Salute del Pianeta: Bere acqua e non plastica
Il pianeta galleggia nella plastica, un problema ormai noto contro il quale si fa ancora troppo poco, gli oceani si stanno lentamente trasformando in vere e proprie discariche, ed è sempre più evidente che il riciclo, non può essere l’unica strada da percorrere, tanto più che i dati a riguardo non sono troppo incoraggianti.
La strategia contro l’inquinamento varata dalla Commissione Europea, prevede il riciclo totale degli imballaggi in plastica entro il 2030, ma secondo PlasticEurope, benché significativi passi in avanti siano stati fatti, il traguardo è ancora lontano. Nel 2016 infatti solo il 31% delle 27 tonnellate di rifiuti plastici sono stati riciclati ed al centro della questione c’è anche la necessità di maggior consapevolezza da parte dei cittadini, risulta infatti che in Europa solo il 34% della popolazione evita di acquistare prodotti monouso, percentuale che in Italia si abbassa fino al 27%, mentre per quanto riguarda il riciclo, solo 57% degli italiani sembra praticarlo.
La plastica nei mari
Le materie plastiche non sostenibili e monouso rappresentano fino al 40% della produzione globale e per gran parte di queste, servono tempi lunghissimi per avere una corretta degradazione, il polipropilene, ad esempio, utilizzato per realizzare i tappi delle bottiglie, possono volerci millenni.
Nel momento in cui queste plastiche entrano in contatto con l’ambiente marino, con l’aiuto dei raggi solari, vanno decomponendosi dando vita alle cosiddette microplastiche, frammenti anche inferiori a 2mm e che rappresentano l’inquinamento più subdolo, in quanto dalla fauna ittica, pesci, crostacei, molluschi, vengono scambiati per cibo ed ingeriti, esattamente come avviene per i metalli pesanti e ftalati, sostanze chimiche derivanti dal petrolio e utilizzate per migliorare la flessibilità e modellabilità delle materie plastiche.
Ogni anno 12 milioni di tonnellate di plastica finiscono in mare, a meno di un’inversione di marcia, secondo il World Economic Forum, saranno 250 milioni già nel 2025. Solo il Mediterraneo, uno dei mari più inquinanti del pianeta, sembra riceverne qualcosa come 200mila ed in media, più di 1 milione di microplastiche per chilometro quadrato ne invadono le acque, andando a rappresentare un’emergenza ambientale e di conseguenza, entrando a far parte della catena alimentare, un rischio per la salute umana, sebbene non vi siano ancora studi che possano certificarne gli effetti.
La presenza di microplastiche è stata segnalata in alimenti, in campioni d’aria e se risulta ancora impossibile calcolare i pericoli di un’esposizione cronica, il fatto che questi inquinanti finiscano nel nostro organismo, desta ovvie preoccupazioni. I possibili impatti sull’uomo, così come per gli organismi marini, derivano dalla miscela chimica in esse presenti, per elevate concentrazioni di elementi come il dicloro-difenil-tricloroetano (DDT), i policlorobifenili, noti anche con la sigla PCB, composti che possono interferire con il sistema immunitario ed endocrino umano.
A fine ottobre del 2017 il famoso naturalista inglese David Attenborough, attraverso le reti della BBC, ha presentato una serie di documentari dal nome ‘Blu Planet II’, sette episodi che hanno raccontato l’affascinante mondo degli abissi, l’ambiente meno esplorato della Terra, ma che al contempo hanno mostrato gli effetti devastanti della plastica sull’ecosistema marino, suscitando immediate reazioni ed anche Buckingham Palace non rimase indifferente.
Lo scorso 18 aprile, Theresa May, primo ministro britannico, durante il summit con i capi di governo del Commonwealth, organizzato per cercare nuove soluzioni all’inquinamento marino, ha manifestato l’intenzione di mettere al bando cotton fioc non biodegradabili, cannucce e cucchiaini di plastica. Provvedimenti che andrebbero a seguire quelli già messi in atto, come il divieto alle microsfere nei prodotti di cosmesi, il taglio all’utilizzo dei sacchetti di plastica e soprattutto l’introduzione di un sistema di vuoto a rendere per le bottiglie.
Bere l’acqua e non la plastica
L’Italia ha già adottato molte misure per contrastare l’inquinamento da plastica, ma quello delle bottiglie, è un problema che la tocca significativamente. Secondo il report ‘Acque in bottiglia. Un’anomalia tutta italiana’, presentato da Legambiente ed Altraeconomia, con una media di 206 litri l’anno procapite, l’Italia è il secondo paese al mondo per consumo di acqua in bottiglie di plastica, per un «giro d’affari stimato intorno ai 10 miliardi euro all’anno, con un fatturato per le sole aziende imbottigliatrici che i rapporti di settore stimano in 2,8 miliardi di euro, di cui solo lo 0,6% arriva nelle casse dello Stato.»
Un comportamento che mette in evidenza la diffidenza verso l’acqua di rubinetto, ma a rimetterci sono l’ambiente e i cittadini stessi, convinti che l’acqua in bottiglia sia maggiormente controllata e di qualità migliore, incrementando così un business che non ha conosciuto crisi e che è in continuo aumento.
Una crescita motivata anche dal fatto che per le aziende imbottigliatrici, il costo al litro è in media di 1 millesimo di euro, ragione per cui l’associazione ambientalista, oltre a chiedere che la concessione di beni naturali venga sottoposta a severi controlli di assegnazione, per evitare che questi vengano gestiti come proprietà privata a vantaggio di pochi, invita all’introduzione di un canone minimo di almeno 2 centesimi al litro. Cifra comunque irrisoria, ma che permetterebbe alle Regioni di veder incrementare gli incassi di «almeno 280 milioni di euro l’anno – afferma Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente – da reinvestire in politiche e interventi in favore dell’acqua di rubinetto e per la tutela di della risorsa idrica, oggi messa a dura prova anche dai cambiamenti climatici e dalle continue emergenze siccità.»
In Italia infatti, benché le criticità non vadano a colpire l’intero territorio, sono noti i problemi del sistema idrico, la dispersione è quasi il doppio rispetto alla media europea e nell’arco dell’anno, si presentano puntualmente situazioni di erogazione irregolare e razionamento.
Episodi che ovviamente vanno a minare la fiducia dei consumatori, così come accade quando emergono casi di contaminazione, ma secondo Andrea Minutolo, coordinatore scientifico di Legambiente e curatore del rapporto, «Si tratta però di situazioni puntuali per lo più note e segnalate dalle autorità competenti. I controlli sull’acqua che arriva nelle nostre case sono molto accurati e frequenti (a Roma ad esempio vengono eseguiti circa 250mila controlli all’anno) e la normativa è in continuo aggiornamento, a livello europeo, con la discussione iniziata nel 1 febbraio scorso della nuova direttiva sulle acque potabili, il cui obiettivo è proprio quello di incrementare l’utilizzo di acqua di rubinetto e ridurre l’eccessivo consumo di bottiglie di plastica, e nazionale, dove si sta sperimentando lo strumento dei Water Safety Plan. Quest’ultimo si pone l’obiettivo di prevenire i problemi qualitativi sulle acque potabili e al tempo stesso rafforza la rete dei controlli e le modalità di comunicazione, informazione e trasparenza.»
Il Water Safety Plan, introdotto dalla normativa europea, è un sistema di gestione del rischio che si estende sull’intera rete idrica dalla captazione all’utenza finale ed è considerato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, il metodo migliore per garantire che l’acqua sia sicura e idonea al consumo umano, laddove per consumo non si intende il solo bere, ma ogni suo utilizzo quotidiano.
Nel rapporto quindi, si fa notare come l’acqua in bottiglia, se da una parte è tutt’oggi di vitale importanza per oltre due miliardi di persone, quelle cioè che nel mondo non hanno accesso all’acqua potabile, l’inutile consumo da parte di coloro che potrebbero usufruire di quella di rubinetto, fa sì che costituisca motivo di sempre maggior preoccupazione per gli effetti nocivi sull’intero ecosistema, tanto più che Orb Media, organizzazione no-profit statunitense fondata dalla giornalista Molly Bingham, ha condotto uno studio dal quale emerge che anche l’acqua minerale, è contaminata dalle microplastiche.
La ricerca è stata effettuata su un campione di 250 bottiglie messe in commercio da 11 marchi leader del settore, provenienti da 19 paesi dei cinque continenti ed il risultato è che nel 93% delle acque, è rilevata un diffusa contaminazione di detriti di plastica, tra cui il nylon con il 16%, il polietilentereftalato (PET) con circa il 6% e il già citato polipropilene, che costituiva il 54% delle particelle più grandi.
Ognuno di noi è dunque chiamato a responsabilizzarsi e adottare accorgimenti rivolti a salvaguardare la salute del pianeta e di conseguenza la propria, ma lo stesso sono invitate a fare le industrie, ancora lente nel dare una risposta al problema. Questo è quanto chiede Greenpeace, attraverso l’appello diretto alle grandi multinazionali del cibo, affinché abbandonino l’uso di materiali plastici usa e getta. L’associazione ambientalista è infatti dell’idea che anche per le aziende sia giunto il momento di far la loro parte, in quanto «se il mare è pieno di plastica la colpa è soprattutto di chi per profitto continua a produrla, venderla e utilizzarla, anche se non necessaria.»
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