Corbezzolo, la bontà di un frutto “dimenticato”
Flora, fauna, la Natura tutta, è mano e insegnamento del divino all’essere umano.
È racchiusa fra le pagine di De Historia Plantarum — dieci tomi enciclopedici, di cui nove sopravvissuti, presi a riferimento per secoli e tradotti in latino dall’umanista ellenico Theodorus Gaza (ca.1398-1475) — la remota indagine botanica del sapiente filosofo greco antico Teofrasto (371 a.C. – 287 a.C.), colui che classificando più di 455 piante, battezzò «Κόμαρος», l’arbusto comunemente noto, Corbezzolo.
Cardine della moderna nomenclatura fu in seguito Species Plantarum, opera — in prima edizione originale nel 1753 — redatta dal medico e naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus (1707-1778), nei due volumi del saggio scientifico egli descrivendo e catalogando tutti i vegetali noti all’epoca e collocando il summenzionato nel genere Arbutus, questi a sua volta compiendo ingresso nella famiglia denominata, trentasei anni dopo, dal fitologo francese, Antoine-Laurent de Jussieu (1748-1836), Ericaceae.
L’Arbutus comprende una ventina di specie, fra queste l’Arbutus unedo, tipico della macchia mediterranea costiera e dell’Irlanda meridionale, la cui notevole capacità d’adattamento ne ha permesso il diffondersi altresì nell’entroterra, radicando ad altitudini incluse fra zero e ottocento metri, con predilezione per fondi lievemente acidi, silicei e ben drenati, dello splendor di sé ricoprendo vaste distese, in associazione a erica, leccio (Quercus ilex), fillirea (Phyllyrea), lentisco (Pistacia lentiscus) e ginepro (Juniperus). Di specie europea sono parimenti l’Arbutus canariensis — endemico dell’omonimo arcipelago spagnolo — e l’Arbutus andrachne, autoctono di bacino del Mediterraneo, Asia sud-occidentale e Medio Oriente.
In areali sovrapposti, Arbutus unedo e Arbutus andrachne s’incrociano, dando origine all’Arbutus × andrachnoides, ibrido insignito dell’RHS’s Award of Garden Merit.
Il longevo Corbezzolo, qualora allo stato selvatico solitamente non supera i 3 metri d’altezza, se invece coltivato può spontaneamente ergersi sino a triplicare tale elevatezza, purché messo a dimora in zone dal clima mite e semiarido, posato in una buca profonda e dal terreno morbido — per evitar intralci all’apparato radicale — opportunamente concimato, protetto da vento e temperature rigide, esposto in zone abbastanza soleggiate e irrigato in prevalenza durante l’estate, nelle rimanenti stagioni umidità e intemperie sufficientemente abbeverandolo.
Prendersi cura del Corbezzolo non richiede eccessivo impegno, tantomeno se lo si acquista adulto, in aggiunta alle suddette indicazioni avendo premura di prevenire malattie causate da parassiti, con tempestivi e mirati interventi al notar chiazze giallo-brune sul fogliame, necessariamente cercando d’evitare ristagni o scarsa areazione — poiché deleterie situazioni favorevoli ad attacchi nemici da parte di funghi, Afidi o Cocciniglie — e provvedendo a tagliare i rami secchi con regolarità, praticando una leggera potatura primaverile che giovi al fiorire, attuandola soprattutto sulla base qualora si opti per una conformazione ad alberello, rispetto alla cespugliosa.
Soave, l’incantevole Corbezzolo s’erge in fiero fusto dalla scura, robusta e ruvida corteccia, aprendosi in una fitta ramificazione ospitante resistenti e ampie foglie lanceolate, dal margine a dentelli e con lamina superiore verdone — più chiara nella parte inferiore — che si radunano sulla vetta delle fronde, alle stesse ancorandosi tramite un corto picciolo.
I candidi o rosati fiori si raccolgono in penduli grappoli — circa una quindicina — ed evocando aggraziate campanelle il cui piacevole effluvio s’espande nell’aria, attendono periodo compreso tra ottobre e dicembre, per trasmutare in minuscoli frutti detti corbezzole, di verde vestiti e passando dall’oro, tingendosi di rosso rubino a maturazione avvenuta; distintiva bellezza dell’albero mostrandosi nell’accostamento cromatico delle bacche ai vari stadi, sfere arancioni, scarlatte e paglierine affiancandosi con vivace contrasto.
Le corbezzole nascono dai fiori dell’anno precedente, sicché sulla spettacolare chioma — sparse su verdeggianti foglie — armoniosamente sovrapponendosi infiorescenze e fruttificazioni, multicromia per la quale, in compresenza delle gradazioni richiamanti il Tricolore, a partir dal Risorgimento, l’Arbutus unedo venne assunto a metaforica rappresentazione del vessillo italiano.
Il profumato simbolo patrio per antonomasia è pianta nutrice il lepidottero Ninfa del Corbezzolo, «Charaxes jasius», territoriale farfalla — fra le più imponenti in Italia e con ali da Madre Natura dipinte in variopinta livrea — golosa dei suoi frutti e per l’intero ciclo vitale indissolubilmente a lei legata in delicato equilibrio ecosistemico, mentre è il copioso nettare a solleticar ghiottoneria delle api, che lo prelevano poco prima del riposo vegetativo indotto dalle rigide temperature, tuttavia il limitato bottinare non impedendo agli incessantemente operosi e nobili impollinatori di produrre un raro, sostanzioso, aromatico miele — con supposto potere antiallergico, antiasmatico e — fra i più apprezzati al mondo — dalle peculiari note asprigne che ben s’abbinano a formaggi grassi, salumi, carni, piatti a base di pesce, verdure e ortaggi, specialmente cardi e carciofi.
Al di sotto d’un rugoso e commestibile esocarpo, il frutto contiene una dorata e carnosa polpa dal dolce e gradevole sapore — benché leggermente acidulo — e si presta ad esser assaporato fresco, sciolto in dissetanti bevande, candito, caramellato, sotto spirito oppure in preparazioni quali mostarde, macedonie, confetture, sciroppi, salse agrodolci, focacce, vini a contenuta gradazione alcolica, distillati, liquori, nonché impiegato come ingrediente, o guarnizione, di torte, biscotti, gelati, yogurt, mousse e addolcente l’aceto, se immersovi acerbo insieme a un poco d’alloro e per un trentina di giorni, purtroppo a diversificate possibilità d’utilizzo contrapponendosi una limitata reperibilità del prodotto a bottega, dacché il Corbezzolo non essendo idoneo a piantagioni di massa, da ciò conseguendone minor commercializzazione.
A far da toccasana in rigeneranti decotti e tisane, sono anche le radici e le foglie, quest’ultime da cogliere giovani, o perlomeno d’annata, suddividendole in due parti e procedendo ad infusione, in base a preferenza screziando con succo d’arancia, zenzero, cannella o quant’altro si desideri, per sperimentarsi in singolari accostamenti d’essenze, con salubri benefici in caso di spasmi, cistiti, infezioni urinarie, flogosi dell’intestino e stati dissenterici, grazie al contenuto di tannini e arbutina il Corbezzolo fungendo da sorgente di sostanze bioattive dall’attività antibatterica, analgesica, solutiva, antinfiammatoria, antisettica, diuretica, astringente e anti aggregante.
Segnatamente efficace nell’alleviare affezioni uretrali e prostatiti parrebbe essere la tintura madre, da assumere un paio di volte nell’arco della giornata — a distanza dai pasti — sciogliendone in acqua 20/40 gocce.
Molteplici sono le virtù riconosciute al Corbezzolo, portentoso scrigno di benessere custodente innumerevoli proprietà di composti chimici, quali:
• energizzanti vitamine B, C ed E;
• beta carotene, antagonista dei radicali liberi e importante fonte di vitamina A;
• antiossidanti flavonoidi, prevalentemente antocianine;
• fibre alimentari, sazianti e probiotiche;
• pectine, moderatrici dell’assimilazione intestinale di colesterolo e zuccheri alimentari;
• acidi grassi insaturi, riducenti l’ipercolesterolemia;
• sali minerali, principalmente calcio, fosforo, sodio, potassio e magnesio.
A panacee offerte dal Corbezzolo — controindicato se si soffre di stipsi, in fase di gravidanza o allattamento — non s’affiancano seri effetti collaterali, a meno che non se ne abusi, con derivato rischio d’irritazione del tratto gastrointestinale e pertanto — allo scopo di scongiurar imprevisti, reazioni allergiche o interazioni farmacologiche — avvalendosi sempre di parere medico prima d’iniziare qualsivoglia trattamento fitoterapico.
In campo cosmetico il Corbezzolo:
• uniforma e schiarisce l’incarnato: l’arbutina è infatti un glucoside dell’idrochinone, fenolo che inibisce l’enzima tirosinasi, arrestandone l’attività di sintesi della melanina;
• purifica l’epidermide: l’azione costrittiva di creme a base di foglie stimola la chiusura dei pori;
• mantiene giovane più a lungo la pelle di viso e corpo: trattamenti a base di miele garantiscono intensa idratazione, componenti vitaminiche donando al contempo maggior elasticità e prevenendo l’invecchiamento;
• ravviva capelli secchi e sfibrati: applicazioni di olio secco su capelli umidi o asciutti li nutre, ristabilendone spessore e brillantezza.
In più all’esser fidente compagno di beltà, il Corbezzolo ha proficuo impatto ecologico sull’ambiente, possedendo celere capacità di rigenerazione dopo malaugurati incendi, serbando la biodiversità faunistica ed evitando la disgregazione dei suoli; il coriaceo legname si leviga facilmente ed è ben lavorabile con il tornio, oltre che combustibile eccellente per camini o stufe, di sovente usato per cuocere gli arrosti, assorbendone l’aromatico olezzo.
L’erbago, detto arbuto, corbezzolo ed unedone, fa ottimi carboni e di grandissima durata, nasce da per sé nella selve e si chiama unedone, forse perché sia assai mangiare una sola delle sue frutte.
Giovanni Vettorio Soderini (1526-1596), agronomo
Nonostante la moltitudine di doti, il Corbezzolo — un tempo alquanto popolare — risulta frutto pressoché dimenticato da piacevolmente riscoprire, nel corso dei decenni in Italia ribattezzato secondo regione e in alcune maggiormente distribuito, in particolare, Toscana — peraltro terra magnificamente prospera di piante officinali — e la Sardegna, produttrice d’eccellenza del ricercato miele, ambrata prelibatezza dal sentor di rabarbaro, perle di cacao e caffè — ottimo per dolcificar l’espresso, senza alterarlo — che ben si sposa con le seadas, dolcetti sardi, originari di Nuoro, in passato preparati in festosa accoglienza ai pastori di rientro dalla transumanza invernale.
A livello ornamentale, rami recisi e con frutti immaturi, vengono intrecciati in festose corone natalizie da appendere oppure adagiate in eleganti e adornati centrotavola, ma è l’Arbutus andrachne a sontuosamente abbellir viali e giardini con singolare bizzarria perché provvisto d’una corteccia rossastra che in età adulta si squama, mostrando sottostanti e lisce placche giallo-verdi, nelle sfumature e spessore evidenziati dalla graduale torsione del tronco in crescita, flessuoso e scultoreo contorcersi che rende agli occhi un capolavoro artistico, d’aspetto surrealista.
Ennesima attestazione dell’incantevole munificenza del Creato, il Corbezzolo, ai motivati dai plurimi pregi, affianca vanto di possedere nobiltà di valore simbolico ed attribuitagli in più angoli del Pianeta, nell’antichità venendo considerato sacro a Dioniso, divinità greca — per nella mitologia romana, Bacco — rappresentante l’estasi, l’ebbrezza e la sensualità, dio della vite e del vino ricollegato alle purpuree gemme, debolmente ubriacanti se ingerite in dosi sproporzionate, al pari di quanto avveniva in secolare folclore sul promontorio del Monte Conero, ove gli abitanti si riunivano il 28 ottobre, ricorrenza dedicata ai Santi Simone (?-107) e Giuda Taddeo (?-70): in omaggio agli Apostoli martiri i marchigiani si saziavano di corbezzole e — in una sorta di cerimoniale bacchico d’impronta cattolica — si cingevano il capo di ghirlande; celebrazione popolare dei borghi limitrofi prevedeva che gli ingressi delle abitazioni — nella medesima data celebrativa — venissero adombrate con un ramoscello, in segno di manifesta ospitalità e buon auspicio.
Sempreverde emblema d’eternità adoperato in cerimonie funebri, il Corbezzolo venne menzionato fra esametri dattilici dall’illustre Publio Virgilio Marone (70 a.C. – 19 a.C.), nell’Eneide, il vate narrando dell’esanime Pallante — figlio d’Evandro, re degli Arcadi — disteso su giaciglio «d’àrbuto e di tali altri agresti rami», dopo esser stato trafitto a morte da Turno, sovrano dei Rutuli e acerrimo nemico del principe dei Dardani, Enea.
Nelle Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 17/18 d.C), l’Arbutus compare fra mani di uomini che «appagati dei cibi nati spontaneamente, raccoglievano corbezzoli, fragole di monte, corniole, more nascoste tra le spine dei rovi e ghiande cadute dall’albero arioso di Giove» (Libro I, vv. 103-106), per poi venir citato dal ciclope Polifemo, disperatamente innamorato della ninfa nereide Galatea: «Se mi sposerai, non ti mancheranno le castagne né i frutti del corbezzolo: tutti gli alberi saranno al tuo servizio». (Libro XIII, vv. 819-820)
Con centennale balzo fra elegiaci versetti, il poeta, accademico e critico letterario Giovanni Agostino Placido Pascoli (1855-1912) riagganciò la celebre opera epica virgiliana nella stesura di Ode in sentita chiave patriottica, liricamente riversando tra strofe accorata nostalgia per valori risorgimentali andati perduti, al Corbezzolo dedicando stimanti e cerimoniose parole.
Al corbezzolo
(Giovanni Pascoli, Odi e Inni, 1906)
O tu che, quando a un alito del cielo
i pruni e i bronchi aprono il boccio tutti,
tu no, già porti, dalla neve e il gelo
salvi, i tuoi frutti;
e ti dà gioia e ti dà forza al volo
verso la vita ciò che altrui le toglie,
ché metti i fiori quando ogni altro al suolo
getta le foglie;
i bianchi fiori metti quando rosse
hai già le bacche, e ricominci eterno,
quasi per gli altri ma per te non fosse
l’ozio del verno;
o verde albero italico, il tuo maggio
è nella bruma: s’anche tutto muora,
tu il giovanile gonfalon selvaggio
spieghi alla bora:
il gonfalone che dal lido estrusco
inalberavi e per i monti enotri,
sui sacri fonti, onde gemea tra il musco
l’acqua negli otri,
mentre sul poggio i vecchi deiformi
stavano, immersi nel silenzio e torvi
guardando in cielo roteare stormi
neri di corvi.
Pendeva un grave gracidar su capi
d’auguri assòrti, e presso l’acque intenta
era al sussurro musico dell’api
qualche Carmenta;
ché allor chiamavi come ancor richiami,
alle tue rosse fragole ed ai bianchi
tuoi fiori, i corvi, a un tempo, e l’api: sciami,
àlbatro, e branchi.
Gente raminga sorveniva, e guerra
era con loro; si sentian mugliare
corni di truce bufalo da terra,
conche dal mare
concave, piene d’iride e del vento
della fortuna. Al lido navi nere
volgean gli aplustri con d’opaco argento
grandi Chimere;
che avean portato al sacro fiume ignoto
un errabondo popolo nettunio
dalla città vanita su nel vuoto
d’un plenilunio.
Le donne, nuove a quei silvestri luoghi,
ora sciogliean le lunghe chiome e il pianto
spesso intonato intorno ad alti roghi
lungo lo Xanto;
ed i lor maschi voi mietean di spada,
àlbatri verdi, e rami e ceree polle
tesseano a farne un fresco di rugiada
feretro molle,
su cui deporre un eroe morto, un fiore,
tra i fiori; e mille, eletti nelle squadre,
lo radduceano ad un buon re pastore,
vecchio, suo padre.
Ed ecco, ai colli giunsero sul grande
Tevere, e il loro calpestìo vicino
fugò cignali che frangean le ghiande
su l’Aventino;
ed ululò dal Pallantèo la coppia
dei fidi cani, a piè della capanna
regia, coperta il culmine di stoppia
bruna e di canna;
e il regio armento sparso tra i cespugli
d’erbe palustri col suo fulvo toro
subitamente risalia con mugli
lunghi dal Foro;
e là, sul monte cui temean le genti
per lampi e voci e per auguste larve,
alta una nera, ad esplorar gli eventi,
aquila apparve.
Volgean la testa al feretro le vacche,
verde, che al morto su la fronte i fiocchi
ponea dei fiori candidi, e le bacche
rosse su gli occhi.
Il tricolore!…E il vecchio Fauno irsuto
del Palatino lo chiamava a nome,
alto piangendo, il primo eroe caduto
delle tre Rome.
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