Cambiamento climatico: come limitare le conseguenze
Global Warming, ultimatum alla Terra: temperatura sotto 1,5°C
Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), costituito dall’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) ed il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), finalizzato allo studio delle scienze fisiche alla base dei mutamenti del clima ed alla comprensione e mitigazione degli stessi, ha avvisato che le emissioni di gas serra dovranno essere drasticamente ridotte e il riscaldamento globale limitato ad 1,5°C oltre i livelli preindustriali, prospettiva che senza un adeguato e comune impegno, secondo gli scienziati verrà superata entro 20 anni.
Un difficile traguardo ampiamente annunciato lo scorso 8 ottobre attraverso le pagine del Global Warming, un rapporto tecnico frutto delle informazioni scientifiche raccolte e valutate da quando nel 2016, in occasione della Giornata Mondiale della Terra, venne siglato l’Accordo di Parigi, con il quale i 195 Paesi firmatari s’impegnavano a mantenere la condizione termica al di sotto dei 2°C. Come è noto però, il margine preventivo indicato allora, non è più da considerarsi tale adesso e benché gli scienziati mostrino fiducia, il piano per il nuovo orizzonte deve essere messo in atto entro breve tempo, altrimenti, nel prossimo futuro si prospettano una concatenazione di catastrofi le cui ripercussioni sarebbero irreversibili.
Tutti concordano che il momento è cruciale, perciò governi, organismi internazionali, industrie, la società tutta è chiamata a convincersi e lavorare per salvare il Pianeta che già da tempo, sta manifestando il suo malessere attraverso un sempre maggior numero di fenomeni atmosferici estremi e per quanto mezzo grado possa apparire come un’inezia, benché non possa impedire il degradamento dell’ambiente, eviterebbe almeno l’aumento di inondazioni, incendi e carestie che metteranno in ginocchio intere popolazioni, e non solo.
Le conseguenze del cambiamento climatico
Al capitolo 3 del monumentale dossier, viene infatti illustrato come le ondate di calore trattenute entro l’1,5°C andrebbero a colpire il 13,8% della popolazione mondiale, mentre al di sopra saranno più intense e frequenti raggiungendone il 36%, ovvero 1,7 miliardi di individui. Inoltre, il numero di coloro che non potrà avere accesso all’acqua potabile toccherebbe l’8% contro il 4% e 60 milioni di persone in più, sarebbe esposta a siccità e conseguentemente a gravi carenze alimentari e sanitarie.
Il testo prevede l’Artico sarà privo di ghiaccio una volta ogni secolo, fenomeno che alla soglia dei 2°C si presenterà invece una volta ogni decade provocando l’innalzamento delle maree di 10 cm entro il 2100. Saranno così inabitabili molte isole e zone costiere, con 10 milioni di persone in più che saranno costrette ad abbandonare le proprie abitazioni, un rischio dovuto anche all’esondazione dei fiumi che in tutto il modo aumenterebbe del 170%.
Uno scenario apocalittico al quale si aggiungono gli effetti messi in evidenza in termini di sopravvivenza della flora e della fauna. Gli oceani, già sofferenti per l’elevata acidità e bassi livelli di ossigeno, perderebbero 3 milioni di tonnellate di pescato ed il confronto tra le due soglie riflette l’impatto oltremodo devastante sulle barriere coralline. Amaramente destinate ad una inevitabile diminuzione compresa fra il 70 e 90%, verrebbero totalmente distrutte, quando esse rappresentano l’habitat di un quarto delle specie marine conosciute. Come accennato, mantenere il livello a 1,5°C significa garantire anche la conservazione della maggior parte dei ghiacciai durante i periodi estivi, laddove superando la soglia il pericolo di negare l’ambiente naturale ad animali come foche, orsi e pinguini va a decuplicarsi.
Lo perderebbero circa l’8% dei vertebrati, il 16% delle piante e il 12% degli insetti. Il 18 maggio 2018, è stato presentato su Science lo studio ‘The projected effect on insects, vertebrates and plants of limiting global warming to 1.5°C rather than 2°C’, una ricerca colossale volta a comprendere il differente impatto di quel mezzo grado e quanto piante, animali e insetti possano essere a rischio estinzione. Sono stati osservati qualcosa come 71.000 specie vegetali, 8000 volatili, 1.800 rettili, 1.700 mammiferi, 1.000 anfibi 31.000 insetti ed in particolare questi ultimi sarebbero maggiormente a rischio: «Con il riscaldamento a 2°C – ha dichiarato Rachel Warren, ricercatrice presso la University of East Anglia e protagonista dell’indagine – il 18% sono destinati a perdere più della metà del loro areale di diffusione.»
Un vero e proprio disastro che invece potrebbe essere arginato entro un massimo del 6%, differenza d’importanza vitale. Gli insetti svolgono un ruolo essenziale negli ecosistemi, essi contribuiscono al corretto bilanciamento dei nutrienti del terreno e per mezzo dell’impollinazione, forniscono cibo agli altri organismi. Basti pensare che un terzo dell’alimentazione umana deriva dal prezioso lavoro svolto dalle sole api, un’opera dal valore economico stimato superiore a 260 miliardi di euro l’anno. E’ dimostrato come gli insetti siano in diminuzione a causa di molti fattori, tra cui le sostanze chimiche ampiamente utilizzate in agricoltura e la situazione, non solo per loro, andrebbe ad aggravarsi in maniera sensibile, mentre limitando il riscaldamento globale a 1,5°C, gran parte delle specie potrebbe essere salvata.
Energie rinnovabili ed emissioni negative
La drammatica realtà è che i Paesi sono distanti dall’evitare il disastro e potrebbe essere già troppo tardi. A dirlo è il ‘Committed warming inferred from observations’ pubblicato il 31 luglio 2017 su Nature Climate Change. Condotto da Thorsten Mauritsen e Robert Pincus, lo studio, basato sulla storicità del sistema climatico, svela che anche se tutte le emissioni di combustibili fossili cessassero improvvisamente, la Terra continuerebbe a riscaldarsi in virtù di quanto fatto fino oggi, avvicinandosi entro la fine del secolo al prudenziale limite.
«Limitare il riscaldamento a 1,5°C è possibile secondo le leggi della chimica e della fisica, ma farlo richiede cambiamenti senza precedenti», ha affermato il professor Jim Skea dell’Imperial College di Londra che ha contribuito alla relazione dell’IPCC. Saranno quindi necessari profondi e complessi mutamenti che toccheranno la società in ogni suo aspetto: le emissioni di diossido di carbonio (CO2) devono essere drasticamente ridotte al 45% rispetto ai livelli del 2010 e questo dovrà avvenire entro il 2030, per raggiungere lo zero nei successivi 20 anni.
«Se non saranno ridotte le emissioni di CO2 – spiegava già nel 2017 il segretario generale del WMO, Petteri Taalas – andremo incontro a un rapido aumento della temperatura entro la fine del secolo e ben oltre la soglia stabilita dagli accordi di Parigi sul clima.»
Questo significa compiere una massiccia traslazione passando dai combustibili fossili alle fonti di energia rinnovabile ed allo stesso tempo investire in tecnologie che aspirino ogni residuo di CO2 dall’atmosfera, che, secondo analisi effettuate ad aprile 2017 hanno segnato il record di 410 ppm (parti per milione), un livello simile raggiunto fra i 3 e i 5 milioni di anni fa, quando la temperatura era compresa tra i 2 e i 3°C al di sopra di quella odierna e i livelli del mare da 10 a 20 volte superiori di quelli attuali.
Gran parte della nuova tecnologia per catturare il carbonio però non è stata collaudata, per cui le opinioni divergono circa le priorità, ossia, ridurre le emissioni o trovare modi per catturarle. Il fatto è non pochi riflettono sul fatto che la questione non sia quale delle due adottare, quanto piuttosto che entrambe debbano essere mese in campo in maniera sinergica, perché altrimenti potrebbe non bastare a contrastare le emissioni, che nel frattempo in Italia registrano una crescita del 3,2% e in Europa del 1,8%.
Tra i tanti studi che cercano di immaginare il modo migliore per far respirare la Terra, quello pubblicato dal Potsdam Institute for Climate Impact Research, sostiene esplicitamente la necessità di rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera per limitare il surriscaldamento, perché anche ammettendo sia fattibile giungere a utilizzare esclusivamente energia pulita, rimarrebbe comunque un disavanzo tale che non garantirebbe il risultato sperato.
Tra l’altro, senza un significativo investimento pubblico questa soluzione, affrontata da aziende come la Carbon Engineering di Vancouver o la svizzera Climeworks, (la quale sostiene di riuscire a prelevare dalle 900 alle 1000 tonnellate di carbonio ogni anno), non potrà avere sviluppo.
La società canadese – beneficiante anche del sostegno di Bill Gates – cattura il carbonio e lo trasforma in quello che l’amministratore delegato Steve Oldham descrive come un combustibile «quasi naturale», ma lo stesso, ammette che alla base c’è bisogno di un’azione politica:
«I vantaggi di affrontare il cambiamento climatico sono un problema di tutti e quindi di nessuno. Oggi non c’è una ragione economica per catturare la CO2. È necessario creare un prodotto e venderlo. Quel prodotto per noi è combustibile liquido e stiamo facendo progressi in questo senso. Ma per fare emissioni negative, per sequestrare e immagazzinare CO2 richiede una politica. C’è la necessità che i governi fissino il valore di stoccaggio di CO2 è di ‘X’ dollari per tonnellata. Attualmente questo non esiste su vasta scala.»
Ad oggi dunque, queste società stanno di fatto compiendo una scommessa, mentre servirebbe una sorta di tassa sul carbonio introdotta a livello internazionale, sistema a lungo commentato dagli esperti di clima e che potrebbe contribuire a rendere più verosimile la tecnologia per “riciclare” il carbonio.
Detlef Van Vuuren, ricercatore senior presso l’Environmental Assessment Agency dei Paesi Bassi e principale autore di uno studio pubblicato ad inizio anno su Nature Climate Change, asserisce infatti che la strategia da adottare per far sì che il riscaldamento del Pianeta rimanga entro il limite, deve passare attraverso grandi investimenti in energie rinnovabili, combinati al cambiamento dello stile di vita.
La società al centro di un’azione globale
Si tratta di una vera e propria rivoluzione di non facile realizzazione, per molti potrebbe trattarsi di modificare radicalmente il proprio stile di vita, il che non significa peggiorarlo, non c’è alcuna ragione per credere che tentare di mantenere il riscaldamento al di sotto del 1,5°C non renda più complicata l’esistenza.
E’ comune l’invito ad agire e svolgere il proprio ruolo partendo dalle azioni più semplici come usare i mezzi pubblici, quando possibile spostarsi a piedi, in bicicletta, prendendo in considerazione veicoli elettrici. Altro aspetto molto importante è quello che riguarda una corretta coibentazione delle abitazioni, diminuendo così il consumo di energia traendo vantaggi anche da un punto di vista economico. Lo stesso vale per coloro che ne hanno l’opportunità, di ricorrere ai pannelli solari e chiaramente, è fondamentale porre attenzione al riciclaggio, ma anche ad un minore e diverso consumo, riguardante perfino i vestiti e l’alimentazione.
L’industria dell’abbigliamento infatti, produce emissioni di anidride carbonica stimate in un miliardo e 200 milioni di tonnellate all’anno, senza contare le quantità di acqua e di energia impiegate per la depurazione della acque reflue, industriali e domestiche.
La maggior parte degli indumenti inoltre, sono realizzati con materiale sintetico, soprattutto il poliestere, un composto della plastica che dopo il suo smaltimento non si degrada e ad ogni lavaggio, i capi rilasciano enormi quantità di queste microscopiche particelle che alla fine arrivano al mare provocando ingenti danni a flora e fauna.
Esistono molte industrie che da tempo stanno portando avanti sistemi di produzione con alla base elementi naturali come lo zucchero, le proteine del latte, oppure gli scarti degli agrumi. Iniziative ammirabili ma che purtroppo sono ancora ben lontane dall’essere come una reale concorrenza alla portata di tutti.
Per cui allo stato attuale, non esiste una vera e propria alternativa, se non quella di ridurre i consumi e nel frattempo guardare al cotone e alle altre fibre naturali a base di cellulosa vegetale come la canapa, tenendo presente che non sono da considerarsi una scelta completamente ecologica, dato che se da un lato si degradano, dall’altro c’è da considerare l’uso di fertilizzanti e pesticidi per le coltivazioni.
Per quanto concerne l’alimentazione, secondo un rapporto di inizio anno e pubblicato ancora su Science, viene mostrato che ridurre la carne, in particolare di manzo, e latticini può diminuire l’impatto ambientale sul Pianeta: «Una dieta vegana – ha detto Joseph Poore, dell’Università di Oxford, Regno Unito, che ha guidato la ricerca – è probabilmente l’unico modo per ridurre l’incidenza sulla Terra, non solo per quanto riguarda i gas serra, ma anche l’acidificazione globale, l’eutrofizzazione, l’uso del suolo e l’uso dell’acqua».
Sotto questo aspetto però, i pareri della scienza al di là dell’etica sono discordanti. Recentemente i ricercatori di 6 università statunitensi, hanno condotto un’indagine secondo cui nella realtà, il veganesimo non è sostenibile per l’ambiente come potrebbe sembrare. Questo non significa che rivedere la propria dieta non gioverebbe e come soluzione migliore sembra sia ricaduta su di un regime vegetariano ed in particolare in forma di latto-vegetarismo, la quale risulterebbe essere corretta da un punto di vista nutrizionale e maggiormente efficace per proteggere il Pianeta.
Le nodali responsabilità della politica
Gli esperti, comunque, uniti nel dire che esiste la possibilità di creare un sistema globale sostenibile, più pulito ed equo, sono altrettanto compatti nell’affermare che la vera sfida è rivolta alla politica. Servono incentivi e investimenti. Tramite il suo rapporto l’IPCC si è espressa presentando ai governi «scelte piuttosto difficili» ed ancora Jim Skea ha dichiarato che «a mettere la spunta finale nella casella è la volontà politica».
Il suggerimento rivolto ai cittadini quindi è quello di perorare i partiti che realmente valorizzano l’ambiente ponendolo al centro delle loro linee economiche e industriali.
Sia individualmente, sia in azioni collettive, è ormai chiaro che l’intera società deve rendersi protagonista affinché prendano forma le modifiche necessarie. Bill McKibben, giornalista e attivista fondatore di 350.org, sostiene che la cosa più importante che le persone possono fare, è formare movimenti o unirsi a gruppi esistenti esercitando pressioni perché vengano avviati programmi in favore delle energie rinnovabili e al contempo disincentivando l’utilizzo di combustibili fossili.
Per evitare la catastrofe c’è poco tempo, gli scienziati avvisano che i cambiamenti devono essere apportati rapidamente e in maniera complessiva, perché non esiste una strada unica da percorrere che da sola possa risolvere i tanti problemi, tutto deve avvenire in armonia e i Paesi devono convergere verso l’unico obiettivo, ma l’impressione è che il concetto non sia affatto chiaro ai capi di Stato e questo forse, è il motivo di maggior preoccupazione.
Accuse ben precise sono arrivate a giugno scorso da parte dello scienziato James Hansen, alla NASA fino al 2013, il quale in una intervista rilasciata al Guardian, ha biasimato tutti i governi, nessuno escluso, per non aver mai fatto niente da quando nel lontano 1988, egli stesso per la prima volta affibbiava ufficialmente la piena responsabilità del cambiamento climatico all’attività umana.
«Tutto quello che abbiamo fatto è ammettere il problema – ha sottolineato amaramente – Siamo stati d’accordo nel dichiararlo nel 1992 (a Rio) e lo abbiamo ribadito a Parigi nel 2015. Non abbiamo accettato di fare ciò che è necessario per risolverlo. Promesse come quelle fatte a Parigi non hanno significato, sono una mera illusione. Uno raggiro che i governi ci hanno propinato fin dagli anni ’90.»
Secondo Hansen nessuno ha mai fatto abbastanza, nemmeno Angela Merkel e tantomeno Barack Obama, e mentre il cancelliere tedesco farebbe «finta di risolvere il problema», l’ex presidente americano non solo avrebbe «fallito miseramente» con politiche «tardive e inefficaci», ma starebbe anche rinunciando a contrastare l’azione di un Donald Trump, che anziché muoversi in favore dell’ambiente starebbe favorendo qualunque fonte energetica proveniente da combustibili fossili.«La soluzione non è complicata – ha continuato Hansen in accordo con Oldham – non è scienza missilistica. Le emissioni non scenderanno se il costo dei combustibili fossili non è onesto. Gli economisti sono molto chiari su questo. Abbiamo bisogno di una tassa in costante aumento che venga poi distribuita al pubblico.»
Non è confortante constatare l’inerzia e l’indifferenza della politica mondiale e dunque è saliente l’impegno d’ognuno, dato che alle parole dello scienziato fanno eco quelle di Stephen Cornelius, consulente del WWF sul cambiamento climatico, a dimostrazione che l’1,5°C non è un traguardo irraggiungibile: «Abbiamo le soluzioni e la differenza tra impossibile e possibile è la leadership politica». Una esortazione che trova completamento nella dichiarazione della dott.ssa Debra Roberts, anch’ella autrice della relazione Global Warming e certa che gli anni a venire, probabilmente «saranno i più importanti della nostra storia».
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