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Delfini: fermare il massacro e le angherie della cattività

Dalle stragi di Taji in Giappone, alle sofferenze nei delfinari

“Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, recita il vecchio adagio e se è vero che metterlo in pratica può spesso tener lontano il dolore, tante sono le circostanze in cui fa cadere nell’indifferenza lasciando che situazioni inaccettabili perdurino nel tempo.

Accade quando ci voltiamo dall’altra parte per non vedere e sentire la sofferenza di interi popoli ed altrettanto quando chiudiamo gli occhi di fronte alla violenza cui sono sottoposti gli animali, uccisi brutalmente prima di finire nelle grandi industrie alimentari, oppure maltrattati, strappati dal loro habitat naturale semplicemente per dare spettacolo.

Questo è quanto avviene è Taji, città del sud del Giappone dove ogni anno, da settembre a marzo, centinaia di delfini vengono uccisi per il commercio delle carni, mentre gli esemplari migliori sono catturati e gettati in delfinari in cui le loro vite verranno stravolte.

Sono anni ormai che le associazioni animaliste denunciano e tentano in ogni modo di fermare il fenomeno ed i primi a mostrare al mondo intero tale massacro furono quelli di Sea Shepherd, la società fondata nel 1981 dal Paul Watson, che nell’ottobre del 2003 pubblicò fotografie e filmati che ritraevano l’orrore delle acque che affogavano nel sangue dei delfini, riportando alla memoria quanto già avveniva nelle isole danesi Fær Øer, durante il tristemente noto Grindadráp, la tradizionale, quanto inutile caccia in cui a farne le spese insieme ai delfini, ci sono le balene.

Tradizione, questa è la parola con la quale si difendono scempi che continuano a verificarsi in tanti angoli del pianeta, ma dietro ai quali, si nascondono organizzazioni criminali o meri interessi economici, ed un esempio ne è il “Festival della carne di cane e del litchi” e che annualmente si tiene a Yulin, quando la mancanza di allevamenti, testimonia come tale pratica non sia affatto diffusa in tutto il paese, tanto più che i metodi con i quali vengono ammazzati e conservati gli animali, rappresentano un serio pericolo per la salute pubblica.

Per quanto riguarda la carne di delfino la situazione è ancor più complicata, perché se è vero che è venduta in tutto il Giappone e consumata in vari altri paesi del mondo, è anche vero che la presenza di alti livelli di mercurio e di altri inquinanti ambientali come i policlorobifenili o il Dicloro-Difenil-Tricloroetano, meglio conosciuto come DDT, sono una minaccia per l’uomo e per i delfini stessi.

Seppure le circostanze possano esser differenti, va però ricordato quanto avvenne nel 1932 a Minamata, città della prefettura di Kumamoto, quando per 34 anni, le acque reflue dell’industria chimica Chisso Corporation, ricche di metimercurio, andarono a contaminare quelle della vicina baia, facendo sì che le sostanze tossiche si accumulassero negli organismi marini entrando di conseguenza nella catena alimentare.

Migliaia furono i decessi per avvelenamento registrati tra gli abitanti e gli animali del luogo, tanto che insieme a quello avvenuto nel 1965 a Niigata, quello di Minamata è ricordato come uno dei peggiori disastri ambientali del Paese del Sol Levante, che ancora oggi, sebbene vi siano ormai vari studi che dimostrano come la carne di delfino, così come quella di molti cetacei non sia sicura, si ostina ad omettere i livelli di mercurio nelle etichette alimentari, di fatto, esponendo i propri cittadini ad intossicazione e a non renderli consapevoli del rischio cui potrebbero andare incontro.

Il circo dei delfini

La sofferenza dei delfini, dalla baia di Taji alla cattività nei delfinari

Chi di noi da bambino non ha desiderato veder da vicino le piroette, i mille volteggi di delfini che con quello che appare come un sorriso regalato a chiunque, sembrano davvero soltanto giocare?

Non c’è dubbio che i delfini sappiano farsi amare, ma dietro quella che si mostra come un’innocua e divertente attrazione, si celano vere e proprie sofferenze ed angherie, basti pensare che, sebbene in gran parte dei paesi occidentali sia permesso mantenere solo esemplari nati in cattività, possono trascorrere lunghi periodi di digiuno prima che gli animali si abituino a non nutrirsi più di prede vive, ma di soli pesci morti e già questo, si rivela un passaggio chiave per la loro sopravvivenza.

Molti di loro non ce la fanno, motivo per il quale ne vengono catturati anche più del necessario, senza contare che a differenza dei pesci ossei, i mammiferi come i cetacei, pinnipedi e sirenii, non bevono acqua marina espellendone i sali in eccesso attraverso le branchie e le normali funzioni fisiologiche, ma riescono a sfruttare l’acqua direttamente presente nel cibo ed in cattività, questo processo è ostacolato dal fatto che gli alimenti sono congelati e con bassa idratazione.
Per far sì che i delfini riescano ad assumere liquidi, viene dato loro ghiaccio, gelatine e soprattutto tramite l’inserimento di un tubo nella gola cosicché l’acqua raggiunga direttamente lo stomaco; procedura che dev’esser effettuata a distanza di ore dall’ultimo pasto, per motivi che è superfluo descrivere.

Come se non bastasse, l’Associazione Europea per i Mammiferi Acquatici (EEAAM) considera idonea una vasca di 275 metri quadrati per 5 delfini, quando in natura, essendo per indole particolarmente attivi, in un solo giorno possono percorrere decine e decine di chilometri, non è quindi difficile immaginare il grado di stress a cui sono costretti dovendo adattarsi a spazi per loro angusti.

La vasca è a tutti gli effetti una gabbia, una monotona prigione che fa insorgere stati depressivi, condizioni di malessere anche dovute alla limitazione e repressione di istinti naturali e al contempo, trovandosi a convivere con animali appartenenti a famiglie diverse, si creano situazioni di isolamento quando non vere e proprie manifestazioni di aggressività verso “l’estraneo”, reazioni che possono portare i delfini anche ad uccidersi, tanto che per evitare o cercare di limitare tutto quanto, le soluzioni adottate sono sedativi, tranquillanti e ormoni.

Questo è quanto accade, delfini trucidati senza pietà per le carni e catturati per essere rinchiusi nei parchi acquatici; gran parte degli esemplari in cattività sembra provenga proprio dalla baia di Taji. Tutte circostanze che hanno spinto Marevivo, associazione nazionale che dal 1985 difende il mare con il supporto di un comitato scientifico, una divisione subacquea, delegazioni territoriali e volontari, a lanciare una petizione diretta alle autorità giapponesi, per metter fine a questa assurda strage e la speranza, è che prima o poi anche i delfinari non abbiano più ragione d’esistere e lascino il posto ai santuari, dove queste creature sono protette e non ammaestrate.

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