Athene noctua, l’universo sfuggente e ammaliante delle civette
Sfuggenti ed amabili rapaci d’indole crepuscolare, le civette, ammalianti l’umano pensiero sin da epoche remote, compaiono tra le creature simbolo di preveggenza, illuminazione, d’ancestrale sapere e dunque in sepolcri, monili, dipinti, nonché protagonisti in fiabe e leggende.
La civetta è simbolo della conoscenza razionale, poiché essendo volatile notturno è legato alla luce riflessa, ossia lunare ed in opposizione alla conoscenza intuitiva, percezione della luce diretta solare.
René Guénon
Athene noctua, Athene cunicularia e Athene brama: queste le specie della comunemente appellata “civetta”, di cui nomenclature binomiali rispettivamente coniate nel 1769, 1782 e 1821 dal medico pavese Giovanni Antonio Scopoli (1723-1788), dal botanico e gesuita cileno Juan Ignacio Molina (1740-1829) e dall’ornitologo e biologo olandese Conrad Jacob Temmick (1778-1858), mentre a classificar il genere Athene che le raggruppa fu — nel 1822 — lo scienziato tedesco Friedrich Boie (1789-1870), termine riagganciando il fatto che nell’Antica Grecia fosse ritenuta sacra e associata ed Atena — Minerva presso i Romani — dea di arti, guerra, mestieri e saggezza, protettrice delle metropoli durante i conflitti bellici.
Un tetradracma ateniese del quinto secolo a.C. raffigura il profilo della divinità, con alloro sull’elmo ad allegorizzare vittoria sui persiani e rametto d’ulivo, simbolica frasca impressa anche accanto alla civetta, rappresentata sulla parte opposta, insieme a uno spicchio di Luna e all’etimo AOE, storica abbreviazione della capitale ellenica.
Appartenenti alla famiglia Strigidae, dell’ordine Stringiformes, delle tre è l’Athene cunicularia — con areale in gran parte del continente americano — a primeggiar in dimensioni e ad aver inconsapevolmente guadagnato epiteto di civetta delle tane, derivato dall’abitudine di nidificare, appunto, in cunicoli, spesso approfittando di quelli scavati da altri animali, inoltre tratto distintivo essendone una spiccata tendenza all’attività diurna.
L’Athene noctua, o civetta comune, popola l’emisfero boreale e in Italia è diffusa dappertutto — a eccezion delle Alpi — preferendo climi secchi e zone limitrofe agli abitati o al massimo collinari, poiché abbondanti coltri di neve delle vette le rendono maggiormente difficoltoso procurarsi cibarie, tuttavia ciò non impedendo ad alcuni esemplari di vivere fra i 2500 e i 4500 metri.
Sebben ogni feritoia muraria le sia congeniale a livello riproduttivo, in Sicilia, Puglia, Basilicata e Sardegna, l’Athene noctua nidifica prevalentemente al suolo, fra mucchi di sassi: nell’isola nuragica — dove in forma dialettale viene chiamata cucumeu, cucumiao o cucumèa — ha instaurato un armonioso legame ecosistemico con la pastorizia, nel nutrirsi su terreni adibiti al pascolo e nonostante un’indole solitaria o di coppia, può eccezionalmente capitare di vederla appollaiata in piccoli gruppi sulle pietre dei muri a secco, anticamente eretti come confine dai proprietari terrieri, essa privilegiando muoversi durante la notte o, tuttalpiù, di primissima mattina e nel tardo pomeriggio.
La più ridotta in dimensione del trio è l’Athene brama, sparsa in Asia meridionale — tra Iran e Vietnam — nel sud-est asiatico — tranne Malesia e Thailandia peninsulare — infine nel subcontinente indiano — meno che in Sri Lanka — e proprio in virtù di quest’ultimo habitat, nominativo è omaggio a Brahma, il dio supremo della creazione, venerato nella mitologia indù; l’anche detta civetta maculata, predilige spianate al confine di foreste, terreni agricoli oppure abitati cittadini, con attività crepuscolare e notturna, benché saltuariamente faccia capolino di giorno e nelle ore rimanenti si rifugi tra frasche o cavità arboree, mimetizzandosi alla perfezione.
Con ovvie divergenze comportamentali, di conformazione e alimentari relative a specie e sottospecie, le massicce e tozze civette hanno una lunghezza da 19 a 26 centimetri e l’apertura alare è generalmente compresa fra i 50 e i 59, con un peso oscillante tra 100 e 250 grammi o poco più e osservandola, la voluminosa e tondeggiante testa — poiché a ridosso del corpo — appare nettamente incastonata; il piumaggio è prevalentemente di tonalità grigio-marrone e screziato di bianco, a brillare d’un ocra intenso sono invece le iridi, contornanti pupille dall’espressione furba e attenta, sullo sfondo d’un muso appiattito da cui sbuca un ricurvo e uncinato rostro giallognolo — talvolta tendente all’olivastro; alla vista difficilmente si discernono i maschi dalle femmine, perché pur essendo costoro leggermente più grandi, non v’è manifesto dimorfismo sessuale, all’opposto essendo più facilmente distinguibili i giovani dagli anziani, progressivamente accentuandosi il contrasto cromatico delle piume.
Le tecniche di caccia si modificano in base alla tipologia della preda, i vispi uccelli inseguendola sia a terra — tra saltelli e corse — che in aria, artigliandola o ghermendola con il becco e riuscendo addirittura a trasportare animali che n’eguagliano il peso, lo scattante rapace catturando piccoli invertebrati o volatili, molluschi, crostacei, coleotteri, anfibi, falene, insetti, rospi, pesci, lucertole, lombrichi, pipistrelli, lombrichi, roditori, rettili e scorpioni, divorandoli interi e poi rimettendo in boli quanto non assimilabile.
L’andatura di volo è bassa, ondulata e spesso radente terra, le brevi e arrotondate ali sbattendo in alternanza a planate e scivolate.
Prettamente sedentarie, le civette stanno in beata siesta su qualsiasi appoggio sia loro gradevole come posatoio — antropizzato o meno che sia, quindi alberi, pali, tetti, finestre, fienili, case abbandonate, recinzioni e tanto altro — ad improvviso e inaspettato disturbo ergendosi impettite, muovendo il capo e fissando l’estraneo sopraggiunto; per comunicare fra loro, sono dotate d’un vasto repertorio vocale che può arrivare fino a una quarantina di richiami differenti, in caso di pericolo emettendo versi acuti per lanciare allarme — o perspicacemente silenziandosi qualora venga avvertita la presenza di predatori negli immediati paraggi — viceversa nella quotidianità esprimendosi con suoni languidi, scanditi e intervallati a pochi secondi uno dall’altro, le cui caratteristiche modulate sull’intenzionale contenuto informativo.
Richiamo civetta Athene noctua:
Cardini percettivi ne sono l’acuto udito e la vista: al posto di padiglioni esterni, sono ampi incavi auricolari a recepire i suoni in lieve differita, per modo da ricavarne indicazioni sugli spostamenti dei soggetti al buio e localizzarli; a limitatezza della visione binoculare soccorre una rotazione del capo fino a 270 gradi, in più grandezza d’occhi, cristallino e cornea, facilitano la proiezione d’immagini luminose sulla retina, sebbene il distinguere pochissimi colori riduca il nitido riconoscimento di dettagli, inconveniente a cui però sovviene la connaturata facoltà d’identificare le nuances del grigio, consentendo al volatile di ben destreggiarsi nell’oscurità.
In vista dell’accoppiamento, il maschio mette in atto — seppur senza dimostrarsi bellicoso con i propri simili — una decisa difesa del proprio territorio, mediante sorveglianti perlustrazioni e deterrenti grida, che fungono tanto da avvisaglia per eventuali pretendenti quanto da corteggiante richiamo della femmina, la quale seduce il partner muovendo testa e coda: una volta sceltisi, gli innamorati si dirigono su un albero e fondamentale parrebbe essere l’offrire alla nuova compagna del cibo, in una sorta di rituale propiziatorio a testimonianza di garante sostentamento per lei e gli eventuali pulli che verranno.
Maturata la meravigliosa intesa, le civette s’accingono a cercare il luogo ideale dove premurosamente imbastir il nido di piume e fogliame che andrà ad ospitare la prole, passionale unione fra i consorti accompagnandosi all’acchiapparsi con il becco e ad allopreening, ossia l’etologica attitudine del vicendevolmente ripulirsi dai parassiti, atteggiamento peraltro scientificamente considerato riprova di cooperazione familiare e intenso legame fra genitori.
La deposizione delle candide e lucide uova — da una a sette, mediamente tre e a distanza d’una giornata l’una dall’altra — avviene, di norma, fra marzo e agosto, il periodo preciso dipendendo da fattori quale il paese, le condizioni climatiche e la casualità di covate perse, in malaugurata circostanza, la successiva risultando numericamente inferiore: l’incubazione dura ordinariamente una trentina di giorni, durante cui la gravida viene costantemente rimpinzata dal futuro padre almeno per le prime due o tre settimane, dopo le quali anche la madre s’assenta, allo scopo di procurarsi sostentamento aggiuntivo.
Appena nati, i piccoli — detti pulli — hanno pelle rosata e l’originaria lanugine è corta, morbida e lattea, così come molto chiari sono becco ed artigli, gradazioni che complessivamente andranno a scurirsi nel tempo; gli occhi s’aprono alla prima decade, svelando fin da subito una splendente tinta dorata e preparando i cuccioli all’osservazione del mondo circostante che conosceranno all’involo, sperimentato a partire da una quarantina circa di giorni d’età, per poi — dopo aver affinato abilità — lasciare il covo natio, inizialmente stabilendosi a brevi distanze che permettano loro d’esser ancora alimentati, fino a definitiva conquista d’indipendenza, momento dal quale la relazione fra i genitori è frequentemente destinata a raffreddarsi fin a nuovo concepimento, salvo che persista il desiderio di restarsi vicini e fedeli, reciprocamente accudendosi mediante preening, pratica in uso anche fra i giovanissimi componenti della nidiata.
La tendenza alla monogamia delle civette, non impedisce che talvolta s’accoppino al di fuori del primario legame amoroso, verificandosi situazioni in cui più maschi s’uniscono alla medesima femmina o che si compia pseudocopulazione.
Annoverata nel genere Ninox — catalogato nel 1837 dall’etnologo e naturalista inglese Brian Houghton Hodgson (1800-1894) — merita celere accenno la specie Ninox novaeseelandiae, descritta nel 1788 dall’entomologo tedesco Johann Friedrick Gmelin (1748-1804) e designata come civetta boobook o gufastore della Nuova Zelanda, che ne è patria d’origine.
Il variegato e agilissimo pennuto ha una corporatura ricoperta da una livrea in cui i classici nero, grigio, marrone e bianco, si miscelano armoniosamente a bronzee sfumature, ma a suscitar sorriso è il buffo e grazioso musetto, palesante simpatia ch’è quasi impossibile non cogliere e nel 1999 immortalata sulla neozelandese moneta commemorativa da cinque dollari, in rovescio alla Regina Elisabetta II (1926-2022).
Malgrado le innocenti civette — trasversalmente ai generi — nulla compiano per farsi detestare, in alcuni paesi, nel corso dei secoli, arcaici retaggi affibbiarono loro, purtroppo, etichetta di portatrici di iella, tradizioni popolari marchiandone indegnamente la fama: nell’antico Egitto il verso veniva considerato un nefasto preannuncio di morte e nel Medioevo l’assimilarle alla stregoneria era radicata usanza; il girovagar indisturbate nelle cupe nottate, solcandone tenebrosa atmosfera con acidulo canto, contribuì verosimilmente ad avallare false superstizioni e immotivate paure, a tutt’oggi fortunatamente sbiadite e capovoltesi a emblema di buon auspicio.
Devi sapere che le civette, dopo aver pagato i loro antichi debiti, rinascono come persone ostinate nel regno degli esseri umani.
Śūraṃgama sūtra
Parimenti, eleganza, sfuggevolezza, temperamento eremitico e innata libertà, sedussero e affascinarono l’interesse scientifico, umano e artistico: ad evocar e rappresentar civette, Sadegh Hedayat (1903-1951), Hieronymus Bosch (1453-1516), Albrecht Dürer (1471-1528) e fervido, nonché affezionato estimatore, ne fu l’influente e camaleontico Pablo Ruitz y Picasso (1881-1973), forgiante gli adorati rapaci in sculture e tele — tra cui La gabbia della Civetta; Civetta su una sedia e ricci di mare; Civetta all’interno — e nel 1946 adottandone esemplare poiché ferito ad una zampa, quindi con sé costantemente tenendolo ed accudendolo finché ristabilitosi; egli peraltro, osservando affinità tra il proprio e lo sguardo del rapace.
A civetta, elegiaci versi le vennero ispiratamente dedicati dall’insigne Giovanni Pascoli (1855-1912), fra strofe il poeta sammaurese — in otto quartine di tre endecasillabi e un quinario — meditando fra righe sul mistero della vita, utilizzando la figura della civetta a personificazione di fine esistenza.
Civetta
Stavano neri al lume della luna
gli erti cipressi, guglie di basalto,
quando tra l’ombre svolò rapida una
ombra dall’alto:
orma sognata d’un volar di piume,
orma di un soffio molle di velluto,
che passò l’ombre e scivolò nel lume
pallido e muto;
ed i cipressi sul deserto lido
stavano come un nero colonnato,
rigidi, ognuno con tra i rami un nido
addormentato.
E sopra tanta vita addormentata
dentro i cipressi, in mezzo alla brughiera
sonare, ecco, una stridula risata
di fattucchiera:
una minaccia stridula seguita,
forse, da brevi pigolii sommessi,
dal palpitar di tutta quella vita
dentro i cipressi.
Morte, che passi per il ciel profondo,
passi con ali molli come fiato,
con gli occhi aperti sopra il triste mondo
addormentato;
Morte, lo squillo acuto del tuo riso
unico muove l’ombra che ci occulta
silenzïosa, e, desta all’improvviso
squillo, sussulta;
e quando taci, e par che tutto dorma
nel cipresseto, trema ancora il nido
d’ogni vivente: ancor, nell’aria, l’orma
c’è del tuo grido.
Addentrandosi in fantasiosi mondi, le civette comparvero in plurime fiabe, dalla penna del rivoluzionario scrittore romano Gaio Giulio Fedro (20/15 A.C. – 50 D.C.) scaturendo ad esempio Cicala e noctua, racconto la cui morale inneggia alle cortesi maniere, in assenza delle quali «Colui che non brilla di gentilezza, per lo più, va incontro alla pena della sua arroganza».
Sovente avvien, che lo scortese il fio,
Che sua alterezza meritogli incontri.
Con dispettoso canto a una Civetta,
Che sol di notte va di cibo in cerca,
E in qualche cavo tronco dorme il giorno,
Toglieva il sonno un’incivil Cicala.
Se pregata è a tacer, ella più stride;
Dan nuove preci nuova lena al canto;
Sicchè non v’esser scampo, e sue parole
Dispregiarsi, veggendo la Civetta,
A la frode rivolta sì le parla.
Giacchè il tuo dolce armonioso canto,
Tal che di Febo udirmi sembra il plettro,
Dormir mi vieta, il nettare vo’ bere,
Che testè diemmi Palla. Se t’è a grado,
Vieni che il beveremo. La Cicala,
Ch’ardea di sete, appena udìo le lodi
Di sue voci, che ratta a lei sen vola.
Tosto fuor de la tana l’altra escita,
La trepida Cicala insiegue, e uccide,
Che morta quello diè, che negò viva.
(Favole, Libro terzo, XVI)
La civetta divenne protagonista di narrativa a varia firma o d’ilari e planetarie filastrocche: in Italia a memoria popolare, la giocosa Ambarabà ciccì coccò, nelle molteplici varianti recitata da generazioni di fanciulli di sovente in funzione di contai e la cui genesi s’ipotizza — su analisi del saggista, glottologo e linguista Vermondo Brugnatelli — risalente ad epoca latina nella forma «hanc para ab hac quidquid quodquod»; a tale canto per sorteggio, il filosofo, semiologo, bibliofilo, traduttore, medievista e autore Umberto Eco (1932-2016), tratteggiò in un saggio di semiotica, incluso ne Il secondo diario minimo, umoristica raccolta di scritti brevi, edita nel 1992 e preceduta, nel 1963, dal Diario minimo.
Indubbiamente ironico è anche il vocabolo civettare, riservato a chi ambisca ad attirare attenzione con ammiccamenti e ammalianti smancerie: la locuzione sorse su movimenti affini del rapace — nella predazione finalizzati a ingannare ed attirare le ignare vittime — finendo coll’esser appunto evocata da personalità illustri quali Giovanni Boccaccio (1313-1375), Giovanni Carmelo Verga (1840-1922), Aron Hector Schmitz (1861-1928) e Aldo Pietro Vincenzo Giurlani (1885-1974), ossia Italo Svevo e Aldo Palazzeschi, oppure ancora Guido Gustavo Gozzano (1883-1916), Aldo Pietro Vincenzo Giurlani (1885-1974) e Corrado Alvaro (1895-1956).
Temuta o ammirata, ripudiata od osannata, la civetta — specie sinantropica e protetta — ha proseguito imperterrita il proprio cammino a cavalo d’epoche e in barba a fuorvianti credenze, mai perdendo totale fiducia nei confronti dell’uomo, da cui — per chi desiderasse saggiarsi nello splendore dell’empatica esperienza — si lascia tranquillamente allevare, se nata in cattività, donando preziose lezioni di convivenza, nel rispetto d’ogni essere vivente e della biodiversità.
Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. Questo, che il concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima l’ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, còlto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo.
George Wilhelm Friedriuch Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto
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