Fiori e piante, muse di poetiche e ispiranti leggende
Tipologia di racconto tipica dell’antichità ed assimilabile, seppur differente, a miti, fiabe e favole, la leggenda può considerarsi il ponte d’unione fra popoli e culture; risulta effettivamente difficile immaginare ch’esistano al mondo popolazioni al cui interno non siano state narrate storie che, unite alla fantasia, abbiano dato origine alla tipica narrazione orale che confluisce nella meraviglia dell’intreccio fra realtà ed immaginazione.
Dal latino legenda, ossia “cose che devono essere lette”, l’ambito a lei prediletto in origine fu l’ecclesiastico, caratterizzato quindi dal racconto inerente la vita dei santi e dei loro miracoli, esteso successivamente a più argomentazioni distinte in quattro filoni ben precisi:
• leggende popolari, legate nel passaggio fra membri di uno stesso popolo ed a staffetta nelle generazioni a seguire, spesso originate da fatti d’esperienza ai quali, non riuscendo nel tentativo d’interpretazioni empiricamente fondate, si forniva una spiegazione fantastica che colmasse la lacuna conoscitiva, appagandone contemporaneamente la brama, oppure la trasformazione in eroi di persone realmente esistite al fine di conferir notorietà al proprio paese o, ancora, la personificazione delle paure umane in mostri e fantasmi;
• leggende metropolitane, ove alla staffetta tra popoli vien grossolanamente sostituito un curioso e pettegolo “di bocca in bocca”, ossia un passaggio fra persone di notizie, spesso ipotetiche, non veritiere e riferite ad altri, che nel fitto vociferare acquistano credibilità, differenziandosi dal racconto di cronaca per riferimenti generici dal punto di vista logistico, temporale ed informativo nello specifico del soggetto di cui si racconta, senza che dello stesso, o di colui che ha osservato l’accaduto, venga specificato il nominativo;
• leggende storiche, nate da miti creduti fatti reali nel corso del tempo e, di conseguenza, ad elevato impatto sulla cultura e sulla storia del paese a cui sono riferite;
• leggende d’autore, ad opera di un singolo scrittore che, trovando interessante un aspetto della realtà, ne sviluppa il fascino nella creazione di un quesito alla cui risposta la fantasia faccia da mezzo primario nel condurre il lettore fra curiosità e desiderio di lettura.
Percorsi popolari, metropolitani, storici e letterari, testimoni di quanto il fantasticare sia qualità e bisogno intrinseco all’umanità nel tentativo di comprendere, immaginare, divertirsi ed ancora condividere esperienze e sensazioni che nella collettività si originino e si nutrano o che dal singolo traslino a macchia d’olio sul lettore assetato di verità e dei suoi surrogati. Necessità di gustare storie e d’affibbiarne al mondo, facendosi astuti osservatori ed allo stesso tempo contenitori mentali di soggetti che possano divenire protagonisti delle leggende più disparate, da ricamare sulle sensazioni umane, sul camaleontico mostrarsi di Madre Natura, sulla sua fauna e la sua flora, meravigliose tele viventi sulle quali gettare inchiostro in variopinta molteplicità narrante.
Fiori ed alberi ben si prestano al suddetto ricamo di penna e parola, offrendo petali e rami all’inventiva umana nel suo germinare e schiudersi in variegata esposizione delle proprie facoltà immaginative e rievocanti.
I fiori hanno una espressione del volto, come gli uomini o gli animali. Alcuni sembrano sorridere; altri hanno un’espressione triste; alcuni sono pensierosi e diffidenti; altri ancora sono semplici, onesti e retti, come il girasole dalla faccia larga e la malvarosa.
Henry Ward Beecher
La poetica dei fiori
Girasole
Annuale pianta che nell’unione in capo delle due parole greche helios (sole) ed anthos (fiore) unisce raggio a petalo, l’eliotropismo che la caratterizza, ossia il perenne rivolgersi all’astro solare, ne dona particolarità e fascino impareggiabili nel genere. Fiore multiplo, composto da più fiori disposti a spirale, 34 in un senso e 55 nel senso opposto, la mitologia lo riconduce alla ninfa Clizia la quale, innamorata del dio Apollo, ne seguì gli spostamenti del carro nel cielo, venendo trasformata in Girasole dopo nove giorni d’oculare inseguimento.
L’origine in leggenda racconta d’un fiore nato in bruttezza e completamente storto, denigrato pertanto dagli altri fiori ed isolato in tale maniera da soffrirne atrocemente, seppur dignitoso nel non esteriorizzare lamentele a riguardo.
Le sue giornate trascorrevano in ammirazione del sole, per osservar più da vicino il quale si allungò molto, girando la propria corolla per seguirne ogni spostamento, fino al giorno in cui l’infuocato astro, accorgendosi della sua tristezza, decise di conoscerlo. Si dispiacque del suo racconto al punto d’abbracciarlo con intensità, donandogli il dorato colore dei suoi raggi e rendendolo il fiore più bello di tutto il giardino, in ultimo, dedicandogli un nome che ricordasse la stima e la devozione a lui dedicate.
Quanta bellezza si nasconde spesso sotto disarmoniche fattezze fisiche, di fronte alle quali alcuni rifuggono in completa perdita del valore intrinseco, tutto da scoprire ed amare. Quanto insegna, quel girasole che decide di non soccombere alle malelingue rivolgendo il proprio sentire alle personali inclinazioni e non cedendo timone alla rabbia nei confronti di chi sarcasticamente lo dileggia. Un esempio, uno stimolo ed un percorso da seguire, nel tentativo di elevarsi sopra la bruttura d’animo che ben peggiore resta del corporeo antiestetismo, rendendo i fisici di coloro che vi si sottomettono vuoti scrigni che di sola avvenenza esteriore possono vantarsi, inconsapevoli del carattere effimero della stessa rispetto al valore dell’interiorità, troppe volte incompreso e poco valutato, oltre che meschinamente deriso, il peggior comportarsi.
Occhi della Madonna
Scientificamente chiamati Veronica, in omaggio alla santa, Occhi della Madonna è il nominativo che comunemente viene utilizzato per appellare piccolissimi fiori azzurri di prato presenti tutto l’anno, quattro petali che davvero sembrano avvolgere un’iride nella quale incantare lo sguardo più ammirevole e beato. Da non confondere, seppur molto simili, con i “Non ti scordar di me” (Myosotis arvensis), gli Occhi della Madonna rappresentano l’addio, motivo per cui vengono donati ad una persona in procinto di partire come augurio di buon auspicio e protezione.
La storia che ne origina il nome è narrata dallo storico ed insegnante, svizzero-italiano, Virgilio Chiesa ne L’anima Del Villaggio, Lugano, 1934:
La leggenda di un fiore
Una dolce mattina, nel Malcantone, discese la Madonna col Bambino per godersi la nostra primavera.
La Madonna passeggiava lungo un sentierino pianeggiante, invigilando il figlioletto che correva felice tra l’erba e i fiori.
Dopo un po’, il piccolo Gesù ebbe sete e domandò da bere.
La madre si guardò attorno, tese l’orecchio, ma non scorreva un filo d’acqua. Già stava per prendersi in braccio la sua creaturina e risalire ai cieli, quando le si offerse allo sguardo un bianco fiorellino che, all’ombra d’un blocco erratico, quasi non osava mostrarsi.
La Madonna s’avvicinò all’intirizzito fiore, lo colse e vide dentro quel pallore una gocciola di rugiada che sprizzò una luce di diamante.
Accostò la corolla a mo’ di minuscola coppa alle labbrucce del piccino perché sorbissero quella stilla.
Gesù Bambino s’ebbe spenta la sete e riprese le sue corserelle nei prati. La Vergine confortò d’uno sguardo il povero fiore che abbandonava il capino sullo stelo.
Lo riportò all’ombra del masso, riattaccandolo miracolosamente al gambo. Tosto la corolla si drizzò e divenne azzurrina come l’iride della Madonna, cui aveva per un istante fissato.
E tutti i fiori di quella specie tinsero i bianchi petali di delicato azzurro.
Da allora, nel Malcantone, le veroniche sono chiamate “occhietti della Madonna”: guardano a primavera dalle siepi, dai margini dei ruscelli, dalle prode, fiori sacri all’alma madre dei cieli. (Tiro federale Bellinzona 1929. Giornale della festa; Fiabe e leggende del Ticino, Vol. 1 Sottoceneri, Centro didattico cantonale, Massagno)
Un racconto di penna sensibile ed ovattato, testimone d’un saper cogliere e rielaborare la realtà tessendo una trama che di delicatezza fa il suo elemento primo, posata in maniera così cortese e reale da far immaginare la scena, oltre che percepire l’umanità di un piccolo fiore e di coLei che a quella umanità color d’iride ha saputo trasmettere. Una scena di vita nella vita che incanta sul filo della magia che solamente le storie dettate dal cuore sanno suscitare, una sfumatura di materna e terrena quotidianità miscelata al divino che avvicina ed accomuna, nel rispetto del creatore e del creato, fra i quali inserirsi vivendo in punta di piedi, anelando ad un percorso esistenziale che di riguardo faccia gratificazione per il dono della vita.
Soffione
Il Tarassaco comune (Taraxacum officinale), conosciuto come Soffione, Dente di leone, Cicoria asinina ed innumerevoli altri epiteti, ognuno dei quali ha spiegazione ben precisa, deve il riferimento officinale del nome scientifico al fatto d’essere perenne pianta dalle svariate proprietà terapeutiche, di foglie e radici, utilizzata fin dai tempi più antichi. Nella simbologia esso rimanda al viaggio ed al distacco, concretizzati a simbologia nei semi che, abbandonandosi al vento, affronteranno un lungo viaggio per rinascere a nuova vita in ogni parte del mondo, motivo per cui il dorato dente leonino, nel linguaggio dei fiori, viene associato a forza, fiducia e speranza.
Terra d’Irlanda accoglie la dolce leggenda secondo la quale, anticamente, elfi, fate e gnomi, vivessero senza necessità di nascondersi, in piena libertà e beatitudine fra boschi incontaminati, fino a che la molesta mano dell’uomo non giunse a modificare la natura ed il suo delicato equilibrio, costringendoli alla fuga.
Mentre gnomi ed elfi riuscirono a mimetizzarsi trovando rifugio fra tronchi e rocce, per le fate sventura volle che gli appariscenti abiti le esponessero alla vista dell’uomo il quale, calpestandole in continuazione, ne spronò la trasformazione in fiore dai petali d’ocra e robustezza di stelo al punto che, schiacciandolo, era in lui la capacità di risollevarsi.
Resistenza e tenacia che si narra appunto siano ad esso conferite dalla presenza delle fate al suo interno, precisamente nella corolla.
Amara storia di fuga e protezione dall’uomo, creatura vivente ingorda di potere a discapito della sferica culla che ne accoglie generosamente il passo da millenni nutrendone il corpo, seppur non in grado di far lui comprendere quanto la distruzione d’un ecosistema divenga mina al suo stesso esistere. Fauna e flora resistono imperterrite fra evoluzioni ed estinzioni, pietosamente silenti ed orgogliosamente custodi d’una meraviglia che, nello sfregio protratto, in magmatica ribellione potrebbero reagire. Come ardimentose fate, adagiatesi nelle corolle d’un soffione, i cui semi s’offrono all’innocente fiato dei bimbi, inconsapevoli compagni di viaggio fra folate di vento e veracità di vita.
Stella Alpina
La Stella Alpina, perenne e protetta pianta erbacea d’alta quota, da sempre simbolo di nobiltà e purezza, rappresenta, nella peluria dei candidi petali, l’evoluzione primaria dell’istinto alla vita che, nell’adattamento all’ambiente circostante, unisce in maniera commovente la capacità di sopravvivere nell’ecosistema in delicato equilibrio, privo di sopraffazione.
Leggenda vuole che una montagna solitaria piangesse in continuazione dalle sue altezze in quanto l’ambiente roccioso non permetteva la crescita di alcuna pianta, isolandola in uno stato di solitudine che ne appassiva i sentimenti di giorno in giorno.
Fu in una giocosa notte durante la quale gli astri si dilettavano fra loro che una piccola stella, enormemente affranta dalla solitudine della montagna, in baldanzoso ardire si tuffò dal celeste e giunse ad essa per donarle compagnia, ma le gelide condizioni atmosferiche unirono tremore al desiderio di consolazione della luminosa stellina, quasi pentita d’aver abbandonato il suo cielo, seppur convinta del benigno valore del suo gesto. Ecco allora che la montagna, in affabile atteggiamento d’affetto, manifestò alla stella la propria riconoscenza ricoprendola di peluria bianca e legandola a sé con radici profonde, che ramificarono nel connubio più gentile di tutti i tempi.
Accorgersi l’un delle difficoltà dell’altra, comprendersi e proteggersi. L’essenza dell’amore fra petali e roccia in un racconto di rara emozione ove la solitudine sia mano da stringere, sentimento da custodire, cuore da carezzare. L’aprirsi come terra affinché le radici di colui a cui si tende giungano nel profondo e lì si sentano a casa, in un reciproco dedicarsi che di gentilezza fa mezzo primo d’interazione, dove le parole risultino superflue qualora i pensieri comunichino all’unisono.
La saggezza degli alberi
L’Abete
Sempreverde ricondotto per antonomasia ai festeggiamenti natalizi e simbolicamente associato all’immortalità, fu albero della speranza per gli antichi Greci e sacra pianta accomunata alla fertilità per i Celti, da sempre devoti agli alberi in quanto considerati custodi di un’anima.
È fra le montagne che nasce una leggenda, agli abeti dedicata, secondo la quale gli stessi, come tutte le altre piante, eran soliti perdere foglie in autunno per poi “rinverdirsi” a primavera, governati dal loro Re, un immenso abete rosso situato ai piedi del Cervino e ritrovo estivo di numerosi uccelli che si posavano sui suoi i possenti rami fino a migrazione in fuga dall’inverno.
Fu giusto in concomitanza con l’autunnale migrare d’uno stormo che un uccellino si ferì ad un’ala e, impossibilitato al volo, rimase solo. Si riparò sui rami del rosso abete il quale, sapendo che di lì a poco tempo avrebbe perso i propri aghi, temette per la vita del piccolo volatile e così, in paterno istinto di protezione, s’impegnò a resistere alle estreme condizioni invernali, impegnandosi a tenere attaccati gli aghi ai propri rami, resistendo a dure intemperie e sopportando eventi atmosferici estremi, in familiare collaborazione con tutti gli abeti circostanti.
Fu così che la sua premurosa chioma si fece casa per l’uccellino ferito fino a primavera, permettendogli di riprendersi e di spiccare nuovo volo.
L’inverno, che con stupore aveva assistito all’incredibile tempra dell’abete rosso, ne chiese il motivo e, sentendosi raccontare dell’accudimento ch’egli aveva riservato all’indifeso animale, ne fu talmente colpito da ricompensare il gesto di bontà con l’attaccatura perenne degli aghi a tutti gli abeti ed il dono di restare sempre verdi, anche quando tutte le altre piante si sarebbero arrossate nelle foglie in previsione della loro caduta.
L’Abete rosso conduce in una delicata storia d’altruismo dove la mente si compiace e si rasserena nel percepirne il buon cuore, riportando il pensiero alla bellezza del concedersi in virtù della felicità altrui. Un dono al prossimo che è contemporaneo dono a se stessi, nell’appagamento che deriva dal prendersi cura d’un altro essere vivente e nella gratificazione che consegue al sapersi parte attiva d’un progetto in cui il rispetto per la vita s’è fatto scudo a disagevoli avversità.
La Magnolia
Antica pianta simbolo di buon auspicio, illibatezza, dignità e perseveranza, i cui fossili risalgono a 95 milioni di anni fa, si pensa che il suo nome derivi e sia dedicato a Pierre Magnol, il medico-botanico francese nato a Montpellier nel 1938 e direttore dell’omonimo giardino, che ne classificò il genere nella famiglia delle Magnoliaceae, alla quale appartengono un’ottantina di differenti sottospecie.
Fra le numerose leggende, nella Leggenda delle due magnolie si narra d’un alto e forte albero, con pochi fiori e molte foglie, che viveva in condizioni di solitudine, custodendo all’interno del proprio tronco una magnolia stellata, fiorita e profumata, metaforicamente corpo e cuore in simbiotica crescita. Nel tempo, un’azalea gialla le crebbe a fianco e, in un giorno di pioggia, ne sfiorò per puro caso il tronco, tocco che la magnolia interpretò erroneamente come gesto d’affetto, inizialmente contraccambiando con il volgere i propri fiori verso l’azalea e, successivamente, innamorandosene follemente. Dispiacere immenso conseguì al fatto che il suo sentimento non fosse corrisposto, motivo per cui il continuo tendersi ed il successivo sconforto della magnolia giunsero ad un livello tale da spezzarle il cuore e suddividerla in due alberi, uno più alto, con pochi fiori e molte foglie a mostrar vigore e risolutezza, l’altro privo di fogliame, ma ricoperto di profumati fiori bianchi a simbolo della fragilità d’un cuore amante, non amato.
Madre Natura, esempio primo in cui i processi metaforistici ricalcano le sfumature sentimentali umane simbolizzate a leggenda che insegnamento diviene, nell’allegorica lettura e nel significato che ad essa s’attribuisce. La magnolia innamorata concede in dono una preziosa lezione di energia e fedeltà, quella verso se stessi dove, seppur sfregiati dagli eventi della vita, non ci si arresti nella crescita e nell’incessante evolversi, fra terra e cielo, fra dolore e rinascita.
La Palma
Simbolo cristiano per eccellenza, del cui periodo pasquale, insieme all’ulivo, rappresenta, l’incontaminatezza ed il senso primo della vita, l’esotica pianta i cui fossili rinvenuti appartengono all’era del Cretaceo e del Giurassico, rimane protagonista indiscussa fra le pagine della Bibbia, nominata in più brani e vegetale madre di datteri che nutrivano nomadi ed abitanti del deserto.
Appunto dal Sahara giunge antica leggenda secondo la quale un uomo vagante nelle dune desertiche, persi tutti i suoi averi e prossimo alla follia per l’insopportabile sete ed il caldo estenuante, giunse in riva al mare gettandosi nello stesso per reidratare il corpo seccato dal sole, restando in lui inalterata l’arsura in quanto impossibilitato a dissetarsi delle salate acque marine. Intrappolato fra sete ed ira, impulso e rabbia presero in lui il sopravvento, sfogandosi nel premere una pietra rossastra, che l’uomo aveva raccolto sulla spiaggia, nel cuore d’un timido germoglio di palma in fase di crescita ed in collerico disdegno nei confronti della natura, da lui ritenuta unica colpevole del suo lento ed inevitabile deperire.
La piccola pianta scricchiolò rompendosi, mentre al suo fianco l’uomo crollò, salvato due giorni più tardi da alcuni cammellieri di passaggio, completamente indifferenti alle ferite del palmizio germoglio il quale, spezzato nelle foglie, ma non nel cuore, rimase per lungo tempo sotto il greve peso del masso, tentando inutilmente di levarselo di dosso e supplicando invano l’aiuto del vento. La raggiunta cognizione di non aver possibilità alcuna di riuscire a spostare la pietra, gettarono la nascente palma in uno stato di disperazione che la convinse ad abbandonarsi ad inevitabile e precoce dipartita, finché una voce interiore deviò la sua rassegnazione verso la ricerca di una soluzione alternativa, ossia nel concentrare le proprie forze per spingere le sue radici sempre più a fondo nel terreno sabbioso.
E così fece per un lungo periodo.
Fra ostinazione e fermezza, venne il giorno che le sue radici giunsero talmente in fondo da trovare una fonte d’acqua; dallo zampillo che ne conseguì, s’originò una splendida oasi di benessere e la piccola palma, ancorata e nutrita dal terreno, iniziò a crescere, avvolgendo i forti rami intorno alla propria pietra, quasi a volerla proteggere, sviluppando pertanto un tronco meno snello e meno alto rispetto a quello della altre palme, ma guadagnandosi il soprannome di palma della pietra, in omaggio alla sua forza interiore che di negatività fece stimolo.
Sta nell’ardimentosa assiduità del germoglio di palma una profonda lezione di vita, uno spronarsi al risveglio di energia e prodezze intrinseche, al fine di ampliare orizzonti mentali che aiutino nella valutazione di soluzioni alternative, evitando che l’unicità di fissazione renda danno all’ego. Un rinascere da una ferita che diviene trampolino di lancio verso un’elevazione vitale, dove il rendersi consapevoli dell’ostacolo sia occasione per valutare i propri limiti ed optare per un differente traguardo più facilmente raggiungibile, riconoscendo allo stesso tempo l’imprevisto come sana opportunità di cambiamento che armonizzi l’essere.
Il Salice Piangente
Rigogliosa pianta dalla beltà assoluta e dall’originale forma che la rende peculiare e diffuso ornamento di parchi e giardini, le cui proprietà terapeutiche furono descritte per la prima volta da Ippocrate nel V secolo a.C., il Salice Piangente assume significato di castità in ambito cristiano ed anticamente considerato divinità femminile, relazionato pertanto ai cicli lunari ed alla fecondità.
Leggenda d’amicizia ne racconta il piacevole rapporto che la pianta instaurò con un ruscello, amabilmente conversando sulle avventure che quest’ultimo aveva la fortuna di vivere grazie agli innumerevoli viaggi a lui concessi attraverso la corrente che ne portava l’animo in giro per il mondo.
Ad interrompere la tranquillità e l’interesse delle loro conversazioni l’arrivo di alcuni boscaioli, determinati ad abbattere il salice per impossessarsi della prestanza del suo possente tronco, rischio al quale legno ed acqua s’unirono in uno stratagemma al fine di scampare all’imminente pericolo. Fu così che lo stesso salice incurvò se stesso fino ad entrare in contatto con l’acqua, emanando dall’incurvatura di rami e fronde una tristezza tale da far credere ai boscaioli, nella velocità del mutamento, d’essere malato o maledetto, esortandoli pertanto a desistere dal taglio ed allontanandoli definitivamente.
Ruscello e salice raccontano d’un legame, l’amicizia, nella cui sincerità, lealtà ed amorevolezza avvolgersi, dissetandosi nel profondo e facendo della condivisione di difficoltà un reciproco punto di forza. Le loro conversazioni narrano del valore connaturato ad ogni viaggio, lasciando che la scoperta delle differenze divenga storia sulla quale ricamare i vissuti più significativi.
La loro unione nel pericolo ed il repentino mutarsi del salice, offrono prezioso spunto di riflessione sul rispetto che l’uomo dovrebbe avere nei confronti della natura, da considerarsi vivente sorella della quale non approfittarsi a dismisura, in ossequioso riguardo del Pianeta che, con resiliente pazienza seguita ad ospitarlo nonostante i numerosi soprusi e le ferite ad esso ottusamente ed insulsamente inferte.
Piante e fiori offrono dunque smisurata possibilità d’apprendimento, per chi la voglia leggere, donandosi essi stessi fra chioma e radici, fra petalo e stelo, fra linfa e rugiada, rammentando all’umanità quanto la raggiunta consapevolezza d’essere un semplice fratello di differente specie e non il tiranno delle stesse, sia l’unica strada percorribile per non giungere all’inevitabile perire dell’intero globo. Leggende, fiabe e racconti, son palese dimostrazione di quanto l’uomo abbia necessità ancestrale di Madre Natura e dei suoi figli, fra cui lui stesso, combattuto fra brama di potere ed ascolto della propria naturalezza, spesso scemato in sordità di fronte al richiamo delle ricchezze materiali ed inevitabile discesa verso baratro esistenziale che di solitudine e pentimento sarà il peggior compagno, qualora il grido del Pianeta non si voglia udire in tutta la sua sofferenza.
Le querce e i pini, e i loro fratelli della foresta, hanno visto sorgere e tramontare così tanti soli, e visto andare e venire così tante stagioni, e svanire nel silenzio così tante generazioni, che possiamo ben chiederci cosa sarebbe per noi “la storia degli alberi”, se questi avessero la lingua per narrarcela, oppure se le nostre orecchie fossero abbastanza sensibili da comprenderla.
Maud Van Buren
Alcune immagini inserite negli articoli pubblicati su TerzoPianeta.info, sono tratte dalla rete ed impiegate al solo fine informativo. Nel rispetto della proprietà intellettuale, sempre, prima di valutarle di pubblico dominio, vengono effettuate approfondite ricerche del detentore dei diritti d’autore, con l’obiettivo di ottenere autorizzazione all’utilizzo, pertanto, laddove richiesta non fosse avvenuta, seppur metodicamente tentata, si prega comprensione ed invito a domandare immediata rimozione, od inserimento delle credenziali, mediante il modulo presente nella pagina Contatti.