Albatro, il regal pennuto in volo tra cieli e poesia
Elegante ballerino sulle note del vento, l’albatro è straordinaria creatura la cui grazia, fluttuante fra mari e cieli, si posa in terraferma nell’atto dell’amare, imperituro sentimento fedelmente rivolto, nell’incredibile magnificenza della fedeltà animale, ad un solo cuore.
Mi bastava abbandonare al vento il mio cuore, come gli uccelli. Perché non potevo buttarlo via, mi dissi. A volte era pesante e cupo, era vero, ma succedeva anche che portato in volo dal vento riuscisse a vedere attraverso l’eternità.
Haruki Murakami
Appartenente alla famiglia Diomedeidae, nell’ordine Procellariidae, l’albatro è uccello oceanico la cui diffusione copre numerosi mari, in particolar modo gli oceani meridionali e la parte settentrionale del Pacifico, ma non più dell’Atlantico, ove la sua presenza è ristretta a reperti fossili, privilegiando isole in cui la forte azione del vento gli sia favorevole all’attività di volo, prevedendone il decollo un’impegnativa dose d’energia.
Fra i volatili più grandi del pianeta, le loro dimensioni variano in grandezza rispetto alla specie ed il primato spetta all’albatro urlatore, scientificamente classificato come Diomedea exulans, la cui apertura alare non ha rivali, riuscendo a raggiungere un ampiezza che abbondantemente supera i 3 metri, mentre per le specie più piccole si arriva comunque a misure di poco inferiori ai 2 metri, per una lunghezza che supera il metro ed un peso che può arrivare ai 12 chilogrammi.
La conformazione delle loro lunghe e strette ali, vigorose e leggermente incurvate, prevede un progressivo affusolamento alle estremità, in favor d’una ottimale prestazione aerodinamica, medesima robustezza caratterizza anche il becco, una sorta d’uncino, fondamentale alla pesca, che s’interseca in una testa di notevole grandezza, a completamento d’un affascinante corpo che in età adulta appare di colore bianco e sul quale pennellate di nero sono state aggiunte da Madre Natura sia alla coda che all’ali, mentre negli esemplari più giovani il piumaggio è tinteggiato in sfumature marroni-grigiastre.
All’interno delle acque oceaniche gli stessi provvedono al loro sostentamento, lievemente differenziato a seconda della specie, durante le ore diurne, nell’insieme cibandosi di piccoli granchi, molluschi, crostacei, calamari e pesci in genere, con predilezione per quelli particolarmente grassi, come seppie o krill (invertebrati dell’ordine Euphausiacea), approfittando talvolta degli scarti lasciati alle onde dalle navi dopo lavorazione sul pescato.
La poetica dell’albatro inizia dal rapporto di tipo monogamico che gli stessi intrecciano con la compagna, protagonista di canti, danze ed effusioni durante le quali i due futuri amanti si strofinano reciprocamente le teste, cinguettando, carezzandosi le piume con il becco ed abbracciandosi con le ali, comportamento ovviamente scaturente da necessità adattiva nel quale tuttavia non si possa non ceder alla tentazione di leggerne anche un certo legame affettivo, specialmente pensando al riunirsi della coppia, dopo ogni separazione avvenuta a svezzamento concluso, anche a distanza di numerosi anni.
L’accoppiamento, generalmente avviene a partire dal settimo anno d’età, nonostante la maturazione sessuale sia stata raggiunta attorno ai 3 o 4 anni, e a seguito dello stesso verrà deposto un unico uovo, del peso di mezzo chilogrammo circa, per una ventina di centimetri di lunghezza, la cui incubazione dura un trimestre ed in previsione della benevola accoglienza ovattato nido, largo circa un metro nella parte bassa 50 centimetri sulla sommità, viene accuratamente realizzato, solitamente dal maschio, finemente intessendo terra con frantumi vegetali.
La genitoriale cova coinvolge entrambi i componenti della coppia, armoniosamente in responsabile alternanza nel donar calore al nascituro e nella premurosa ricerca di cibo per lo stesso che, una volta sgusciato alla vita, impiegherà circa nove mesi per rendersi autonomo, quindi gestendosi nel volo e nel nutrimento, pertanto di nuovo concedendo al proprio padre ed alla propria madre la possibilità di riunirsi nel desiderio di nuova figliolanza, con congiungimento, sempre nel medesimo posto, che eventualmente avverrà non prima di due anni a distanza dal precedente e nell’inconsapevole, quanto di smisurato valore ambientale, resistere alla minaccia d’estinzione che offende nel profondo parte delle specie, causa prima l’inquinamento, la frequente ed accidentale ingestione di plastica e l’antropico, quanto dissennato, sfregio sugli habitat, riprovevole atto di barbarie sull’incantevole opera d’arte che son gli ecosistemi, dei quali ogni anello è indispensabile a pari merito e diritto.
Solitario convinto, il volare rimane la sua attività prediletta, trascorrendo infatti il volatile gran parte della sua esistenza nei cieli, preferendo l’esser sospeso al marciare a terra, attività nella quale lo stesso è abbastanza impedito, consideratene le corte gambe e le membrane fra le dita delle zampe.
Tecnica di volata oggetto di numerosi studi è quella che vien definita “volo veleggiato dinamico”, una tattica in quattro stadi, ciclicamente ripetuti, com’è stato scoperto da alcuni ricercatori della Technische Universitat di Monaco di Baviera i quali, nel 2012, si son zelantemente posti ad osservazione, per la durata di cinque settimane circa, di 16 albatri urlatori delle isole Kerguelen, nell’Oceano Indiano, tramite applicazione di sofisticati trasmettitori gps, del lieve peso d’un etto, in grado di rilevare la loro posizione per ben una decina di volte al secondo, poi pubblicando i risultati sulla rivista scientifica Plos One.
La prima fase, il decollare, è la più faticosa, attuata in strettissima aderenza alla direzionalità dei venti; a seguire una virata, compiuta all’apice di risalita, dirigendosi verso il basso, effettuata controvento, quindi una seconda virata verso l’alto ed infine la ripresa di quota, in completo assestamento alle correnti d’aria.
Essendo la forza del vento maggiore in alta quota il pennuto acquista maggior velocità nella discesa rispetto a quella che perde nel risalire e l’eccedenza energica, gli consente così di poter continuare il viaggio senza bisogno di sbattere le ali, permettendogli quindi di percorrere un’immane moltitudine di chilometri, persino 900 in un giorno secondo la rivista scientifica Nature, sforzo che, altrimenti, non sarebbe possibile sostenere per elevato dispendio d’energia.
Abile conoscitore di venti marini e correnti oceaniche, l’albatro ne sa danzar le velocità sulle creste delle onde o a cavallo dell’aria che rivisita se stessa sulla pendenza delle coste, in tal modo inserendosi nei flussi ed amalgamandosi in essi, quindi giovandone nello spettacolare volo di cui è esemplare maestro ed attraverso una particolare conformazione fisica che, arrivando a fissare l’ala in una determinata posizione, grazie a dei tendini posti all’altezza della scapola, ne scongiura l’eccessivo sforzo muscolare.
A differenza dei gabbiani, con i quali l’albatro viene talvolta confuso, non è semplice poter assistere alle meraviglie del suo solcare il celeste, essendo appunto che rispetto agli stessi, facilmente osservabili nella loro tipica frequentazione costiera, oltre al fatto che a ridurre maggiormente le possibilità di visionarlo è il suo restare a terra solamente per l’accoppiamento, il volatile predilige sperdute zone degli oceani, concedendosi nelle sue acrobazie solamente a pochi fortunati ai quali venga concesso l’estatico privilegio della sua visione.
Albatro tra cieli, ballate e poesie
Fauna e flora fin dall’antichità sono state protagoniste di simbologie varie, ritualità, medicamenti portentosi e quant’altro appagasse nell’umanità il desiderio di conoscere quanto di più arcano vi fosse intrinseco all’esistenza.
Gli animali innanzitutto, sacrificati agli dèi in tempi remotissimi o ancor considerati sacri in epoche storiche in cui medesima devozione si ricollegava alla personificazione degli astri, ebbero un successivo ruolo d’assoluto protagonismo quando, estro dei primi favolisti in eruzione, pagine di pergamena li resero vettori di sapienza, srotolati nella narrazione di fiabe in cui agli stessi venne affibbiato metaforico ruolo d’insegnanti allo scopo di carpire, dalle loro gesta, quale fosse il giusto percorso da prediligere nell’ottica di un’esistenza in fede a etici e civili modelli di comportamento.
In salto di secoli tra Esopo, Fedro, La Fontaine e numerosi altri, le umanizzate bestie parlanti divennero occasione di rappresentare la vita nelle sue vesti or di farsa or di tragedia, sagacemente ed acutamente confrontando fra di loro atteggiamenti contrapposti, agli antipodi fra bene e male, per giungere ad un finale che, tramite morale conclusiva, ebbe l’intrinseca intenzione di farsi saggia guida all’elevarsi, allo stesso tempo dando modo all’autore d’inserire fra vocaboli velate accuse alla società, a difesa delle persone più deboli, allora, e talvolta come ora, bistrattate dalla cecità dei poteri forti.
Allegoria d’inchiostro che si delineò cronologicamente proseguendo la sua rotazione, come piccola sfera terrestre della quale interpretare il moto traslandolo all’interiorità sulla scia d’interrogativi riguardo al destino, fra più scrittori e poeti, così pizzicando la letteratura mondiale e agli stessi concedendo possibilità di cantare, fra prosa e poesia, l’intera gamma delle virtù e dei vizi umani, tramite le immaginarie voci delle più svariate specie animali.
Fu in pieno Romanticismo inglese che similmente avvenne per il poeta, filosofo e critico letterario Samuel Taylor Coleridge (1772-1834), agganciato all’albatro nel suo identificarne creatura divina nell’opera, pubblicata nel 1798, The Rime Of The Ancient Mariner «La Ballata Del Vecchio Marinaio», all’interno della quale il funesto evento su cui ruota l’intera narrazione è l’uccisone dell’albatro, mandato da Dio come ad una ciurma, in preda ad una terribile bufera, per farsene guida attraverso gli iceberg ed incomprensibilmente ucciso, dopo nove giorni dalla sua apparizione, dal marinaio a capo della stessa, con conseguente vendetta della natura sull’intero equipaggio, di cui perisce di stenti ogni componente, tranne, appunto, lo stesso marinaio assassino, costretto dai compagni stremati, poco prima della loro morte, ad indossar al collo il cadavere del volatile ucciso a colpi di balestra.
La solitudine dell’uomo rimasto in balia del mare e dei propri rimorsi è la pena prevista dalla giustizia divina affinché lo stesso, avverso agli animali al punto da ucciderne uno senza pietà, soccomba al peso della propria condotta per poi rinascere a nuova consapevolezza e redimersi, iniziando ad amare le creature dell’onnipotente in ogni loro specie.
L’allegoria di fondo ricalca l’esistenza nella sua possibilità di commettere errori e nella capacità seguente di rendersene consci e porvi rimedio tramite lunghi periodi di sofferenza e riflessione, restituiti al peccatore protagonista della storia nel suo obbligatorio narrarne a chiunque incontri, sentitamente raccomandandogli di mantener ben saldo il legame con la natura ed i suoi figli, relazione simbolizzata dall’albatro che s’erige a pura rappresentazione dei più alti valori.
Umani pregi che il poeta Charles Pierre Baudelaire (1821-1867), oculatamente coglie e posa in versi nella poesia L’Albatro, quattro quartine a rime alternate contenute nella sezione Spleen et ideal della celeberrima opera Les Fleurs Du Mal, raccolta lirica contenente 100 poesie suddivise in sei sezioni (Spleen et ideal, Tableau parisien, Fleurs du mal, Révolte, Le vin e La mort), con prima pubblicazione, in sole 1300 copie, nel 1857 e seconda edizione, con sostituzione d’alcune poesie ed aggiunta di nuove, fra le quali la succitata, nel 1861.
L’Albatros
Souvent pour s’amuser, les hommes d’équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers.
À peine les ont-ils déposés sur les planches,
Que ces rois de l’azur, maladroits et honteux,
Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches
Comme des avirons traîner à côté d’eux.
Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!
Lui, naguère si beau, qu’il est comique et laid!
L’un agace son bec avec un brûle-gueule,
L’autre mime, en boitant, l’infirme qui volait!
Le Poëte est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l’archer;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l’empêchent de marcher.
L’albatro beaudelaireiano simboleggia la condizione del poeta nella società dei suoi tempi, uomo in carne ed ossa in grado di volare attraverso la sua arte e deriso dalla gente comune al pari dei marinai che importunarono il volatile; in quello che rimane il componimento più conosciuto del verseggiatore, quest’ultimo si paragona all’eleganza dell’albatro in volo, durante la fase di scrittura, al contrario maldestro ed amareggiato nel suo percepirsi incompreso e sbeffeggiato nelle frequentazioni di popolo, in pieno parallelismo alla goffaggine dell’uccello di camminare a terra, in verosimile alla ballata di Coleridge ch’egli non poteva non conoscere, dato il contenuto dei suoi versetti.
L’esternazione del suo intimo malessere, da lui ampliato alla generale condizione dei poetanti, divenne e diviene perla di lettura dalla quale trarre una profonda verità, a tutt’oggi ancora tristemente attuale, ossia la consapevolezza che il posseder una levatura d’animo, un sentire, una sensibilità estremamente spiccati e non comuni, sia rara dote e contemporanea condanna nel sentirsi percepiti e bollati nella propria diversità, che tuttavia ricchezza diviene qualora chi la possegga impari delicatamente a scorgerla senza dispercezione alcuna, quindi rendendola corteccia custodente il più sublime dono che si potesse ricevere.
Preziose letture che divengono possibilità ad ampio spettro di poter ritornare all’essenziale rapporto fra l’uomo e la natura che s’è perso fra le lusinghe del progresso, una possibilità concessa dall’albatro, nella rara eventualità di poterne osservare il volo dal vivo o anche solo immaginandolo, quindi decollando gli occhi al cielo, virandoli a tutta velocità in tuffo nel proprio cuore, raccogliendone le melodie più intime ed infine elevandosi con se stessi al di fuori di sé, sovrastando il palcoscenico della vita nel volo più lieve, appassionato, libero.
Nella gioia del volo l’uccello, qua e là, nel vuoto, va scrivendo parole senza alfabeto. Quando la mente vola si risveglia la mia voce, la penna descrive la gioia delle ali.
Rabindranath Tagore
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