letterato afragolese Ippolito Cavalcanti (1787-1859) — duca di Buonvicino discendente del Guido tanto caro a Dante Alighieri e autore del ricettario, Cucina teorico pratica — e dell’oritano collega e filosofo Vincenzo Corrado (1734-1836), noto per il suo proporre il “Peperoncino in addobbata” — salsa amalgamata a vari ingredienti e usata come ripieno del capretto — e le cui ricette a base di peperoni vennero inserite fra le ispirate pagine di, Del cibo pitagorico ovvero erbaceo. Per uso de’ nobili, e de’ letterati, ma ufficiale ingresso nell’alta società della perla di natura dall’animo pungente, avvenne l’8 marzo 1931 quando lo scrittore, poeta, drammaturgo e militare Filippo Tommaso Marinetti ne propose in antipasto — all’inaugurazione, al civico 2 di via Vanchiglia — della torinese Taverna Santopalato — durante un pranzo futurista, all’interno di peperoncini verdi facendo trovare biglietti in proselitismo al movimento pittorico da lui fondato e da allora il pepante frutto gradualmente conquistando il Pianeta, in sé custodendo storie di viaggi e passioni, fin dal momento in cui un incuriosito Cristoforo Colombo alla prima spedizione, scoprendone presenza ad Hispaniola — l’odierna Haiti — ed ancor ignaro del valore di quanto visto fra le mani degli indigeni, in seguito compreso e a lui rivelato da Chanca — annotò: «Vi era in abbondanza pure axi, che è il loro pepe, di qualità che molto sopravanza quella del pepe e non v’è chi mangi senza di esso, che reputano assai cura».
Aromi e colori del peperoncino
Al genere Capsicum, appartengono numerose specie e varietà, di cui cinque — domesticate — sono quelle di peperoncino maggiormente diffuse, fra loro diversificantesi per SHU e tipicità di caratteri botanici che ne permettono l’identificazione, quali il picciolo, il fiore e il frutto:
Capiscum anuum
Arbusto sempreverde, cespuglioso ed estremamente produttivo, è delle cinque principali specie a vantare primato di coltivazioni, l’alzato e leggermente irsuto fusto abbigliandosi di chiome abbellite da fiori penduli o eretti, bianchi o viola — in alcuni casi lattei e di violacea sfumatura bordati — a cinque/sette petali, foglie lanceolate, talora ricoperte di peluria nella parte superiore e picciolo che abbraccia totalmente la base del frutto, verde prima della maturazione, poi esplodente in gradazioni che spaziano dal biancastro al violetto, dal giallo all’arancione o ancora al rosso, con incredibile mutevolezza di forma; fra le molteplici qualità, compare l’ambasciatore di Calabria, il Diavolicchio, pianta dai peperoncini peculiarmente raggruppati a mazzi e dall’aspetto fiammeggiante, affusolato e lievemente ovoidale, ciascuno di circa 3 centimetri e d una piccantezza media, apprezzata nell’intero Belpaese sia in ambito gastronomico, sia “viva”, intorno ai 100.000/150.000 SHU ed a ricalcarne vagamente fattezze, il Cayenne — dall’omonima capitale della Guyana francese — con le celebri e prorompenti varietà Sex Bomb e Golden, mentre ad assumere retrogusto affumicato e lievemente piccante è il messicano Pasilla, soprannominato Chile negro per via del colore scurissimo raggiunto a piena maturazione del frutto, la cui pelle rugosa ricorda appunto una «piccola uvetta», significato letterale del nome conferitogli, a dispetto delle dimensioni, le quali difatti possono oltrepassare i 15 centimetri. Bizzarra conformazione distingue invece il Peter pepper red, cultivar della Louisiana dal dolce e delicato sapore, mentre a detenere primato di piccolezza è l’elissoidale Chiltepin, Capsicum annuum var. glabriusculum natale di Messico e Guatemala — il cui nominativo derivante dal termine chilitecopinti (in nahuatl «peperoncino pulce») — che malgrado le ridotte dimensioni contenute in nemmeno un centimetro, infuoca il palato.
Capsicum chinense
Specie alla quale spetta supremazia in fatto di SHU, porta fiori penduli, per lo più di colore bianco-verdicci, talvolta bianchi con chiazze violette, con cinque/sei petali e il curvilineo picciolo a costrizione anulare, caratteristica esclusiva essendone il profumo — somigliante a quello dell’albicocca — e il corrispondente sapore fruttato; è incluso in questa specie il brasiliano ed elegante Pimenta de Neyde, il variopinto ed impetuoso Habañero, peperoncino per lungo periodo detentore del primato in piccantezza ed abbandonato soltanto al cospetto del Carolina Reaper, ottenuto dal coltivatore americano Ed Currie — presidente e fondatore della PuckerButt Pepper Company di Fort Mill — incrociando l’Habanero Red Savina con il Naga Morich e così ricavando un frutto scarlatto, dall’essenza evocante sfumature di cioccolato e cannella, ma non abbastanza potente da reggere il confronto con il Jigsaw, variopinto rappresentante dell’infinita famiglia Capsicum, in grado di superare un nato dall’unione tra Moruga Scorpion ed ancora il Naga Morich, quindi in grado di superare i 100 grammi di peso e toccare mirabile quota di 2.600.000 unità.
Capsicum frutescens
Di mutevole piccantezza e negli esemplari più sferzanti secondo solamente al Capsicum chinense, i fiori hanno cinque/sette petali revoluti, di tonalità bianco-verde, foglie lanceolate e picciolo ad angolo acuto sul fiore, poi dritto sui frutti, i cui colori richiamano quelli del Capiscum annuum; conosciuto specialmente in merito all’essere ingrediente della salsa che ne onora il nome è il Tabasco, uno tra i più apprezzati dagli amanti dei sapori decisi, insieme all’aggressivo, affusolato e succoso Malagueta, nativo del Brasile le cui vermiglie bacche crescono rivolgendosi impettite verso l’alto alto.
Capsicum pubescens
Fiori viola — penduli, intermedi o eretti — di ampie dimensioni e macchie bianche o gialle attorno alla corolla, con cinque/otto petali, foglie ovali, calice dentato, picciolo curvo e frutti tondeggianti, particolarità della specie appartenendo ai grandi semi, neri e di forma irregolare; noto da millenni e nella notte dei tempi apprezzato dagli Inca è il Rocoto rosso, o manzano, somigliante a una mela e presenza fissa nella cucina boliviana, parimenti noto i tutta l’America latina è altresì il Rocoto Yellow Canario, dal sapore di una dolce susina e piccantezza di crescente gradualità, rafforzata da persistenza.
Capsicum baccatum
Piccolo alberello eretto e copiosamente fruttifero le cui fronde accolgono fiori penduli bianchi, screziati di gialli o verde, con quattro/nove petali — in rari casi di più — foglie lanceolate, picciolo allungato e sottile, frutti di svariate nuances e conformazione, la specie raggruppando sia piante eduli che ornamentali, in Perù spopolando l’agrumato e croccante Aji amarillo, viceversa a decorare ambienti la stravagante e graziosa sembianza — simile a una campanella o a un copricapo episcopale — del barbadiano Bishop crown, dimorante su un possente albero d’elevata potenzialità decorativa e i cui carnosi frutti si prestano ad essere consumati crudi, cotti o essiccati.
Trasversalmente a specie e varietà, dei peperoncini ci si può cibare in più modi, preparandoli ad accompagnare tutto quanto in ambito culinario si ritenga possa giovare della briosa carica da esso apportata, quindi unendolo a salse, primi e secondi piatti, contorni e pietanze di ogni genere, nonché dolci e tisane, a piacimento scegliendo se mangiarli freschi, previa cottura, macinati o in polvere e in ciascun caso beneficiando delle innumerevoli proprietà terapeutiche, il peperoncino vantando — ovviamente purché non se ne abusi — effetti digestivi, antinfiammatori, vasodilatatori, antidolorifici, protettivi del sistema nervoso e cardiocircolatorio, migliore circolazione sanguigna agendo positivamente sui bulbi piliferi, a vantaggio del cuoio capelluto, in aggiunta la presenza di vitamine C ed E garantendo all’organismo adeguate difese dalle infezioni e potere antistaminico, oltre che da sempre alleanza stringendosi in virtù delle accordate potenzialità afrodisiache, il policromo ortaggio veicolando energia attraverso i sali minerali in esso contenuti — soprattutto il potassio — e attività della capsaicina espletandosi in effetti antiossidanti, antibatterici e stimolanti la produzione di succhi gastrici, benché dovuto sia il prestare particolare attenzione ad assumerne in caso di gastriti o disturbi similari e tenendone presente l’azione rubefacente al contatto con pelle e occhi.
Ad affiancare ruolo gastronomico del peperoncino è la parvenza scaramantica da sempre affibbiatagli, nelle tradizioni popolari — in particolare maniera nell’Italia meridionale — il purpureo cornetto allontanando la tanto temuta iella e avversando il malocchio, a tale proposito veri e propri amuleti costruendosi fin dall’antichità, ad esempio in parecchie tribù sudamericane del passato, gli artigianali talismani scacciando eventuali negatività, ancora oggi gli indiani Cuna popolanti le isole san Blas di Panama, affidando peperoncini alle fiamme — durante i cerimoniali tenuti in occasione della raggiunta pubertà di una donna — nella credenza che l’irritazione provocata dal fumo sprigionatosi le sia di buon auspicio, combattendo spiriti maligni, ulteriori attitudini de tempo che fu sostenendo la convinzione che introdurre capsantina — carotenoide rosso colorante — nel mangime di volatili ovipari, intensificare la gradazione ocra del tuorlo, parimenti tappeti e stoffe venivano tinti con medesimo composto chimico.
Portafortuna per antonomasia, il peperoncino è associato all’elementi Fuoco, dunque al Sole, al pianeta Marte e — come metallo — all’oro, da un punto di vista simbolico risanando corpo e mente e riequilibrando i malinconici stati d’umore eccessivamente influenzati da Acqua e Terra, con ardente vitalità dissolvendo afflizioni e ritemprando l’animo, peraltro principio cardine della medicina cinese e ayurvedica in contrasto alla depressione; pratica medioevale era invece quella di appendere ghirlande di peperoncino nelle stalle, a protezione del bestiame, per quanto concerne l’amore, usanza spronava a legare un paio di peperoncini con filo rosso e posizionarli sotto il letto coniugale, tradizione leggendone augurio di lunga passione e prolifico concepimento, forse nessun altro alimento, quanto il peperoncino, entrando a far parte dell’umanità in tutti i suoi aspetti e accompagnandone i vissuti, dal più festoso e manifesto, al più intimo e recondito, con gentilezza intrinseca lasciandosi coltivare da qualsivoglia mano e radicando in ogni terra, ad ogni cielo elevandosi in cangiante, gustosa e fragrante meraviglia.
Avvolgente
come della Notte il manto
e più d’ogni Sole disorientante,
arresta il respiro,
dona agli occhi miraggi,
scuote la carne, l’ossa, l’anima,
incendia il petto, obnubila la mente…
e canto d’Amor tra gola e cuor sospeso
par, eppur fuoco lieve,
corroborante ed armonioso,
irruente e variopinto
è sospir confortante,
di Santa Peperoncino.
(Nindila, Santa Peperoncino)
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