John Muir, il mistico paladino di Madre Natura
John Muir era un visionario, un uomo che volle immergersi nelle profondità dell’anima di Madre Natura per riuscire a sentirne i tumulti, amarla e custodirla instancabilmente, diventandone carismatica e ispiratrice voce poetica.
When we try to pick out anything by itself, we find it hitched to everything else in the Universe.
John Muir, My First Summer in the Sierra, 1911, cap.6 pag.110
Ambientalista, ingegnere, esploratore, alpinista, botanico, appassionato di geologia e scrittore, John Muir era originario di Dunbar, città situata sul litorale sudorientale della Scozia, dov’è ricordato con una statua commemorativa, una scuola elementare, il tracciato ciclopedonale di 216 km e poi dal Country Park, un’area di 7,73 mq che ospita oltre 400 specie di piante e una cospicua quanto variegata popolazione di animali e farfalle. Inoltre, il ricordo è mantenuto vivo dal museo e centro di studio sul lavoro da lui compiuto, ubicati al 126 di High Street, nella palazzina di 3 piani risalente alla seconda metà del XVIII secolo, in cui nacque il 21 aprile 1838, trascorrendovi i primi due anni della sua affascinante esistenza, dopodiché la famiglia si trasferì nell’edificio accanto, al numero 130.
Terzo degli otto figli di Ann Gilrye e Daniel Muir, in quelle terre lambite dal Mare del Nord, venne presto affascinato dalla natura selvaggia e le giornate dell’infanzia erano avventurosi tuffi nei boschi, lunghe passeggiate fra i campi incolti e sulle spiagge, ammirando le rovine del castello medievale quando con silenzioso stoicismo resistevano alla rabbia delle onde in tempesta. Nonostante quei momenti di libertà non lo distraessero dalla scuola — dove anzi dava prova di eccellere in matematica e letteratura, mostrando un debole per la poesia di William Wordsworth, Robert Burns — sovente si scontravano con la severità del padre, strenuo lavoratore ed igneo pastore presbiteriano. Disciplina e fede su cui fondava l’educazione genitoriale e per tentare di mitigare lo spirito brado che andava crescendo in cuor del futuro John of the Mountains, lo invitò a concentrarsi sulla Bibbia sino ad aver d’ogni verso conoscenza mnemonica, lasciandogli come unica alternativa reiterate dosi di fustigate. Come egli stesso racconterà con ingenita ironia nel libro The Story of My Boyhood and Youth del 1913, arrivò all’età di 11 anni «con la pelle dolorante», ma capace di ricordare perfettamente «tre quarti dell’Antico Testamento e tutto il Nuovo Testamento».
Dalla Scozia agli Stati Uniti
A fine febbraio del 1849, Daniel Muir sorprese i propri cari confessando loro di guardare agli Stati Uniti come al paese pronto in cui seminar desideri e ambizioni. Ad animarlo, oltre al desiderio di un quotidiano maggiormente prospero e quindi in grado di auspicare un appagante futuro, c’era la volontà di unirsi a un sempre più diffuso Movimento di Restaurazione Campbellita, non sentendosi rappresentato dalla chiesa nazionale a causa dell’impronta calvinista e il clientelismo praticato al suo interno. Così, senza neanche lasciargli il tempo di elaborare l’idea, dalla sera alla mattina lasciò la Scozia portando con sé soltanto tre dei suoi ragazzi: Sarah, John e David, 13, 11 e 9 anni, mentre la primogenita Margaret con la madre e le bambine più piccole, sarebbero rimaste in patria finché il Nuovo Mondo non avesse offerto una casa degna di ospitarle.
Eravamo troppo giovani e fidenti per aver paura o rimpianti, ma non giovani abbastanza per mancare di guardare avanti con entusiasmo.
John Muir
Saltarono sul primo treno e via Edimburgo giunsero a Glasgow, dove ad attenderli c’era il capitano Job Lawton e la Warren, una delle navi in forza alla compagnia americana Dunham e Dimon, fra le maggiori protagoniste dell’immigrazione irlandese avvenuta nella seconda metà del XIX secolo. Insieme ad altri 72 passeggeri, per lo più giovani coppie in cerca di fortuna, salparono il giorno 24 e una volta effettuato uno scalo nella vicina Greenock rimanendo in porto circa 8 giorni, il veliero mollò nuovamente gli ormeggi per avventurarsi nel lungo viaggio transoceanico. Alba e tramonto si avvicendarono danzando sulle onde per oltre 6 settimane, un’infinità che John e fratelli trascorsero cullati dai canti dei marinai, lasciando che l’immaginazione resistesse al deserto d’acqua aleggiando sui libri offerti dal comandante, mentre Daniel Muir misurava con l’ansia di metter piede a terra per lanciarsi alla ricerca di appezzamenti da comprare.
La tentazione era di provare nelle zone boschive del Canada, ma un connazionale gli suggerì le regioni occidentali, luoghi meno ostili e dove la terra secondo le voci che circolavano, si mostrava più generosa nel ripagare la schiena. Non appena la Warren attraccò al porto di New York, carichi come umili animali da soma, si misero in cammino seguendo il consiglio ricevuto e la speranza di aver preso la strada giusta, parve tramutarsi in certezza allorché un commerciante di cereali incontrato lungo il tragitto verso sud, disse loro che tutta la merce da lui trasportata era frutto di coltivazioni possedute nel Wisconsin. Confortati da tale notizia proseguirono costeggiando l’Atlantico e all’altezza di Milwaukee, 30 provvidenziali dollari convinsero un contadino a sollevarli dalla fatica di un altro centinaio di chilometri facendogli posto sul suo carro fino alla città di Kingston. Il pastore chiese informazioni e venne indirizzato nei pressi del Fox River, maggior affluente del lago Michigan e in quell’area, dove stanziavano i nativi Winnebago, acquistò 160 acri.
John Muir tornò ad immergersi nella purezza di una natura incontaminata, circondato com’era da specchi d’acqua musicati dal canto delle rane e pullulanti di libellule; prati capaci di redimer l’anima colorandosi di ninfee, felci, iris e poi i boschi, brulicanti di scoiattoli, falchi, pernici. Un’apoteosi che gli gonfiò il cuore e di nuovo nell’autobiografia, ne descrisse il ricordo con estremo entusiasmo: «Oh, that glorious Wisconsin wilderness! Everything new and pure in the very prime of the spring when Nature’s pulses were beating highest and mysteriously keeping time with our own! Young hearts, young leaves, flowers, animals, the winds and the streams and the sparkling lake, all wildly, gladly rejoicing together!».
Utilizzando legno di quercia, si affrettarono a tirar su la casa di quella che sarebbe diventata la Fountain Lake Farm, la tenuta dove la famiglia poté finalmente riunirsi e sotto un unico tetto, consacrare nuovamente assieme il ritemprante pasto serale dall’estenuanti attività diurne. Gran parte delle mansioni venivano svolte dai figli e nel 1856, con la fattoria ormai quanto più efficiente e prolifica possibile, Daniel avvertì la necessità di aumentare le produzioni e decise di far suo un ulteriore lotto posto a circa 6 chilometri di distanza.
Lo battezzò Hickory Hill e dopo 8 anni spesi a costruire stalle, badare al bestiame e far d’inviolati campi delle fertili colture, per John Muir e fratelli c’era un’altro libro da scrivere, ma nel mentre irrobustiva gambe e incalliva mani, continuava ad appagare la fame di conoscenza divorando le parole di Giuseppe Flavio (37 d.C. – 100 d.C.), Plutarco (46/48 d.C. – 125/127 d.C), Jean-Henri D’Aubigné (1794-1872), le poesie di William Cowper (1731-1800), John Milton (1608-1674), Mark Akenside (1721-1770) e con sempre maggior dedizione rivolgeva le sue attenzioni a scienza, chimica, meccanica e non avendo altro modo, alle letture dedicava le ore notturne rintanandosi in cantina con l’esile luce di una candela. Una mente curiosa e ferace che sin dalla giovane età lo portò a realizzare numerosi oggetti e invenzioni: orologi, barometri, ruote idrauliche, segatrici automatiche, alimentatori per cavalli, una scrivania programmata capace di selezionare e sollevare i libri secondo l’ordine pre-impostato, poi li adagiava aperti sul tavolo quanto necessario e infine li chiudeva riponendoli nei loro alloggi.
La costruì intorno al 1860, quando aveva già compiuto il suo ingresso all’Università del Wisconsin-Madison per studiare botanica, geologia, chimica e nello stesso anno, fu incoraggiato da un conoscente a partecipare alla Madison State Fair, l’annuale fiera istituita nel 1851 per far conoscere i progressi tecnologici nel settore dell’agricoltura. Tra le varie creazioni, presentò la Early Rising Machine di cui lui stesso usufruiva soprattutto nelle «buie mattine invernali». Era una sorta di alzata verticale che fungeva da sveglia e all’ora stabilita, lentamente issava il letto fino a portarlo in posizione perfettamente verticale e perpendicolare al terreno, favorendo così la discesa della persona, ma che anticipava accendendo una luce.
Il potere dell’immaginazione ci rende infiniti.
John Muir
Il 3 marzo 1863, in piena guerra civile americana, il Congresso degli Stati Uniti autorizzò la coscrizione tramite approvazione dell’Enrollment Act considerando l’eventualità di dover fornire uomini all’esercito dell’Unione. Pur di non esser costretto ad impugnare armi, nella primavera successiva John Muir lasciò il paese volgendo lo sguardo verso le regioni meridionali dell’Ontario e in solitaria, andò perlustrando i territori dei Grandi Laghi, le paludi dell’Holland River, gli altopiani che sovrastano Hamilton Harbour, s’addentrò nei boschi raccogliendo erbe, piante e sospirò davanti alle cascate del Niagara: «la visione più maestosa del mondo». Macinava centinaia di chilometri a settimana e soltanto il sopraggiungere dell’inverno, unito alla mancanza di denaro, lo costrinsero a fermarsi e scelse di far sosta nella città di Meaford, dove sapeva avrebbe ritrovato suo fratello David. Anch’egli aveva infatti preferito fuggire dal Wisconsin per evitare la possibile chiamata militare e nella Contea di Grey, aveva trovato impiego in una fabbrica di rastrelli e manici di scopa, così l’invitò a rimanere e conoscendone le attitudini gli propose di farsi assumere.
John Muir non ci pensò due volte e William Trout, proprietario dell’impresa insieme a Charles Jay, lo sollevò anche dal cercare un alloggio dove vivere accogliendolo in famiglia come un figlio ritrovato e di fronte a tale gesto, lo scozzese rinunciò all’istante a metà stipendio, poi si adoperò per migliorare i macchinari e infine costruì un tornio autoalimentato che da solo consentì di raddoppiare le produzioni. Un radioso futuro sembrava schiudersi davanti a lui e alla ditta stessa, ma la notte del 21 febbraio 1866 un incendio divampò all’interno dell’azienda e come belve inferocite le fiamme divorarono anni di sacrifici, sogni e aspettative.
Dio deve quasi ucciderci per insegnarci la lezione.
John Muir
Le forze confederate si erano arrese all’Armata dell’Unione da quasi un anno, il generale Robert Lee aveva ceduto il 9 aprile 1865 nei pressi di Appomattox, Virginia, consegnandosi al parigrado Ulysses Grant e con la battaglia di Palmito Ranch, avvenuta fra il 12 e 13 maggio, gli Stati Uniti avevano consegnato alla storia una delle guerre più sanguinose da loro vissute. Sconfortato dagli eventi e con pochi soldi in tasca, John Muir rientrò nel paese che l’aveva adottato senza l’angoscia di poter finire fra le centinaia di migliaia di civili e soldati deceduti negli scontri. Attirato dalle foreste «ricche di latifoglie» e dalle tante possibilità di lavoro, si stabilì a Indianapolis e regalò l’inventiva ad una fabbrica di carri ferroviari e anche stavolta, in breve tempo si fece apprezzare per i perfezionamenti apportati agli impianti, ai processi di produzione e con una paga settimanale pari a 25 dollari, fu promosso supervisore. Muir non aveva però tenuto conto di un destino nient’affatto deciso ad arrendersi a una sua eventuale e plausibilmente brillante carriera nel settore industriale e il 6 marzo 1867, mentre era indaffarato a sistemare un vagone, si procurò una grave lesione alla cornea dell’occhio destro maneggiando un punteruolo.
Per 2 settimane fu costretto al buio di una stanza senza aver certezze di guarigione e le cose peggiorarono quando alcuni giorni dopo l’incidente, anche il sinistro perse le sue funzioni a causa dell’insorgere di oftalmia simpatica, una rara patologia che può appunto manifestarsi in un occhio sano a seguito di un trauma penetrante subìto dall’altro. Tramite lettera datata 12 marzo 1867, raccontò l’accaduto alla madre, confidandole l’afflizione provata, i timori, la volontà di riprendere presto il posto di lavoro ed infine, augurandosi d’esser riuscito a trasmettere quantomeno il proprio sentire, si scusò per la scrittura irregolare.
In risposta ricevette decine di messaggi pieni di calore e sostegno da parte di familiari e amici come Jeanne Carr, moglie del professore di chimica e scienze naturali Ezra Slocum Carr che aveva conosciuto nel periodo universitario, instaurando con entrambi un profondo legame di reciproca stima e affezione che non ebbe mai fine. «Vedrai più tu con un solo occhio — gli scrisse nell’esortante e intensa missiva — di quanto la maggior parte delle persone potrebbe fare con una mezza dozzina». Parole profetiche, perché come spesso avviene, la svolta drammatica si rivelò motivo d’intima riflessione, un ascolto e confronto con la propria anima e dall’oscurità in cui era improvvisamente piombato, risorse con rinnovata energia e un’idea nitida del domani.
Muir si era sempre rifiutato di presentare domande per ottenere i brevetti e rivendicare i diritti sulle tante opere concepite, fermamente convinto che «nessun inventore deve trarre profitto da una creazione per la quale non merita alcun credito», in quanto «tutti i miglioramenti e le invenzioni dovrebbero essere di proprietà della razza umana», adesso era pronto a rinunciare anche all’innato genio. Lentamente aveva riacquistato la vista e tale fu la gratitudine e forse la sorpresa di poter rimirare il mondo come prima, che ad esso avrebbe riservato la sua esistenza.
Ho detto addio a tutte le mie invenzioni meccaniche e sono deciso a dedicare il resto della mia vita allo studio delle invenzioni di Dio.
John Muir
All’inizio di giugno salutò Indianapolis con l’intenzione di rientrare nel Wisconsin e soggiornarvi per un periodo di circa un mese, ma rigenerato nello spirito, anziché puntare a sud si diresse a Decatur e per alcune settimane andò «botanizzando» le praterie a nord dell’Illinois. Respirò Portage, Rockford, Jenisville, Pecatonica e alla fine, con la tempra che gli aveva permesso di attraversare l’Ontario, cominciò a mangiare i chilometri che lo separavano da casa. Fu il preludio di ciò che avrebbe compiuto, quanto successo gli aveva svelato la caducità della vita e reso consapevole che oltre l’ultimo orizzonte c’era un Pianeta da scoprire, amare, sostenere, un progetto al di sopra dell’uomo e dalle meraviglie nascoste alla mente distratta. Il 1° settembre fece ritorno nell’Indiana recandosi a Jeffersonville via treno, dopodiché superò l’Ohio River entrando nel Kentucky e dalla popolosa Louisville, senza aver precedentemente tracciato un percorso, ma puramente voglioso di seguire la strada «più selvaggia, ricca di vegetazione e meno battuta possibile», partì alla volta della Florida coprendo una distanza di 1600 chilometri in 8 settimane; un viaggio che nel 1913 racconterà nel libro dal titolo A Thousand-Mile Walk to the Gulf.
Concluse l’impresa a Cedar Keys, fra i luoghi memori della lunga Guerra Seminole che fra il 1817 e il 1858 vide gli amerindi combattere contro il Governo degli Stati Uniti. In realtà Muir non aveva previsto soste, il proposito era infatti quello d’imbarcarsi e approdare a Cuba, ma gli scrittori d’avventure son gli imprevisti e con sua grande delusione constatò che di navi ancorate non c’era neanche l’ombra. Poteva scegliere fra andarsene oppure attenderne l’arrivo e a sciogliere il dilemma la notizia circa la presenza di una falegnameria gestita dalla fabbrica di matite Eberhard Faber Pencil e una seconda di proprietà della Eagle Pencil Company.
Condotta da Richard Hodgson, quest’ultima aveva in dotazione una goletta per il trasporto di legname a Galveston, Texas. Muir vide in essa l’opportunità di realizzare il piano, per cui si presentò e chiese quanto gli sarebbe costato un passaggio fino all’isola caraibica. Sapeva di non aver abbastanza denaro, era però altrettanto conscio d’aver le capacità di guadagnarselo e ne dette subito dimostrazione riparando il volano con funzione motrice di una lama a nastro. Ottenne quindi un ruolo nella falegnameria, ma trascorsi appena 3 giorni, mentre stava lavorando fu colto da malore e di botto, rorido di sudore crollò a terra perdendo i sensi. Tornò in sé la mattina seguente ed apprese di esser stato vittima di un violento attacco di febbre causato da una grave forma di malaria. John Muir non avrebbe aggiunto capitoli alla sua storia, se non fosse stato per le premurose cure degli Hodgson, i quali, senza esitazione alcuna lo accolsero in famiglia e generosamente lo accudirono fino a ridonargli la salute a suon di chinino e calomelano. Ci vollero due mesi e altro tempo sarebbe servito per uscire del tutto dalla convalescenza, c’era però la natura ad attenderlo, quel creato tenuto a mente anche durante la malattia riflettendo e decostruendo il pensiero comune e religioso, che pone l’essere umano al centro del mondo, anziché concepirne la reale essenza di tessera di un mosaico.
Perché un uomo dovrebbe valutare se stesso come più di una piccola parte dell’unica grande unità della creazione? L’universo sarebbe incompleto senza l’uomo; ma sarebbe incompleto anche senza la più piccola creatura transmicroscopica che abita al di là dei nostri occhi presuntuosi e della nostra conoscenza.
John Muir
Una sera, osservando il sole spegnersi nell’orizzonte del golfo, rimase folgorato alla vista di una nave solcare le onde del tortuoso canale portuale. Si trattava della Island Belle del capitano Parsons e benché fosse ancora debole, Muir non perse l’occasione e su di essa salpò verso Cuba per poi eleggerla a dimora nelle settimane che rimase ferma a L’Avana. Raccolse e studiò fiori, conchiglie, visitò il Jardin Botanico Nacional e avrebbe voluto scrutare anche la Sierra Maestra per poi addentrarsi nell’America Latina, vedere la Foresta Amazzonica, toccare le sorgenti dell’Orinoco, ma le condizioni di salute e la penuria di mezzi lo costrinsero a rivedere i piani. Il progetto non venne biffato dalla lista dei desideri, Muir ne cambiò semplicemente la data e nel frattempo, volse lo sguardo alla California.
Confidò l’intenzione al capitano Parsons e dietro suo consiglio, si avvalse di una goletta adibita al trasporto di frutta e nell’arco di 24 ore giunse a New York. La folla, i rumori, le dimensioni della metropoli gli sballarono l’ago della bussola, tanto che durante la breve permanenza non si allontanò troppo dal porto e più tardi, su di lei scriverà che gli sarebbe piaciuto visitarla, se solo fosse stata «come molte colline e valli selvagge, senza abitanti». Lasciò la costa atlantica a bordo di un piroscafo della North American Company, sbarcò a Panama e una volta attraversato l’istmo, partì per San Francisco sbarcandovi il 27 marzo 1868.
John Muir e la Yosemite Valley
Bramoso di tornare al più presto a contatto con piante, fiori e animali, Muir oltrepassò la baia con il traghetto e da Oakland, intraprese il percorso iniziatico volgendo lo sguardo a sud. Camminò lungo la Santa Clara Valley e raggiunse il valico di Pacheco Pass ammirando le fioriture della Central Valley prima di avanzare in direzione della San Joaquin Valley e dopo aver voltato e superato la cittadina di Snelling, valicò le alture di Coulterville per poi proseguire l’esplorazione inoltrandosi nei territori della Sierra Nevada e intorno al 22 maggio, incontrò la Yosemite Valley. Ebbe così inizio il viaggio spirituale che lo avrebbe reso testimone e profeta del battito dell’Universo, in quel santuario dalle granitiche pareti, dove imponenti sequoie sposano cielo e terra con la tonante benedizione delle cascate i clarino dei ruscelli, John Muir entrò in simbiosi con la natura selvaggia imparandone il linguaggio, prendendo profonda contezza del delicato equilibrio su cui regge l’imprescindibile e indissolubile legame tra tutti gli elementi.
Nessun tempio costruito dall’uomo può essere paragonato a Yosemite.
John Muir
Stregato dallo scenario, esplose in lui una costellazione di sentimenti e la gratitudine, insieme allo stupore nel contemplarne la meraviglia, sono le emozione dominanti ogni scritto: «L’intero paesaggio mostrava un progetto, come le più nobili sculture dell’uomo. Quanta potenza in questa bellezza! Sbalordito, avrei abbandonato tutto per lei. Sarebbe stato per me lieto e infinito lavoro scoprire le forze che ne hanno plasmato i lineamenti, le rocce, le piante, gli animali, lo scandire glorioso del tempo. Bellezza oltre l’immaginazione, creata ovunque, sopra, sotto e creata per essere eterna». (John Muir, My First Summer in the Sierra, 1911)
Pur di rimaner vicino a Yosemite, si offrì di prendersi cura del gregge di un allevatore locale, tale Pat Delaney, quindi costruì una capanna e con estrema devozione cominciò a scoprirne la vita, la storia, un’analisi che gradualmente lo portò ad avvertire la divinità della natura, intravedendo la necessità di scrutarne i fenomeni non solo a livello fattuale, ma anche tramite l’attività sensoriale al fine di comprenderne l’implicita spiritualità.
John Muir produsse da subito una folta documentazione costituita da esperienze e osservazioni di carattere scientifico, parole sempre espresse con disarmante poetica che presto cominciarono ad apparire su riviste e quotidiani a tiratura nazionale, concorrendo in maniera determinante alla diffusione della conoscenza sull’area. Tra i tanti contributi, egli fu anche uno dei primi a suggerire che le principali formazioni presenti nella valle trovarono origine dai grandi ghiacciai alpini, smentendo così le teorie di numerosi studiosi: «Tracce di una lastra di ghiaccio di migliaia di metri di spessore, sotto le cui pesanti pieghe sono stati modellati i paesaggi attuali, si possono trovare ovunque, anche se i ghiacciai ora esistono solo tra le cime dell’Alta Sierra. Nessun’altra catena montuosa di questo o di altri continenti che ho visto è così ricca come la Sierra di audaci, suggestivi e ben conservati monumenti glaciali […] Non troverai vetta, cresta, cupola, cañon, bacino, ruscello o foresta che non riveli l’esistenza passata e le modalità d’azione di fluire, modificare, scolpire e creare il terreno di paesaggi glaciali. Infatti, nonostante aria, pioggia, neve, gelo, e valanghe abbiano influito su gran parte della Catena per decine di migliaia di burrascosi anni, lasciando la propria impronta in maniera sempre più incisiva su quella del ghiaccio, quest’ultima è così duratura e altamente enfatizzata che continua ad affiorare, sublime, chiara e leggibile, attraverso ogni iscrizione successiva». (John Muir, The Yosemite, 1912, cap.11)
Nel trascorrervi le giornate, Muir non impiegò molto tempo prima di rendersi conto dell’eccessivo sfruttamento delle risorse e del conseguente deterioramento degli ecosistemi. Già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento con i primi insediamenti coloniali e il successivo turismo, cominciarono a manifestarsi preoccupanti segnali di degrado e sotto la spinta del ministro Thomas Starr King, il lavoro fotografico di Carleton Watkins unito ai dati dell’agenzia geologica dello Stato, il Congresso degli Stati Uniti approvò la legge denominata Yosemite Grant, concedendo la valle e il Mariposa Big Tree Grove alla California decretando destinandolo all’«uso pubblico, resort e ricreazione». Venne firmata da Abraham Lincoln il 30 giugno 1864 e rappresentò un significativo passo avanti per la salvaguardia dell’ambiente, ma tale provvedimento non arginava i danneggiamenti ai territori circostanti derivati da pascolo disordinato e incontrollata deforestazione.
Il rischio di veder rovinare quella che Muir percepiva ormai come la propria dimora e la «casa di Dio» — la stessa che 116 anni dopo sarebbe stata designata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco — pose a fianco del mistico-ricercatore, lo strenuo paladino della natura, facendogli precorrere di decenni la causa ambientalista e introdurre il concetto di wilderness, ossia di terra selvaggia e quindi non contaminata dall’intervento umano.
Tentò di persuadere quante più persone possibili a visitare la zona, a campeggiare insieme a lui, provando a dimostrare l’impellente esigenza di affidare l’intera area al controllo federale e l’appello chiaramente lo rivolse soprattutto a figure che potevano avere una certa autorità.
Nessuno però ritenne di aver i mezzi necessari per patrocinare l’iniziativa, tranne l’influente Robert Underwood Johnson, scrittore e diplomatico americano che all’epoca era appena entrato a far parte della direzione di The Century Magazine. Oltre al sostegno politico, Muir ebbe l’opportunità di parlare a tutto il paese mediante pagine del periodico e il 1° ottobre 1890, conseguì una prima vittoria con l’approvazione della Yosemite Act. Tale norma estese la protezione integrando una superficie di circa 4000 km² e la regione venne riconosciuta riserva forestale nazionale «per la conservazione del legname, depositi minerali, peculiarità o meraviglie naturali» e inoltre vietava «l’abbattimento immotivato della fauna ittica e della selvaggina, nonché la loro cattura o soppressione a scopo di lucro».
Per quanto rilevante. il provvedimento non esaudiva il desiderio di Muir, in cuor suo permaneva il desiderio di vedere tutto il territorio diventare un unico parco nazionale, anche in virtù del fatto che la precedente disposizione stava rivelandosi fallimentare a causa di una gestione inadeguata, incapace di risolvere appieno il problema della pastorizia e soprattutto di opporsi al bracconaggio. Per esercitare maggior pressione e raggiungere l’obiettivo, raccogliendo il suggerimento di Johnson, prese in considerazione la possibilità di costituire un’associazione e dopo aver tenuto alcuni incontri coinvolgendo figure di rilievo come l’educatore David Jordan, l’avvocato Warren Olney, il pittore William Keith, medici e geologi quali Joseph LeConte e Willard Johnson, il 28 maggio 1892 venne istituito il Sierra Club, con un totale di 182 associati.
Muir fu eletto al vertice dell’organizzazione e l’incessante opera da lui svolta per catturare e muovere le coscienze, scrivendo, informando, avvisando sui pericoli di scomparsa di un’immensa ricchezza naturale per un suo dissennato utilizzo, finì per attirare l’attenzione del presidente degli Stati Uniti, Theodor Roosevelt e il 14 marzo 1903, gli inviò una lettera chiedendo d’esser guidato nella Yosemite Valley. Venne accolto il 15 maggio e la visita durò appena tre giorni, ma fu abbastanza perché l’11 giugno 1906 il disegno di John Muir divenisse realtà.
La natura è sempre all’opera per costruire e abbattere, creare e distruggere, mantenendo tutto vorticoso, scorrevole, non permettendo riposo, ma in moto ritmico mutando in un canto infinito.
John Muir
Il parco nazionale conserva ancora il suo spirito selvaggio, quasi il 90% del territorio risulta incontaminato e al suo interno convivono oltre 400 specie di animali fra volatili, rettili, anfibi, pesci e mammiferi, fra cui l’orso nero americano, il cervo mulo, la lince rossa, la pecora detta bighorn per le imponenti corna e oltre alle millenarie e vertiginose sequoie giganti, con fusti che raggiungo i 7 metri di diametro e altezze superiori ai 90 metri, sono migliaia le varietà di piante a decorare valli e montagne. Seguirono altri trionfi e come chiunque imprende sfide, non sfuggì a dolorose sconfitte, una delle quali l’edificazione della diga proprio dentro i confini della riserva, nella Hetch Hetchy Valley, un progetto proposto al Dipartimento degli Interni dalla città di San Francisco a seguito del violento terremoto di magnitudo 8.3 che la colpì il 18 aprile 1906. Muir si oppose strenuamente per 7 anni, ma le sue parole non ebbero potere sul Congresso e nel 1913 ne venne approvata la costruzione.
Fu l’ultima battaglia.
Dopo aver amato ed esplorato il mondo, dall’Europa all’Australia, dall’India all’Alaska, dal Giappone al Canada, con le immagini negli occhi delle ultime esperienze in Sud America e Africa, si spense al California Hospital Medical Center il 24 dicembre 1914, consumato dalla polmonite da una polmonite che 9 anni prima gli aveva fatto piangere la scomparsa della moglie Louisa ‘Louie’ Strentzel (1847-1905), da cui aveva ricevuto in dono le figlie Wanda (1881-1942) e Helen (1886-1964).
John Muir divenne inesauribile fonte d’ispirazione per milioni di persone e disseminate nel Pianeta sono le memorie dei suoi passi, mentre al Sierra Club, l’eredità fu raccolta da uomini quali William Edward Colby (1875 -1964), Ansel Adams (1902-1984), Edgar Wayburn (1906-2010), David Brower (1912-2000), spiriti indomi che hanno permesso all’organizzazione di resistere al tempo e rimanere fra le maggiori fautrici della conservazione ambientale.
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