Arnica e Artiglio del diavolo, ancestrali piante curative
Piante ben note in ambito fitoterapico, Arnica montana e Artiglio del diavolo, in virtù d’innumerevoli proprietà, fin dall’antichità vantano ruolo di provvidenziale panacea.
In ogni aspetto della natura, c’è qualcosa di meraviglioso.
Aristotele
Testimonianze d’uso di piante a fini terapeutici si perdono nella notte dei tempi, avendo, fin dall’alba della civiltà, popoli d’ogni latitudine trovato in esse, non solo riparo, risorsa alimentare, materiale da abbigliamento, lavoro, costruzione e calore, ma appunto anche preziosa fonte curativa e di prevenzione, scoprendone i poteri medicamentosi e fruendone, inconsapevolmente gettando le basi della fitoterapia, scienza rivolta al raggiungimento del benessere psicofisico mediante l’ausilio dei principi attivi di vegetali o derivati ed esordita con tale termine — composto dai vocaboli greci phytón, «pianta» e therapéia, «cura» — in Précis de phytothérapie: essais de thérapeutique par les plantes françaises, trattato edito nel 1922 a firma del medico francese, nel 1913 coniatore del vocabolo, Henri Leclerc (1870-1955).
Primordiale fitoterapia fu però addirittura precedente alla nascita della scrittura, il passaggio di nozioni avvenendo oralmente e tramite condivisione di esperienze, i più datati documenti a riguardo essendo rocciose tavolette, custodite e visibili al museo del Louvre, sulle quali i medici Sumeri di Nippur — fra le più antiche città delle Mesopotamia e luogo di venerazione di Enlil, dio della terra, dell’aria, del vento e delle tempeste — incisero le loro conoscenze, come peraltro compiuto dagli Assiro-Babilonesi di Ninive — celeberrima cittadina assira situata sulla sponda sinistra del Tigri, a nord del paese, sebbene svariati riferimenti alla pratica siano distribuiti altrove, come fra pagine bibliche, sul papiro detto Smith, poiché nel 1862 acquistato dal commerciante e collezionista statunitense Edwin Smith (1822-1906), sul rotolo Ebers, proprietà del romanziere tedesco Georg Moritz Ebers (1837-1898) ed ancora le stesse piante raffigurate sui muri del tempio di Karnak, verosimilmente il più grande complesso templare edificato sul pianeta, nel minuscolo villaggio omonimo, posto sulle rive del Nilo.
Conoscenze storiche nel corso del tempo raccolte ed elaborate da più menti, la Grecia antica facendosi culla di molteplici metodi diagnostici e prognostici in particolare attraverso l’intelletto del filosofo, logico e scienziato, Aristotele (384 a.C – 322 a.C.) e dell’aforista, geografo e padre della medicina, Ippocrate di Coo (460 a.C. circa – 377 a.C.), di secolo in secolo sapere ispirando opere d’altrettanto menti eccelse tra cui Naturalis Historia, enciclopedica antologia dello scrittore, naturalista, filosofo, comandante militare e governatore provinciale romano Caio Plinio Secondo, alla storia come Plinio il Vecchio (23-79), costituita da 37 testi, dei quali ben 7 dedicati alle proprietà delle piante, le prodigiose virtù delle stesse cavalcando migliaia di anni e di tomi, fino a giungere ai nostri giorni e graziare dei loro giovamenti corpo e spirito, fra la miriade esistenti, l’Arnica montana e l’Artiglio del diavolo, insostituibili alleati nel trattamento di tediosi dolo disturbi.
Arnica montana
Erba medicinale, perenne e ghiandulosa, della famiglia Asteraceae, l’Arnica montana — nomenclatura binomiale ad opera del naturalista, medico, botanico e accademico svedese Carl Nilsson Linnaeus (1707-1778) – è una pianta la cui descrizione venne effettuata nel XVI secolo, dal botanico e medico tedesco, celebre per l’erbario Neuw Kreuterbuch del 1588, Jacob Dietrich (1522-1590), latinizzato in Jacobus Theodorus Tabernaemontanus, sebbene spetti alla veggente, consigliera politica, medico, erborista, nonché linguista. poetessa, scrittrice, drammaturga, musicista, teologa, monaca benedettina e fautrice del legame tra salute dell’intestino e stati d’animo, Ildegarda di Bingen (1098-1179), il riconoscimento dell’averla citata per la prima volta nei suoi trattati enciclopedici.
Varie sono le ipotesi d’origine del termine Arnica, fra le quali il crederla proveniente da un’alterazione del tardo latino Ptàrmica, quest’ultimo derivante dal greco πταρμική, «starnutatoria» (v. Pietro Andrea Mattioli (1501-1578), I discorsi ne i sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della Materia Medicinale, 1559), il che verosimilmente attribuibile agli starnuti indotti nell’annusarla, seppure, parallelamente, teoria alternativa venne avanzata da altri letterati, fautori del ritenere vocabolo ispirazione del greco Arnakis, «pelle d’agnello», in allusione alla tenue consistenza del fogliame.
L’Arnica montana è autoctona del continente europeo, prevalentemente della Scandinavia, della Penisola iberica e della catena montuosa dei Carpazi, con rarissima presenza in suolo italiano e completa assenza in quello britannico, il suo areale delineato in zone alpine comprese fra i 500 e i 2500 metri sul livello del mare e l’ottimale terreno in cui la stessa affonda radici essendo povero e a substrato acido, erigendosi per un altezza compresa fra i 20 e i 60 centimetri, con gialla infiorescenza che nella sua tipicità di famiglia viene definita capolino, ossia un raggruppamento di piccolissimi fiori, detti flosculi e inseriti nel ricettacolo, che si presentano in maniera talmente coesa da apparire come un unico fiore, esempio per antonomasia sono i capolini della Camomilla comune (Matricaria chamomilla), in tonda compattezza posati con soavità sulla candida corona di petali sottostante.
A livello morfologico, l’Arnica montana rientra nella definizione d’emicriptofita rosulata, comprendenti gli organismi vegetali caratterizzati da peculiarità anatomiche e fisiologiche in grado di proteggere. durante le stagioni avverse, i tessuti embrionali delle gemme, le quali, svernanti a terra e dunque esposte a neve e lettiera — miscuglio di sostanze organiche in via di decomposizione — riprendono ad evolvere al ristabilirsi di condizioni favorevoli. Ornata di foglie verdi disposte a raggiera, esse presentano duplice tipologia:
• le basali, larghe dai 2/4cm, per una lunghezza di 10/15, sono situate appunto sulla sua base in maniera opposta e incrociata, con forma ellittica, sporgenti ad angolo retto, picciolate (con uno o più piccioli), con lamina leggermente dentellata, lievemente ricoperte di una densa e sottile peluria nella parte superiore, lisce e legnose in quella inferiore;
• le cauline, posizionate, solitamente a coppie opposte, nella parte aerea del suo eretto fusto, anche se non sempre presenti, di dimensioni inferiori alle basali, contorno laminare lanceolato e sessili (direttamente attaccate al ramo, data l’assenza di peduncolo); sono inoltre bratteiformi, ovvero con avvenuta trasformazione finalizzata all’espletare una particolare funzione.
I capolini dell’arnica montana sono generalmente solitari, sebbene se ne possano trovare piccoli gruppi di due o tre esemplari adagiati su rami opposti e la loro conformazione prevede:
• fiori ligulati (con corolla aperta da una parte, come fosse una sorta di piccola lingua) e zigomorfi (con un solo piano di simmetria bilaterale), di tonalità giallo ambrato, tridentati nelle estremità e svettanti in ogni direzione;
• fiori tubulosi e attinomorfi (con differenti piani di simmetria raggiata), ermafroditi e pennellati di arancio o giallo- bruno.
La fioritura avviene fra maggio a agosto, rilasciando nell’aria un piacevole aroma e i suoi petali preziosi custodi di:
• olii essenziali: antinfiammatori, analgesici, benefici in caso di traumi articolari, delle ossa, del sistema circolatorio e muscolare, inoltre estremamente efficaci nel ridurre il gonfiore conseguente all’evento accidentale;
• flavonoidi: la più vasta e importante categoria di fitonutrienti, con proprietà antiossidanti, di protezione sul sistema nervoso e cardiovascolare, oltre che preventive di patologie oncologiche e con effetto riparativo sui danni cellulari;
• polifenoli: antiinfiammatori, contrastanti l’invecchiamento per effetto antiossidativo, equilibranti la colesterolemia, antibatterici, antipruriginosi, antiparassitari e anticitotossici;
• tannini: sostanze polifenoliche con deciso ruolo di difesa e salvaguardia della salute, astringenti, emostatici, andtidiarroici, antibatterici e antiflogistici.
Suoi costituenti principali sono:
• manganese: importante energetico protettivo sul sistema immunitario-scheletrico e significativo per l’attività riproduttiva e la coagulazione del sangue;
• xantofille: carotenoidi alleati nella prevenzione del cancro e della vista;
• lattoni sesquiterpenici — largamente diffusi nel mondo vegetale e interessante oggetto di studio per la loro attività biologica — fra i quali l’elenalina, decisivo nel ridurre gli stati di infiammazione;
• cumarine: antiedemigene, capillarotrope (migliorano la funzionalità e la resistenza dei vasi capillari), sananti e rigeneranti;
• terpeni: biomolecole antimicotiche, ansiolitiche, antisettiche, broncodilatatorie e rilassanti;
• acido cinnamico: epatoprotettivo, antidiabetico e antiossidante;
I frutti dell’Arnica montana sono acheni (secchi, con pericarpo tenace, estensioni membranose e privi di apertura a raggiunta maturità), mentre i rizomi che l’ancorano al terreno sono di colore molto scuro, fibrosi e con andamento pressoché obliquo e orizzontale.
Dalle sue foglie si può ricavare una tipologia di tabacco da pipa, spesso in uso fra gli abitanti dei monti, tanto quanto quello da fiuto, ottenuto per essiccazione, motivo per cui la stessa viene anche soprannominata “china dei poveri” o “tabacco di montagna”, inoltre anche adoperata come ingrediente di svariati amari, in fin dai tempi più antichi i suoi estratti sorseggiati con evidente abilità conoscitiva, data la sua tossicità ad elevate dosi, in ogni caso da secoli conosciuta per le sue peculiari virtù antidolorifiche, sedanti, revulsive e cicatrizzanti, attualmente raggiungendo l’eccellenza attraverso le formulazioni più diffuse in olio, pomata, spray oppure gel, copiosamente impiegata come coadiuvante degli stati di malessere fisico susseguenti a lievi traumi, sofferenza muscolo scheletrica o di tipo artrosico ed edemi, che la stessa ha il potere di far riassorbire egregiamente, una panacea le cui uniche controindicazioni, a livello topico, sussistono in casi d’allergie ad uno dei principi attivi propri alla stessa, in virtù dei quali le indicazioni ne suggeriscono l’applicazione soprattutto in caso d’edemi, ematomi, contusioni ed eventi traumatici in genere, siano essi stiramenti muscolari o dolenze successive ad interventi chirurgici, inoltre avvalendosene allo scopo di lenire fastidi conseguenti a punture d’insetti o stati infiammatori epidermici, qualora ovviamente le varie manifestazioni non abbiano un’entità che preveda un approfondimento medico, in ogni caso sempre raccomandato.
L’Arnica montana non cresce in luoghi pianeggianti ed anche nei paesi d’origine la sua crescita è gradatamente diminuita in conseguenza ad azioni antropiche deleterie sugli ecosistemi, per questa ragione il miracoloso vegetale rientrando nella delicata fascia della flora protetta, oltretutto essendo una delle piante officinali delle quali usufruiscono le popolazioni dell’intero pianeta, cosciente atteggiamento sarebbe dunque quello di non coglierla personalmente, ma di acquistarla presso farmacie, erboristerie o botteghe che ne trattino il commercio, nel riconoscente rispetto del suo esistere, unito al diritto di essere salvaguardata, come soave figlia della natura e come generosa sorella dell’umanità.
Nel mondo c’è un ordine naturale di farmacie, poiché tutti i prati e i pascoli, tutte le montagne e colline sono farmacie.
Paracelso
Artiglio del diavolo
Appartiene invece alla famiglia Pedaliaceae il cosiddetto, Artiglio del diavolo, intrigante epiteto dell’Harpagophytum procumbens, denominazione scientifica risalente al 1840 e atta a classificare una pianta erbacea, perenne e strisciante, tipica sudafricana, precisamente nelle savane e nel deserto Kalahari, dalle popolazioni fruito fin dall’antichità, poi espansosi a livello mondiale grazie all’importazione entro confini europei da parte dei germanici occupanti la Namibia.
Oggigiorno la Namibia è uno stato, dal 1990 indipendente, dell’Africa meridionale — confinante con Angola, Botswana, Sudafrica e Zambia — che fra il 1884 e il 1919 fu colonia dell’Impero tedesco (1871-1918), periodo durante il quale l’Artiglio del diavolo non passò di certo inosservato, ben presto divenendo oggetto d’interesse, considerandone gli stupefacenti risultati in ambito terapeutico e, plausibilmente, catturando l’occhio la sua bizzarra morfologia che l’ha dotato di frutti, di rosso-violacea colorazione, provvisti di uncini d’un paio di centimetri, sulle capsulose estremità, che si rivelano vere e proprie trappole per piccoli roditori che vi restino malauguratamente impigliati, temibile ruolo che gli è valso aggiuntive apposizioni quali “ragno di legno” e “pianta rampino”, a conferma di quanto i suoi innati artigli possano essere dannosi.
La “pianta rampino” è una radice tuberosa dalla quale nascono molte radici secondarie a bulbo che sono la sua parte attiva e il periodo migliore per la loro raccolta è la fine della stagione invernale, in quanto contenenti abbondante acqua e per scongiurare proliferazione di batteri, microorganismi o funghi patogeni, il primo accorgimento è quello di farle a rondelle, con successiva essiccazione; possono raggiungere la lunghezza di 20 centimetri e le quattro appendici dei frutti, d’incredibile durezza, con i loro cunei sono in grado di penetrare nel corpo della malcapitata fauna, non lasciandole scampo alcuno, data l’impossibilità di divincolarsene, al contrario ferendosi ulteriormente nei concitati movimenti messi in atto nel tentativo, purtroppo vano, di svincolarsi e ritrovare la desiderata libertà.
Una corporatura da guerriero che nonostante tutto nasconde un animo benevolo, magistralmente traendo benessere dal suo estratto, come corroborante amaro ed altrettanto sotto forma di pomata, sia i più antichi abitanti dell’Africa australe, i Boscimani — anche detti San, Khwe o Basarwa — sia i successivi popoli coltivatori Bantu e Khoikhoi, dediti a pratiche d’allevamento, del ragno di legno coadiuvandosi in caso di malesseri gastrici, intestinali, reumatoidi, articolari, infettivi e piretici.
Diffusa usanza era anche quella di farne impacchi freschi da poggiare sul ventre per lenire i dolori del parto e dall’Artiglio del diavolo ottenendo anche un valido effetto digestivo, proprietà che allora venivano sperimentate direttamente “sul campo”, certamente al di fuori di qualsiasi avvallo medico-scientifico che non fosse la diretta esperienza tramandata di generazione in generazione, vantaggi dei quali attualmente si conoscono le dirette cause, difatti, fra la quarantina di principi attivi presenti nell’Artiglio del diavolo e ancora in fase di studio — dei quali l’harpagochinone è il principale — alcuni costituenti bioterapici sono:
• chinoni: appunto l’harpagochinone, e fitosteroli, stigmasterolo e beta-sitosterolo, inibenti la sintesi delle prostaglandine, con derivata normalizzazione della soglia del dolore;
• acidi fenolici: precisamente il cinnamico e il caffeico, anti-invecchiamento, contrastanti le infiammazioni e antimutageni;
• bioflavonoidi: dalle capacità sovradescritte;
• glicolisidi iridodidi: nello specifico arpagide, arpagoside e procumbide: metaboliti secondari particolarmente efficaci nella biosintesi degli alcalodi, quindi antalgici, antireumatici, spasmolitici, ipotensivi, antiallergici e antiinfiammatori;
• acidi triterpenici: l’oleanolitico, l’acetico e l’urolico, antiartritici e antiflogistici;
• stachiosio: oligosaccaride da considerare attentamente solo in casi d’ingestione alimentare, data la sua presenza in alcune leguminose, betoniche e brasicacee, poiché non digeribile dall’uomo, in quanto in lui assente l’enzima che lo sintetizza, ciò rischiando di creare, una volta giunto nell’ultima parte del tratto intestinale — nonostante il metabolismo messo in atto dalla flora batterica — fastidiosi stati di flatulenza;
• β-sitosterolo: inibitore dell’attività delle prostaglandine, acutizzanti il dolore, pertanto con un’azione a medio termine, di circa una settimana, periodo durante il quale viene messo in moto il blocco di sintesi delle stesse.
Le preparazioni topiche in commercio sono svariate e oltre alla classica pomata — sempre indicata per vaste zone e massaggi — particolarmente consigliato in caso di applicazioni localizzate, soprattutto nella zona delle spalle, è l’unguento in preparazione solida, per la sua alta presenza di olii essenziali al suo interno, mentre antica preparazione farmaceutica, specialmente in caso di dolori cervicali o delle giunture, è il linimento, che può essere utilizzato insieme alla pomata, per potenziarne l’effetto analgesico e ridurne i tempi, con il premuroso suggerimento di scegliere preparati d’origine completamente vegetale e non petrolifera; veloce e innovativo è invece il cerotto, da applicare facilmente nella zona dolente.
L’associazione dell’applicazione topica alla somministrazione orale ottimizza la guarigione, tenendo conto del fatto che le capsule o tavolette — pensate in tale composizione per eludere il gusto amaro della radice — preposte hanno il vantaggio di non irritare la mucosa gastrica, ovviamente qualora assunte nelle corrette dosi, secondo prescrizione medica.
Per chi lo volesse assimilare sotto forma d’infuso, non andrebbe dimenticato lo stimolo del gusto amarognolo sulla produzione dei succhi gastrici, situazione che, in casi di gastriti o similari, sarebbe deleteria, negli altri casi esortazione di massima essendo quella di sorseggiarlo a stomaco pieno, dopo aver frantumato alcune radici, ammollandole in acqua bollente e lasciandole per otto ore a temperatura ambiente, all’opposto, qualora la soluzione domestica fai da te non sia la prediletta, acquistando direttamente i preparati facilmente reperibili in varie tipologie di marca; la tisana potrebbe essere arricchita con gocce di tintura madre, anche detta soluzione idroalcolica, favorenti la funzione digestiva a la funzionalità articolare; per il gusto amarognolo è da evitare la sua sommisistrazione in fase d’allattamento.
In linea di massima, per quanto concerne eventi di malessere acuto sembrerebbe migliore il prodotto fresco, viceversa nelle patologie croniche quello essiccato.
Interessante articolo redatto dai medici ricercatori Sarah Brien, George Lewith e Gerry McGregor, apparso sul National Center for Biotechnology Information (NCBI), analizza l’Artiglio del diavolo come trattamento nelle patologie conseguenti all’artrosi e le sue azioni analgesiche sono regolarmente esaminate e studiate dalla scienza per trarne i massimi benefici possibili in sicurezza, a livello tradizionale il prodotto venendo principalmente impiegato, attualmente, come coadiuvante antidolorifico in casi di gotta, artrite reumatoide, lombalgia, emicrania, mialgia, tendinite, dispepsia (per incentivare l’appetito) oltre che stati epiretici o allergici, ovviamente mai scordando di approfondire qualsiasi disturbo tramite consulto medico e tenendo presente come, in corso di gravidanza, la sua azione stimolante sulle contrazioni, lo renda assolutamente controindicato.
L’Harpagophytum procumbens, definito “benefattore delle articolazioni”, etimologicamente riconduce al latino harpagonis, «arpione» e phyton, «pianta», con appellativo collegato al significato letterale di procumbus, ossia «piegarsi in avanti», per l’andamento prostrato dello stesso; varcando invece confini greci, harpagos, darebbe alternativa paternità alla pianta e qualunque sia l’inoppugnabile verità, fra le due o forse altre esistenti, l’Artiglio del diavolo si manifesta in affascinante bellezza e inquietante presenza, all’interno delle sue sembianze racchiudendo un’immenso patrimonio a servizio della salute umana.
In ogni passeggiata nella natura, l’uomo riceve molto di più di ciò che cerca.
John Muir
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