Le Alternative al G7 sull’Agricoltura
Tra meno di dieci giorni Bergamo ospiterà il G7 dell’agricoltura, una due giorni che vedrà impegnato il ministro Maurizio Martina, fare gli onori di casa ed accogliere i corrispettivi rappresentanti di Canada, Francia, Giappone, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti.
Un summit durante il quale saranno affrontati temi quali la sostenibilità, tecniche di produzione biologiche, la relazione tra agricoltura e tutela ambientale, attraverso 21 conferenze e altrettanti incontri e laboratori, mostre mercato ed eventi gastronomici.
Il tutto per una spesa da 400 mila euro, ma che secondo le previsioni dovrebbe portare oltre 250mila visitatori nella città orobica.
Il timore che tutto quanto non vada oltre l’evento, quindi senza la reale volontà d’intraprendere nuovi percorsi che vadano verso il rispetto dell’ambiente e del lavoro, ha fatto sì che in vista dell’incontro del G7 che si terrà il 14 e 15 ottobre prossimo, sia partita in primavera l’iniziativa Rete Bergamasca alternativa al G7 con il primo incontro pubblico tenutosi il 19 maggio e a tema “Il sistema agro-industriale e le sue conseguenze”.
Nata per promuovere e proporre un modello alternativo, alla Rete hanno aderito gruppi di acquisto solidale, associazioni contadine, sino a organizzazioni come la WWOOF (World-Wide Opportunities on Organic Farms) che, nata in Inghilterra nel 1971, oggi conta sedi in tutto il mondo, dando l’opportunità ai viaggiatori, di avere vitto e alloggio presso fattorie biologiche, in cambio di forza lavoro.
«Siamo indotti a mangiare cibo standardizzato – scrivono quelli della Rete nelle pagine del loro sito – sempre più spesso prodotto a scapito dei diritti del lavoro e della salute, con l’utilizzo massivo di fertilizzanti e pesticidi chimici che inquinano l’ambiente e distruggono la normale fertilità dei terreni».
La Rete Bergamasca ha quindi formalizzato la richiesta presso il comune e ottenuto l’autorizzazione per svolgere in parallelo al G7, un programma di incontri, dibattiti e proposte per sviluppare progetti che prevedano la partecipazione popolare, perché le piccole realtà agricole riacquistino voce e non subiscano le attuali politiche agroindustriali, tutelando così le ricchezze territoriali, le lavorazioni e le produzioni tipiche con le loro peculiarità.
Il problema è molto ampio e circa le tematiche legate all’ambiente e alla salute, servirebbe analizzare l’attuale grado di consapevolezza ed inseguito, comprendere quanto siamo pronti a intraprendere percorsi alternativi; nonostante sia l’ecosistema a chiederlo.
E’ calcolato che la gestione sostenibile del suolo, potrebbe produrre fino al 58% in più di cibo, andando quindi a soddisfare una richiesta che secondo le stime, aumenterà del 70% entro il 2050, a dispetto di una superficie agricola che viene a mancare in misura sempre maggiore, anche conseguenza del fatto, che le grandi industrie li acquistano per trasformarli in coltivazioni intensive; con tutte le ripercussioni che queste hanno sui terreni.
Una scelta che non solo ha portato l’8% del territorio europeo a elevato rischio di desertificazione (circa 14 milioni di ettari) ma a fronte di un basso contenuto di sostanza organica, il 15% della superficie agricola presenta un eccesso di azoto dovuto a pesticidi e fertilizzanti, tanto che secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, nel 2012 il consumo di quest’ultimi ammontava a 14 milioni di tonnellate.
Dal ’90 ad oggi, più di un milione di ettari sono stati sottratti alla produzione agricola, per una perdita di oltre 6 milioni di tonnellate di frumento ed è una privazione, in parte dovuta alla cementificazione che negli anni ha portato a un incremento delle aree urbane, e all’urbanizzazione delle zone costiere, in misura più che eccedente rispetto alla crescita della popolazione e com’è ben noto, anche tramite un abusivismo per giunta responsabile di tragedie legate ad eventi naturali.
In Italia però, sono molte le aziende che hanno già puntato su metodi di coltivazione e allevamento ecosostenibili, imprese che hanno adottato sistemi biodinamici anche volti a restituire fertilità al terreno ed altresì, mantenendo o riportando in vita antiche varietà di frumento, uve, prodotti caseari con una filiera interamente tracciata e certificata; è il passato che avvalendosi del presente, scrive l’unico futuro possibile.
A meno che non si verifichino casi eclatanti, spesso infatti si dimentica ciò che a maggior ragione dovrebbe indurre a sostenere e scegliere prodotti di aziende, che garantiscono una lavorazione quanto più naturale: il fattore alimentare.
E’ ormai acclamato, che i cibi industriali possono provocare svariati disturbi a causa delle dosi eccessive di zuccheri, sale, conservanti, grassi saturi di derivazione animale e grassi vegetali di scarso valore biologico – quando non idrogenati – ma anche per l’uso di additivi come gli emulsionanti, che adoperati nelle creme o nei gelati, a lungo termine possono predisporre a malattie dell’intestino e ad allergie.
Prodotti a basso costo e di poco nutrimento, alimenti che presentano composizioni sbilanciate e non parliamo solo di cibi pronti o da fast food, ma laddove siano coltivate con metodi intensivi, risultano povere di fibre e micronutrienti anche frutta e verdura – per non contare i pesticidi che ne invadono la scorza – ed altrettanto, le carni processate come gli insaccati, ai quali vengono aggiunti nitrati per conferir loro un colore più acceso, additivi anch’essi, in grado di generare composti cancerogeni.
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